A volte ci chiediamo cosa sia veramente “l’Arte” e cosa significhi di fatto “fare arte”. Continuiamo con le domande e con i dubbi, osserviamo un quadro o una scultura e non li capiamo. Perché? Non siamo abbastanza dotti o non siamo all’altezza? Qual è veramente “il fine”, “lo scopo” di un’opera d’arte? Io direi: suscitare in noi delle emozioni, lasciarci trasportare in qualcosa di meraviglioso, sognare, vivere, senza dover dare per forza una precisa spiegazione a tutto o dover avere una base culturale ed artistica alle spalle.

L’Arte è vita e la vita è fatta di storie, di racconti, di vissuto. L’Arte è un mezzo di espressione che può essere molto soggettivo. L’importante è appunto saper trasmettere qualcosa.

Antonio Guiotto, eclettico artista veneto, ci racconta la sua visione delle cose al riguardo.

Quando e da cosa è nata l’esigenza di “fare arte”?

Per rispondere devo fare un viaggio a ritroso nel tempo toccando alcune tappe fondamentali. Ricordo che fin da bambino ero rimasto affascinato dalle lezioni del mio maestro Franco, parliamo del periodo delle elementari. Lui ci faceva sperimentare e ci mostrava libri d’arte, probabilmente da lì è partito tutto, anche se, ho dovuto aspettare di avere 17 anni per affermare a me stesso e successivamente dire al “mondo” che da grande avrei fatto l’artista. È stato un processo lento fatto di scoperte, di curiosità e di tentativi. L’idea di “fare” qualcosa con le mie mani è sempre stato un atteggiamento tra la sfida e il piacere di accorgermi che imparavo facendo, sbagliando e rifacendo.

Poi mio nonno materno, il nonno Romolo, che non era un artista, ma aggiustava e costruiva oggetti ha aumentato questo mio piacere e fin dall’età di nove anni ho sempre utilizzato strumenti, anche pericolosi per un bambino, come trapani, mole da banco, seghetti, ecc., che alimentavano il mio desiderio di costruire. Successivamente mio padre ha influenzato moltissimo questa passione, anche lui non era un artista, era un imprenditore edile, da lui ho imparato l’amore per diversi materiali che ancora oggi utilizzo, come il cemento e altri materiali e oggetti usati in edilizia.

Ma la folgorazione, diciamo pure la “chiamata”, è arrivata durante una gita scolastica, avevo 17 anni. Durante quella gita ho conosciuto un artista, Antonio Gallezzi, che non ho più sentito né rivisto, ma il suo modo di vedere il mondo, di approcciarsi, mi ha fatto capire che essere un artista era ciò che volevo.

Tu come artista crei delle serie di lavori partendo dalla visione di alcune immagini che poi “trasferisci” in storie e racconti che hai vissuto in prima persona, quindi, per te “fare arte” significa soprattutto voler trasmettere degli episodi personali?

Diciamo che per me “fare arte” vuol dire raccontare storie, non necessariamente del tutto personali, ma sicuramente parto sempre da qualcosa che mi tocca personalmente. Per me “fare arte” vuol dire giocare, sperimentare, mescolare, fondere concetti, un po’ come uno scienziato autodidatta che cerca di scoprire qualcosa di nuovo partendo dalle informazioni che ha.

Ad esempio, come nel caso della serie Stratification, racconto il concetto che sta alla base della formazione della conoscenza; noi siamo la stratificazione di tutto ciò che abbiamo vissuto, delle persone che abbiamo incontrato, della musica che abbiamo ascoltato, ecc., o come nel caso della serie Qualcosa accade, lentamente, ma accade, lascio che sia il tempo ed altri fattori ambientali a portare a termine l’opera: in questo caso è proprio un atteggiamento da “piccolo chimico”.

In alcuni casi le tue opere potrebbero portare l’osservatore a pensare che esse siano uno scherno, una sorta di provocazione. Mi viene in mente, ad esempio, La pecora nera oppure anche Gnaro de schei o ancora Chi perde lava i piatti. Cosa ci dici al riguardo?

Mi piace che in alcuni lavori ci sia anche una componente ironica, sai, chi non scherza non è una persona seria. Anche se non mi piace provocare per il gusto di farlo, ma a volte si tratta di un tentativo di aumentare la complicità tra me e chi vede il mio lavoro.

Non ho la presunzione di mettere in difficoltà gli altri, piuttosto ho sempre l’esigenza di mettermi in discussione. Solo in quel caso posso essere sicuro di aver fatto il mio dovere, non solo come artista o creativo, bensì come persona. Rievocare certe esigenze, parlare dei miei difetti o di alcune vicende spiacevoli mi serve per essere sicuro di averle elaborate e trovarmi sempre più vicino ad una risoluzione. Ed è molto più economico che andare in terapia.

Ad un certo punto della tua vita hai sentito il bisogno di lasciare tutto e di partire per un lungo viaggio, precisamente per il cammino di Santiago de Compostela, che hai poi espresso attraverso l’esposizione di un poncho blu. Quanti anni avevi e cos’è successo in quel momento? E perché hai preso proprio un poncho come mezzo narrativo di questa tua esperienza?

Quel viaggio è stato un altro momento importante della mia vita. Avevo finito l’accademia e mi sentivo smarrito, avevo perso mio padre, uno dei miei migliori amici aveva avuto un bruttissimo incidente, la ragazza con cui stavo allora mi aveva lasciato, la mia situazione economica era un disastro totale, insomma ero nella tempesta perfetta.

Ho deciso di fare questo viaggio da solo, ancora una volta per mettermi alla prova. Avevo sentito parlare del Cammino di Santiago come un’impresa per “Iron Men Mistici”, quindi volevo staccarmi da tutto e da tutti e farmi del male.

Il poncho è lo stesso modello che ho utilizzato durante il Cammino, quello originale l’ho perso una notte assieme ad altri indumenti, sulla spiaggia di Finisterre durante l’alta marea. Quel poncho è una specie di mappa che mi ricorda e racconta tutti i chilometri percorsi, i dolori alle gambe, le persone incontrate e che non ho più rivisto. Mi ha fatto capire che nella vita se vuoi raggiungere un obiettivo devi avere metodo e devi attraversare tappe intermedie, ma soprattutto parla di resistenza e di perseveranza.

Anche la tua prima, ormai vecchia auto che esponi coperta con un telo grigio e che hai intitolato Ciao ha significato molto per te perché ti ricorda quando hai preso la patente e quando andavi in giro a divertirti con i tuoi amici con la musica a tutto volume. Ciao di quale serie di lavori fa parte?

Ciao fa parte dell’ultima serie a cui sto lavorando: Cogito ergo eram. Si tratta di una serie di sculture in cui racconto qualcosa che riguarda il mio passato. In questa serie di lavori parlo di situazioni personali, ma che allo stesso tempo molte persone potrebbero aver vissuto, come l’emancipazione che ho provato quando ho preso la patente. Quando spiego o racconto l’opera moltissime persone sorridono con nostalgia perché capiscono perfettamente quella sensazione.

Oltre a creare sculture ed installazioni come artista ti occupi anche di interior design, sei un grafico, ami la scrittura, ti interessi di fotografia e di video. Utilizzi quindi diversi mezzi per esprimere i tuoi pensieri e raccontare le tue esperienze. E la pittura?

Purtroppo non so dipingere, non che non ci abbia provato… Esiste qualche quadro che ho fatto diversi anni fa, ma mi sono accorto che non è proprio il mio mezzo espressivo, almeno finora, ma magari potrei sempre mettermi in discussione e riprovarci. Devo solo trovare il mio modo di dipingere. Vediamo.

Che materiali usi di solito per realizzare le tue opere?

Non ho dei materiali preferiti rispetto ad altri. Uso tutto ciò possa essermi utile per sviluppare le mie idee. Eccone alcuni: metallo, legno, gesso, cemento, ceramica, argilla, carta/cartone, plastica, resina, lattice, gomma siliconica, nastro isolante, vetro, acqua, disegno, grafite, fotografia, stampa digitale, video, performance, scrittura, passione, ricordi…

Ci puoi svelare i tuoi prossimi progetti?

Al momento sto preparando la mia personale di aprile 2022 alla Marina Bastianello Gallery, la galleria che mi rappresenta dal 2019, per la cui mostra sto preparando una serie di sculture, immagini fotografiche e piccole installazioni connesse ad un video.

Un progetto molto ambizioso, ideato una decina di anni fa e che finalmente ho avuto il coraggio di prendere in mano in modo risolutivo. Si tratta di un viaggio personale e interiore che mi è servito a risolvere alcuni aspetti che mi avevano bloccato come artista.

È una sorta di Gesamtkunstwerk in cui ho disegnato e stampato dei “soldi”, ho inventato una lingua in codice, ho letto e studiato libri di psicologia, esoterismo e testi religiosi, ho imparato a fondere metalli, ho studiato e messo in pratica diverse tecniche di ripresa e post-produzione video, ho scritto e riscritto centinaia di pagine che mi servono da guida e che utilizzo come diario di bordo.

Credo sarà il mio progetto più importante e ci sto lavorando con molto impegno. Incrociamo le dita e speriamo bene.