Eccomi qui. Carta d’identità, patente, passaporto e tutti i documenti in regola, anche la tessera dell’Ordine dei Medici, il codice ENPAM, l’assicurazione sulle malattie, sulla vita, per gli infortuni, e quella del capofamiglia, ma sarebbe meglio dire della capofamiglia, ho voluto così. Una mia fissa. È un senso di responsabilità che ho sempre sentito mio e fortemente voluto.

Volete anche sapere le misure?

Non avevo dubbi al riguardo, vampiri! Siete così, succhiate tutto finché non rimane altro che un cencio, una bambola gonfiabile senz’aria dentro. Ma mi sta bene così, accetto tutto, affronto tutto, spacco tutto se mi gira. Le convenzioni? Mettetevele in quel posto se volete, per me hanno fatto il loro tempo e comunque le mie misure sono 1 e 77 per 88 per 72 per 92, prendere o lasciare e se aveste preso a suo tempo avreste vinto un terno al lotto ma ora no, ora non più, ora se mi gira vi faccio morire.

Non ci credete? Mettetemi alla prova... cagasotto. Non ho paura di niente e di nessuno, adesso io prendo... e se mi va do. Tutto chiaro, granitico direi, anzi, cristallino. E guardate che ne ho fatta di strada per arrivare a questo, ne è passata di acqua sotto i ponti direbbe qualcuno, quel vecchio che parlava solo per proverbi, per esempio... mi piacerebbe incontrarlo adesso, mi piacerebbe che mi citasse qualche proverbio adatto alla mia situazione attuale. Non certo “Campa cavallo che l’erba cresce”, eh no! Non aspetto più così, passiva, qui siamo all’acting out semmai... qualcosa faccio. E solo quello che mi va. Stupiti? Noooo, no, cari, stupiti un cazzo! Qui si tratta di vita. Vita! Avete capito? Non si scappa di fronte a certe cose... non più per lo meno. Trovo addirittura strano avere aspettato tanto tempo e vi dirò di più... un attimo... è mio figlio, non trova le mutande pulite... è ovvio, quando mai trovano qualcosa? Arrivo subito...

...Sono qui, cosa stavo dicendo? Ah sì, ho finito di scappare, di rinculare, non indietreggio più. Come diceva quello là? Se avanzo seguitemi, se indietreggio... be’ qui non si indietreggia più di un pelo, sono più salda della Rocca di Gibilterra, il crack dei cavalieri crociati mi fa un baffo e le misure delle solite donnine di turno con i loro 90 60 90 le 72 per 92 per 23 per 55... dite che do i numeri? Be’ provate a venirmi vicino e vi faccio sentire i miei schiaffoni a palmo aperto da 23 centimetri!!

E il 55? Chiedete voi... Ricordate la formula per calcolare la circonferenza sapendo il raggio? Be’ vi rendo la cosa più semplice... prendete un metro floscio, mettetevelo attorno al cranio, prendete il segno e controllate il numero, ci siamo, e se non vi basta moltiplicatelo per le circonvoluzioni cerebrali che nel mio caso sono tante, me le avete fatte girare talmente che sono ormai un numero infinito. E se non vi basta ancora sappiate che di sinapsi ne ho uno strabigo, accetto gare con chiunque! Sì sì, sinapsi, c’è gente che va fiera delle proprie tette io non più, adesso la mia carta d’identità voglio che siano le sinapsi, e chi più ne ha più ne metta, mi fa un baffo quella che si è rifatta la tetta.

E non fate quella faccia, capisco che sia dura da accettare, capisco che una presa di posizione così possa spiazzare ma quando la misura è colma... è colma e io sono... sono... uffff!!

Un passo avanti all’altro, un piede in fila all’altro e le due gambe sottili paiono un’illusione ottica, un doppio pendolo altalenante sul marciapiede chiaro. Calze di seta nera e cemento, un’accoppiata strana, le tiene insieme solo il ritmo altalenante dei passi cadenzati, saldamente poggiati a terra e la mente vola, vola alta, tanto alta che anche i commenti dei manovali nel cantiere si disperdono inascoltati nell’aria mossa dai primi venti d’autunno, e di commenti se ne disperdono parecchi ché di gambe così lunghe se ne vedono raramente.

Ricordati i farmaci per i bambini, la rivista per lui, il vino per domani sera, l’olio, le radiografie per il primario, le fatture per il consulente, la nota spese per il commercialista, la rata dell’assicurazione, la riunione condominiale, il regalo per la figlia dell’assistente, l'abbonamento... e le borse di plastica stracolme pesano un accidente e sono deformate all’inverosimile e le dita rosse per lo sforzo sono dolenti.

E poi? C’è altro? C’è che voglio sentire delle cose, tante cose, il senso di libertà e spensieratezza di quando da bambina tornavo da scuola, la felicità di scorgere il nonno che saliva per il viottolo la domenica mattina, la tranquillità di quando mi addormentavo sulle ginocchia di mia madre, la fierezza dei migliori risultati nei compiti in classe, il senso di ricchezza per avere in mano pochi spiccioli, l’attesa per quel fesso del Braccobaldo show, la scoperta dei primi baci, stretti nei primi balli lenti nelle cantine buie piene di musica, il fresco dell’aria le mattine presto delle settimane bianche, la fierezza di un fisico bestiale... e adesso? Di bestiale c’è solo il fisco. E se fuggissi? Ei fu siccome immobile... Ei fuggì siccome mobile... dato il fatal desìo...

Ei fu... fuggì... fu... fuggì.

Un piede innanzi all’altro, uno avanti e uno indietro uno avanti e uno indietro, così dai fino in India su così, un passettino, un altro ancora, un passettino, metti avanti quel piedino, su su, sei già a Butafarti, dai Goa, dai Benares la città sacra e perché non continui, così così, ancora, nuota un po’ ora su nuota nuota, immergiti nel mare, nuota lasciati andare sei in Giappone dai metti i piedi nella sabbia, senti il leggero tepore. Cosa ne dici? Com’è? Sei in un giardino zen, lo vedi il masso nero cerchiato dalla sabbia? Avvicinati, toccalo.

Il masso nero... il masso nero, era una bambina, dieci anni o forse undici, un’adolescente che camminava nel bosco col padre in una mattina di fine agosto come tante altre, e quel masso apparve con una sua forza spirituale, era come se possedesse una personalità, come se incarnasse una presenza.

La bambina non ne ebbe paura, semplicemente sentì che doveva toccarlo s’inerpicò a passo più svelto e più avanzava tra gli alberi più il masso parve crescere di dimensione. La bambina si voltò, cercò il padre tra gli alberi e lo intravvide, cinquanta, forse cento metri più in basso mentre saliva a passo lento cercando funghi nel fitto della vegetazione, di tanto in tanto poggiando una mano per sorreggersi ad uno dei tronchi che filavano dritti dritti verso il cielo e per la prima volta capì, percepì nettamente che suo padre era piccolo e fragile e provò una grande tenerezza per lui e volle chiamarlo e quel ricordo, di lui che saluta con la mano alzata sorridendo con il cesto di funghi nell’altra, non l’avrebbe mai abbandonata.

Quando si rigirò verso il masso, in alto, provò un senso di vertigine alla vista della superficie nera che ora la sovrastava... allungò la mano una prima volta.

Se non fosse stato per alcune zone lucenti per l’umidità ancora densa della mattina la superficie uniformemente scura non avrebbe lasciato all’occhio appiglio alcuno per valutarne la distanza e allora quel masso sarebbe apparso come una porta nera aperta su di un mondo sconosciuto dove l’adolescente avrebbe voluto perdersi volentieri, desiderosa com’era di scoprire tutto ciò che c’era da scoprire, affetta da una curiosità ancestrale che colpisce i cuccioli di tutte le razze.

Allungò la mano e la parete di roccia era lì ma ancora non la poteva toccare, mancavano pochi centimetri, mancava tanto così e la sua missione giornaliera si sarebbe compiuta. Protese di più la mano fino a sentire i muscoli che le dolevano... contatto.

Non era facile da accettare, non facile come avrebbe pensato ma la mano di lui si avvicinava nella semioscurità e già lei sentiva l’odore del suo corpo e non come se l’era immaginato, non nel luogo in cui avrebbe voluto, in un altro modo e altrove avvenne... il contatto.

Si trovò a pensare a quante altre volte l’aveva fatto senza più attendere allo stesso modo che avvenisse. La vita quotidiana sembra deputata ad assassinare l’inatteso; eppure, proprio per la sua monotonia quando ciò avviene, quasi miracolosamente funge da detonatore.

Era tutto lì il segreto, una banalità filosofica poteva cambiare la tua vita, era solo una questione di punti di vista, essere nel quotidiano come i primi circumnavigatori del globo. Aspetta la tua onda, sai che arriverà ma non sai quando e nel momento in cui di notte, nell’oscurità, il rombo di tuono si avvicina capisci che è il tuo momento, quello che accade è per te solo e si decide tutto lì, e comprendi quale sapore doveva avere l’attesa.

Udì distintamente il brontolio di un tuono e la mente tornò ancora a una giornata trascorsa in compagnia del padre, nel Cadore, quando in un pomeriggio di vento entrambi si immobilizzarono in un’abetaia al limitare di un canalone di massi bianchi udendo uno schianto secco echeggiare nell’aria. Il canalone scendeva obliquo dal lato di una montagna che lei aveva sempre chiamato “la mia montagna”. Aveva una forma morbida quella montagna, per questo le piaceva, sembrava quasi una poltrona di roccia rosata poggiata su altre vette più basse ricoperte di alberi.

“La mia montagna”, ripeteva e ancora uno schianto echeggiò lungo il canalone e una vibrazione si trasmise ai loro piedi sempre più forte finché il boato li avvolse scuotendo i loro petti e in una nuvola di polvere che si avvicinava udirono altri schianti e pietre schizzarono fuori dalla nube, come se un titano le lanciasse verso il fondovalle in preda a chissà quale collera. La terra sobbalzava sotto i loro piedi e il padre ebbe il tempo di sollevarla e tenerla stretta al petto mentre si sedeva con le spalle rivolte al tronco di un grosso abete in attesa che la frana concludesse la sua corsa. Allora la polvere di pietra li avvolse e per qualche minuto lei respirò con la bocca aperta sulla maglia di suo padre e quando aprì gli occhi entrambi parevano delle statue di marmo e solo gli occhi lucenti e le bocche umide davano la sensazione della vita in quei due corpi fatti di pietra.

Risero a lungo forte quando si guardarono in volto e come due fantasmi ripresero il sentiero che portava alla valle, in mezzo agli abeti e nulla, se non la loro esperienza testimoniava di ciò che era accaduto.

“Proprio così”, disse a bassa voce, “lo so solo io...” e ancora un tuono ruppe l’aria pesante e allora avvicinò di più la testa alla finestra e si bloccò con la fronte poggiata al vetro fresco. “Pioverà”, pensò.

Null’altri che lei sapeva che c’era stata quella frana in quel preciso momento in quel luogo e questo pensiero le diede stranamente un senso di ricchezza e di confidenza col creato che l’aveva resa partecipe dello spostamento di un suo granello di sabbia.

Ma quanto era importante quel granello di sabbia! Cercò di mettere tutti in fila sul davanzale della finestra quei granelli di sabbia che le erano stati concessi e rimase sorpresa nel constatare che a differenza di quanto si aspettava la fila si allungava e non ne scorgeva ancora la fine.

Ma quanti erano!?

La rabbia di quei giorni sembrava averli cancellati tutti e loro erano ritornati cocciutamente ad assediarla e le sfilavano davanti agli occhi in processione.

Quanti!

Si sentì felice, felice e bellicosa però perché l’energia accumulata in quei giorni era dentro di lei e premeva ancora per uscire e da qualche parte andava convogliata.

“Ho solo bisogno di un po’ di tempo per me”, si disse, “solo questo”. Aprì la finestra e l’aria attorno a lei si mosse, più fresca di quello che immaginava, abbassò il viso sul davanzale e soffiò. Soffiò via i granellini di sabbia, tanto suoi erano e nessuno avrebbe potuto portarglieli via e ora con i gomiti poggiati sorreggeva il volto tra le mani ed ebbe fortissimo il desiderio di fare una cosa che non aveva mai fatto, fumarsi una sigaretta... bramava sentire il fumo caldo che le avvolgeva il naso, che le penetrava i polmoni, che le scaldava la gola.

“Per me”, disse, “solo per me”. Sapeva di non avere sigarette in casa ma ricordò di avere un sigaro ancora chiuso nella carta protettiva infilato in qualche cassetto, regalo di chissà chi. Lo prese, tornò al davanzale, lo accese, era un bel sigaro, quasi non si vedevano i margini delle foglie esterne con cui era stato chiuso.

Guardava lontano, il fumo si disperdeva attorno a lei, il cielo cominciò a piangere prima sottovoce, poi più intensamente ed era bello scaldarsi la bocca col fumo e sentire poche gocce fresche che le rigavano il viso.

Si girò, sentì che qualcuno stava entrando e in quel momento i suoi sensi erano al massimo, non c’era cellula che non fosse felice ma sul piede di guerra e i ragazzi erano fuori per cena da amici.

Entrò suo marito. “Vieni vieni...” gli disse ma lui non osava quasi avvicinarsi perché sua moglie così non l’aveva vista mai.