La pace non esiste. Esiste, semmai, una temporanea sospensione di guerra guerreggiata, violenta, ma il conflitto, il contrasto, è naturale, onnipresente. Dall'intrapsichico al continentale. Con il primo non andiamo d'accordo nemmeno con noi stessi; poi v'è il conflitto in ciò che immaginavamo fosse un'amicizia ma dopo che la confidenza divenne di dominio pubblico s'è incrinato il rapporto. Non m'addentro nel quotidiano conflitto di coppia. Insomma, nessuno va d'amore e d'accordo perchè, per l'appunto, “la pace non esiste” se non nei campisanti. Salendo nella scala gerarchica v'è il gruppo e i gruppi: dall'asilo al commercio si tende sempre a “identificarsi tra simili” diversi dagli altri. In verità l'uomo soffre di solitudine e cerca la relazione con l'altro. Il terreno comune sul quale s'instaura un'intesa è la denigrazione del diverso come raccontano Aldo, Giovanni e Giacomo in Bauscia e terùn. Siamo guerrafondai perchè soli e incapaci ad affrontare il conflitto, il diverso, l'ignoto. Infine, gli Stati. Dei 192 un terzo è in guerra e un terzo fornisce loro le armi per perpetrarla. Non tutti gli Stati decidono di sedere al tavolo delle trattative. E i pacifisti? Il pacifismo? Sta in toto dentro la dicotomia amico-nemico, destra-sinistra, di qua o di là. Non a caso è in gran parte un pacifismo militante che non ascolta le ragioni dell'altro e quindi poco si differenzia dall'antagonista militare.

Ci sarà pur una verità, una purezza da perseguire. Sì, esiste. E non sta certo nel campo della pace.

Ma nella guerra. La guerra nasce dalla purezza. Cos'era la razza ariana se non la summa della “non mescolanza”, della distinzione tra noi e voi. “Ma c'è sempre un puro più puro che ti epura”, parafrasando Nenni. I guerrafondai son coloro che “stanno nel giusto”, che rivendicano la verità. “Dio è con noi” affermavano i soldati sia al di qua che al di là del fronte di tutte le guerre che vengono talvolta interrotte come accadde la notte di Natale del 1914 tra fanti britannici e tedeschi che preferirono intonare canti natalizi che tuonare le armi.

E la pace? È impura. Piena di compromessi, bilancini, dare-avere. Sono stato all'ennesimo tentativo di conferenza di pace di Bamako in Mali. Al tavolo delle trattative, promosso dalle Nazioni Unite, vennero invitati, assieme agli eserciti regolari, i banditi del momento. Vengono congelate le posizioni/conquiste sul campo. Ciò significa “pieno riconoscimento” alla violenza, agli stupri, ai saccheggi. Si contratta da giorni, mesi in un hotel da 5 stelle dove la tavola è perennemente imbandita. Si contende cosa? Le percentuali sui ricavi d'estrazione mineraria. Denari e ancora denari sul bottino reciproco di morti da far valere. La pace è sta roba qua. Dall'Africa ai Balcani di Dayton. Ma il mercanteggiare prende il posto dello sparare. E questo fa sperare le popolazioni disgraziate che vengono travolte dalla guerra perchè si sono fatte trascinare dentro l'odio. Da sempre sono i meno istruiti ad inneggiare alla violenza, a seguire il cantastorie dal futuro radioso.

Bisogna essere fondamentalmente degli impuri per sedere ai tavoli di pace. Dei mercanti. Essere sufficientemente cinici altrimenti si perde la lucidità. Nelle press conference vengono citati i diritti umani, quelli ambientali e persino l'agenda 2030 ma la pace la si fa sempre tra ingordi. E scontenta tutti.

Ci si siede quando si riconosce nell'altro una qualche ragione, una qualche verità. Si raggiunge una sorta di tregua perchè stiamo perdendo francamente troppo in termini di vite umane, opere d'arte, siti Unesco ma soprattutto denari privati. La guerra è insopportabilmente maleodorante. Avremmo voluto fargliela pagare ancora affinché “non cresca più l'erba” ma il puzzo è ormai insopportabile, i pozzi inquinati e i patrimoni sperperati.

Come sortirne? Assieme. Come direbbe don Milani.

E qui entriamo nel regno della diplomazia dove non v'è meraviglia ormai per alcuna delle nefandezze compiute sia durante la guerra che attorno al tavolo di pace. Anche qui la pace non esiste, semmai si costruisce un percorso tortuoso per darsi la parola e toglierla alle armi ma l'odio e la cattiveria la fanno da padroni per anni; per generazioni. Non meravigliamoci se per iniziare una guerra bastano pochi mesi ma per chiuderla un paio di generazioni. L'odio permane anche ad armistizio firmato. E non basterà una generazione desiderosa di vendicare il padre ma forse due perchè anche il nonno chiede giustizia.

E allora? Allora ci si deve allenare al conflitto. A riconoscerlo, a coabitare, a gestirlo possibilmente in maniera nonviolenta certi del nostro probabile fallimento. Non sempre la nonviolenza Gandhiana è la strada maestra; a volte i violenti conoscono solo la lingua della violenza. In Kossovo sui muri si scriveva: “Con i buoni è ancor più bello”, mandando in fumo la lotta nonviolenta di Rugova.

Allora il conflitto va insegnato sin dal bambino che bisticcia un giorno sì e uno anche. L'educazione comportamentale dovrebbe accompagnarci come l'educazione civica (che, per l'appunto, è bistrattata). Dovremmo imparare ad occuparci dell'oggetto del contendere, a gestire l'aggressività, a darci equo tempo di parola. E cosa avrò imparato dal conflitto? A gestire ancora meglio il prossimo conflitto come suggerisce Ugo Morelli nel suo Il conflitto. Avrò imparato che una conquista di diritti civili non è per sempre. Nel mondo v'è un ritorno dei nostalgici (l'internazionale dell'odio) e degli imperi (cinese, russo, ottomano e siriano) con la Polonia che schiera il proprio esercito ai confini della Bielorussia. Ma è proprio laddove le contrapposizioni sembrano monolitiche (tra NoVax e UltraVax oppure tra i Sì al #ddlZan o No) che “il mercante” cerca una terra comune un baratto, un compromesso per fare un passo avanti nella via del riformismo. Eppure, ognuno di noi può sperimentare ogni giorno la chiusura dell'altro, l'impossibilità che la nostra parola faccia breccia. La radicalizzazione anziché l'allentamento delle posizioni. E serviranno a poco le scienze, come la statistica, a demolire cotanti totem.

E la pace? Un miraggio a cui tendiamo costantemente al fine di “colmare il divario” delle opportunità tra i Nord e i Sud del mondo. Ma diamoci pace; non esiste. Forse l'unico che si dà pace è il menefreghista che ride contento e non sa leggere e/o comprendere il tempo in cui vive dove abbiamo dichiarato guerra all'ambiente e dove riforniamo di armi i peggiori dittatori che sono la causa degli esodi da un terzo del pianeta. “Me ne frego” era l'antitesi dell'“I care” di don Milani.

Il “si vis pacem para bellum” non basta. Ora dovremmo educarci costantemente al conflitto con il “si vis pacem para pacem” di Filippo Turati. Poco importa se la pace non esiste o non la raggiungiamo; importa che vi sia una costante tensione e relativa fatica, voglia di sporcarsi le mani, che è propria della responsabilità per andare verso essa.