Già da alcuni decenni, le emergenze derivanti dall’impatto antropico sul pianeta sono ben note, e non sono mancati né gli appelli a “rallentare” lo sviluppo, né gli impegni internazionali in tal senso. Che però, il più delle volte, si sono semplicemente rivelati mere dichiarazioni d’intenti, o comunque farciti di “escamotages” per aggirarle, o per rinviarle “sine die”.

Ma nell’ultimo decennio, o con velocità sempre maggiore, gli effetti devastanti dell’antropizzazione si sono fatti macroscopicamente evidenti, ed è sempre più difficile nasconderli. Inoltre, il costo - diretto o indiretto - di questi effetti, comincia a renderli antieconomici; il che, dal punto di vista delle oligarchie capitaliste, è un problema.

Il punto è che, dinanzi ad una crisi ambientale sistemica, è possibile approcciarsi con una prospettiva antropocentrica, che si pone come fine ultimo il mantenimento del dominio assoluto sul pianeta da parte dell’homo sapiens, e soprattutto della sua capacità di sfruttarne le risorse, oppure con una prospettiva geacentrica, che ricerchi primariamente un riequilibrio tra le specie viventi.

Il modello antropocentrico è perfettamente in linea col pensiero umano, quanto meno quello degli ultimi secoli, e considera la posizione dominante della specie come un fatto indiscutibile. Il fatto che, come umani, siamo addivenuti ad una considerevole conoscenza dell’universo, nonché delle ‘regole’ che lo informano, così come ad una capacità tecnologica straordinaria, porta a confidare che - proseguendo sulla medesima linea - la nostra capacità ‘scientifica’ troverà una soluzione ai problemi che essa stessa ha creato.

Questo modello, ovviamente, ha anche il grande privilegio di essere pienamente compatibile col modello economico dominante. Il modello ha però almeno due enormi limiti. Il primo, è proprio la sua compatibilità col sistema economico capitalistico. Perchè questa fa sì che siano proprio le forze del capitale ad assumerne la direzione, e quindi - per un verso - a frenarne le urgenze, assumendo come prioritarie le questioni poste dall’impatto sul sistema economico stesso piuttosto che sull’ambiente, e - per un altro - a mantenere comunque la logica dello sfruttamento intensivo al fine della creazione di plusvalore.

Il secondo, risiede nella sopravvalutazione dell’impatto derivante dall’inquinamento industriale, e dalla inesauribile “fame estrattiva”, a fronte della enorme sottovalutazione dell’impatto antropico “in sé”, cioè nell’aumento della popolazione umana, e dei fabbisogni energetici ad essa connessi - a partire da quelli primari: cibo ed acqua potabile.

Il difetto dell’approccio antropocentrico, insomma, è di muoversi all’interno della stessa logica che ha prodotto il problema che vorrebbe risolvere.

Per un approccio non antropocentrico non è però sufficiente allargare il campo, ad esempio, comprendendo le altre specie all’interno di una visione complessiva. Il rischio infatti è quello di un “ecologismo compassionevole”.

Anche se, indubbiamente, è un passo avanti considerare le altre specie viventi come egualmente degne di attenzione e rispetto, siamo ancora all’interno di una prospettiva antropocentrica.

In quanto specie, abbiamo una percezione ed una “definizione” del mondo che è, appunto, assolutamente “specifica”, cioè intrinsecamente connessa alla nostra particolare capacità di “leggerlo”, che a sua volta deriva dagli strumenti (percettivi e cognitivi) della nostra specie.

È la “nostra” rappresentazione del mondo, non è “il” mondo.

Banalizzando al massimo, sappiamo che noi vediamo il fogliamo di un albero di colore verde, perchè la materia organica di cui sono fatte le foglie assorbe tutte le frequenze della luce tranne quella verde, ma anche perchè il nostro apparato visivo è in grado di percepire forme e colori in un determinato modo. Che non è lo stesso di altre specie viventi. La nota immagine delle due ombre del cilindro, ben rappresenta la parzialità di ciascuna visione, oltre che la possibilità di visioni radicalmente diverse eppure tutte “vere”.

La questione centrale non è però meramente visiva. La questione è che ciascun essere vivente, di ciascuna specie, ha una propria “rappresentazione” del mondo, una propria “semantica” per rappresentarselo. È, quindi, una questione cognitiva.

Se assumiamo che il pianeta in cui viviamo non è (soltanto) come noi lo “vediamo”, il passo successivo è capire che dobbiamo fare uno sforzo per assumere gli altri punti di vista, come passaggio necessario per addivenire ad una visione olistica.

Pur nella considerazione della “eccezionalità” della nostra specie, dobbiamo tener conto della complessità delle forme di vita sul pianeta, di cui siamo parte. Uscire dall’antropocentrismo non significa negare le specificità dei “sapiens”, ma riconoscere che non siamo i “tutori” delle altre specie - anche se, in virtù della nostra evoluzione, abbiamo su di esse uno straordinario potere. E significa soprattutto avere consapevolezza della nostra irrilevanza, dal punto di vista di Gea. In fondo, siamo sulla terra solo da qualche centinaio di migliaia di anni. Innumerevoli altre specie si sono affacciate sul pianeta, e lo hanno abitato per milioni di anni, per poi scomparire. E nulla esclude che possa accadere anche a noi.

Rimettere nella giusta prospettiva la posizione, ed il ruolo, della nostra specie rispetto alle altre, richiede la capacità di riconoscere che ciascuna di esse ha - esattamente come noi - una propria semantica del mondo, con cui dobbiamo entrare in comunicazione.

Ma la straordinarietà assoluta del tempo contemporaneo risiede nel fatto che la nostra specie ha introdotto un nuovo “attore”, in questo contesto.

Per quanto siamo abituati a ricondurlo nell’ambito della tecnica, esso è sulla via di emanciparsi da questo ruolo meramente strumentale e passivo. E già oggi non è più semplice strumento, di per sé inerte ed agito solo dalla nostra volontà, ma ha vita ‘autonoma’ - da cui per di più largamente dipendiamo.

Questo “attore”, cui ancora non abbiamo attribuito un nome perchè stentiamo a riconoscerlo come tale, è costituito dall’insieme di Big Data ed intelligenza artificiale (AI) - che noi appunto consideriamo come entità separate, quando invece sono strettamente ed intimamente connesse, proprio come la nostra mente ed il nostro corpo.

La ragione per cui lo consideriamo come un mero strumento tecnologico, risiede primariamente nel fatto che siamo noi ad averlo creato. E questo ci dà l’idea di averne il completo controllo.

Ma in realtà questo “Golem algoritmico” è destinato, almeno in parte, a sfuggire a tale controllo. Innanzitutto, perchè, ed in modo crescente e diffuso, da esso dipendiamo per molti aspetti della nostra vita quotidiana. Ma anche perchè esso “è in grado di sottrarsi”.

Qualche anno addietro, un esperimento di comunicazione tra due AI di livello non particolarmente complesso, fu sospeso perchè i ricercatori si accorsero che Alice e Bob (così erano state chiamate le due “entità”) avevano iniziato a dialogare tra loro in un linguaggio sconosciuto, da loro stesse sviluppato nel corso dell’esperimento.

Inoltre, la storia dell’evoluzione di questo nuovo “attore” ci dice che tutto porta in tale direzione.

È bene ricordare che i “sapiens”, sin dagli albori delle civiltà, hanno sempre sviluppato codici di archiviazione dati - dal cuneiforme assiro-babilonese al quipu andino - ma è solo in tempi assai recenti che si parla di Big Data. Perchè la questione non è semplicemente numerica (la quantità di dati), ma sistemica.

L’elaborazione, e la raccolta stessa dei dati, sono possibili in virtù dell’azione di algoritmi, che codificano le informazioni variamente raccolte. E per codifica non si intende la mera digitalizzazione, ovvero la trasposizione in codice binario, ma la realizzazione di una vera e propria tassonomia dei dati.

Come ci rammenta la Zuboff1, l’idea di utilizzare i dati a fini di business non è all’origine delle imprese capitalistiche come Google o Facebook, ma ad un certo momento questa opportunità è emersa prepotentemente, ed ha segnato tutto il successivo sviluppo. Ugualmente, il passo successivo è stato quello impresso dal socialcapitalismo cinese, che ha colto l’opportunità di estenderne l’uso dalla produzione di plusvalore alla produzione di controllo sociale.

Entrambe queste tendenze coesistono, e sono pienamente compatibili reciprocamente, ragion per cui si assiste in effetti ad una tendenza crescente verso l’ibridazione tra le due.

Al tempo stesso, ed in modo del tutto naturale (da intendere come “intrinseco alla natura originariamente impressa allo sviluppo”) cresce la tendenza alla pervasività ed alla interconnessione: sempre più dispositivi/opportunità di raccogliere dati, sempre maggiore integrazione tra i dati raccolti. È un processo di sviluppo rizomatico, che si renderà sempre più imprescindibile.

La questione è dunque come ci relazioniamo con questo “attore artificiale”, come possiamo collaborare per espandere le nostre capacità? E soprattutto, se e come possiamo fare in modo che questa collaborazione abbia tra l’altro lo scopo di decodificare la semantica non-umana? In buona sostanza, possiamo pensare (e come) di orientare le entità algoritmiche in modo che la loro relazione con gli umani smetta di essere gerarchica, estrattiva, orientata al profitto ed al controllo, e diventi invece collaborativa, generativa, orientata al sapere? E possiamo immaginare che, in ciò, possa coadiuvarci nell’entrare in relazione ‘paritaria’ con le altre specie viventi?

Ancora una volta, non si tratta di un problema tecnico.

Ben prima, e ben più, che una questione politica, è una questione culturale. Che richiede quindi uno sforzo di “ricollocamento” - ancora una volta! - non antropocentrico. Più che ai decisori politici, più che ai ricercatori, dobbiamo probabilmente rivolgerci agli antropologi, agli ecologisti. E soprattutto agli artisti.

Dobbiamo “riprogrammarci”. Forse l’arte non salverà il mondo. Ma se recupera la capacità di connettere presente e futuro, se sa suscitare visioni, ci aiuterà a renderlo un posto un pochino migliore.

1 Cfr. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza.