Qualche anno fa, insieme ad un gruppo di amici con i quali condivido la passione per la montagna e una certa propensione all’avventura, decidemmo di organizzare un trekking nel Bhutan. L’anno precedente eravamo stati nel Regno del Mustang, una sperduta enclave tibetana annessa al Nepal, ragione per cui fu risparmiata dalle tremende distruzioni cinesi, raggiungibile in sei giorni di cammino attraverso sperduti villaggi e alti passi himalayani.

Questa volta, tra le varie mete possibili optammo per il Bhutan, un piccolo Regno himalayano incastonato tra Cina e India, grande poco meno della Svizzera, dove risiedono circa 750.000 abitanti, due terzi dei quali vivono in aree rurali. Dopo che Ladakh, Sikkim, Mustang e Dolpo furono annessi all’India o al Nepal, il Bhutan è rimasto l’unico regno indipendente di tradizione buddista. Il Paese è tuttora piuttosto isolato dato che per entrare è obbligatorio munirsi di un apposito permesso di soggiorno rilasciato dalle autorità governative in numero contingentato. Tale permesso costa 250 dollari al giorno ed è comprensivo delle spese di vitto, alloggio, trasporti e guida locale. Il prezzo è fisso, indipendentemente dal fatto che si dormirà nelle tende trasportate dai muli lungo i percorsi himalayani o in eccellenti alberghi in stile tibetano, arredati in modo sobrio ed elegante.

A suscitare il nostro interesse per il Bhutan non fu solo la passione per la montagna e il fascino misterioso che emana il Paese del drago tonante, come lo chiamano loro, ma anche la curiosità di prendere visione di un fatto singolare, perlomeno per la cultura occidentale: la sfida lanciata dal re e dal suo governo d’innalzare il livello di felicità delle persone, espresso come Felicità Interna Lorda (FIL). Ciò al fine di sottrarsi agli effetti avversi che si accompagnano alla crescita economica illimitata (misurata attraverso il Prodotto Interno Lordo - PIL), quali il degrado ambientale, l’aumento delle diseguaglianze sociali, il malessere psicologico e la perdita delle proprie radici culturali.

Il viaggio, a parte un’inaspettata e abbondante nevicata che ci ha sorpreso con tende e muli tra due passi himalayani ad oltre 5.000 metri di altitudine, fu splendido: natura incontaminata, foreste magiche, templi di straordinaria bellezza, gente semplice e sorridente, ottimo cibo e squisita ospitalità; vediamo però più da vicino in che cosa consiste questa curiosa idea di perseguire la felicità non solo come aspirazione individuale ma come programma di governo.

Sacro e profano nella quotidianità

Appena entrati in Bhutan ci si accorge immediatamente di quanto la società bhutanese sia influenzata dalla cultura e dai rituali buddisti. La maggior parte della gente indossa variopinti abiti tradizionali, le bandiere di preghiera sventolano ovunque, i templi sono sempre in festa e il governo locale risiede negli Dzong, tradizionali palazzi di ispirazione tibetana dove in una mirabile fusione tra luoghi religiosi e uffici pubblici, funzionari governativi e monaci dispensano i loro rispettivi servizi).

In questa commistione tra sacro e profano che pervade la quotidianità, non stupisce che anche la costituzione s’ispiri alla filosofia buddista, secondo la quale tutti gli esseri umani sono accomunati dal desiderio di vivere una vita felice e senza sofferenza e compito del governo è quello di realizzare una società felice, in equilibrio tra bisogni materiali e spirituali, dove a tutti è garantito un sostentamento decoroso, pace, sicurezza, istruzione, occupazione e cure mediche.

È su questi presupposti che il quarto re del Bhutan, Jigme Singye Wangchuck, nel 1972, istituì il Gross National Happiness Index, (Felicità Interna Lorda - FIL): un indice multidimensionale che nel 2008 fu inserito nella costituzione bhutanese, avvalorando il principio secondo il quale la felicità delle persone .che non può essere misurata solo in termini monetari, rappresenta l’obiettivo prioritario dello stato.

Si può misurare la felicità?

È del tutto evidente che esprimere la felicità mediante un indice è una faccenda tutt’altro che semplice. La felicità è una sensazione soggettiva di benessere che nasce dall’interazione di tantissimi fattori soggettivi, difficili da quantificare, come la sicurezza, la paura, la speranza, la fiducia, ed è fortemente influenzata dalle circostanze. Per esempio, ferme restando tutte le altre condizioni, la notizia della morte di un figlio può far precipitare in uno stato di profonda prostrazione, una persona che solo un attimo prima si riteneva felice.

Se la felicità è difficile da misurare ancor più arduo è assumersi l’onere di rendere tutti felici. Come ci ricorda Tolstoj “ogni persona infelice è infelice a modo suo” ed allora più che mirare alla felicità ci si potrebbe accontentare di abolire le condizioni che generano sofferenza.

È così che gli esperti bhutanesi hanno individuato nove fattori (domini) che si ritengono connessi alla felicità, secondo un modello che si avvicina molto al concetto internazionalmente riconosciuto di One Health secondo il quale il benessere delle persone è influenzato in larga misura dalle interazioni tra uomo, animali, natura e contesto sociale. Tali domini sono poi collegati a specifici progetti governativi che vengono adottati dopo che un’apposita commissione ne abbai verificato la congruità con i valori-guida del Paese.

La felicità interna lorda

Ecco, di seguito, i nove domini sulla base dei quali è costruito l’indice che esprime la Felicità Interna Lorda (FIL):

  1. Tenore di vita
  2. Istruzione
  3. Salute
  4. Ambiente, biodiversità e resilienza
  5. Vitalità delle comunità
  6. Impiego del tempo
  7. Benessere psicologico
  8. Buon governo
  9. Diversità culturale e resilienza

I domini a loro volta si avvalgono di 33 gruppi di indicatori, composti da 124 variabili. A ciascuna variabile è assegnato un peso specifico, con i pesi più leggeri riservati alle variabili che esplorano gli aspetti soggettivi. A ciascuna variabile infine è assegnato un valore soglia, al di sotto del quale si colloca l’insufficienza.

L’indice viene calcolato secondo una complessa metodologia statistica sulla base dei dati ottenuti mediante indagini eseguite ogni cinque anni su un campione rappresentativo della popolazione. Da queste indagini si ricavano le informazioni utili per valutare il grado di felicità della gente, stabilire i successi e le criticità delle azioni messe in atto dal governo e indirizzare gli interventi nelle aree di maggior bisogno. Per esempio, nelle aree rurali i problemi riguardano soprattutto il tenore di vita, l’istruzione e la sanità, mentre nelle aree cittadine prevalgono i problemi legati agli aspetti culturali e psicologici.

Dato che ogni persona è diversa circa il modo in cui si ritiene pienamente realizzata, per essere considerati felici non è necessario raggiungere la sufficienza in tutte le 124 variabili. Il sistema considera “non ancora felici” le persone che hanno raggiunto la sufficienza in meno della metà delle variabili (l’8,8% della popolazione, secondo l’ultimo sondaggio); “abbastanza felici”, quelle che hanno raggiunto la sufficienza nel 50-65% delle variabili (47%); “felici” le persone che si collocano tra il 66-76% delle variabili (35%) e “profondamente felici” il rimanente gruppo (8,4%).

Luci e ombre di un progetto seducente

Tutti sappiamo che la felicità non coincide con l’ammontare del conto in banca, ma è difficile trovare qualcuno che si dichiari felice di avere il conto in rosso. Collocare la crescita economica e il reddito pro-capite in secondo piano rispetto al benessere della persona è un’idea condivisibile, ma va perseguita con buonsenso. D’altra parte, ambiente, società e cultura sono temi che troviamo anche nelle agende dei governi occidentali, ma ciò che caratterizza il Bhutan è il fatto che tali temi guidano in modo esplicito i piani di sviluppo del Paese e che il loro andamento è costantemente monitorato attraverso un set di specifici indicatori.

Secondo il sondaggio del 2015 oltre il 90% delle persone si dichiara abbastanza o molto felice e per quello che abbiamo potuto constatare durante il nostro breve soggiorno, guardandoci intorno, parlando con la gente e con alcuni dirigenti locali, il sistema sembra funzionare abbastanza bene. Benché il reddito medio pro-capite sia tuttora piuttosto basso (circa 8.000 dollari all’anno) e permanga un ampio divario economico tra la popolazione rurale e cittadina, tutti hanno una casa, cibo a sufficienza, istruzione e servizi sanitari gratuiti. In particolare abbiamo notato un grande attenzione nei confronti dell’ambiente naturale: il Paese è per oltre il 70% coperto da foreste ed è l’unica nazione al mondo con un’impronta di carbonio negativa.

Comunque non è tutto oro quello che luccica. Nonostante i notevoli progressi, la via verso la felicità è ancora irta di ostacoli. In particolare restano aperte le questioni attinenti ai diritti civili e alla conservazione dell’identità culturale, artistica e religiosa che le minoranze considerano come un mezzo per legittimare e perpetuare l’egemonia culturale buddista. È pur vero che sotto la spinta della globalizzazione, a cui neppure il Bhutan è estraneo, le tradizioni locali si stanno allentando ma norme precise stabiliscono tuttora come comportarsi in pubblico e quali abiti indossare negli uffici, nei monasteri, nelle scuole e durante le cerimonie, alimentando crescenti incomprensioni con le minoranze etniche e con le nuove generazioni. I giovani, soprattutto nelle città, come in ogni altra parte del mondo amano sentirsi liberi di andare in discoteca, divertirsi, vestirsi in jeans e maglietta, fumare e bere: stili di vita che poco si conciliano con il rispetto delle tradizioni. I giovani istruiti poi tendono ad abbandonare la campagna e il lavoro nei campi (una delle principali fonti di sostentamento del Bhutan, insieme alla produzione di energia idroelettrica) e preferiscono trovare un impiego in città, dove la vita e più comoda e ricca di stimoli.

La nuova costituzione (promulgata nel 2008) prevede la libertà di pensiero, coscienza e religione, ma dato che preservare la propria identità culturale è considerato un valore irrinunciabile, è inevitabile che i provvedimenti governativi privilegino il buddismo. Il governo finanza la costruzione di templi e monasteri buddisti, ma respinge le richieste di nuovi templi induisti o di chiese cattoliche. Nelle scuole s’insegna la religione buddista e i monaci godono di molti privilegi: ricevono specifici finanziamenti dallo Stato e hanno una rappresentanza riservata nel parlamento e nelle commissioni governative. Tutto ciò, come si può facilmente immaginare, è fonte di insanabili conflitti con le minoranze religiose, in particolare con le popolazioni di etnia nepalese e di fede induista presenti nel sud del Paese, che si lamentano di essere fortemente discriminate da un governo che dal loro punto di vista giudicano autoritario e intollerante.

Un progetto esportabile?

Certamente si tratta di un progetto ambizioso e affascinante che ha reso il Bhutan una nazione rispettabile e riconosciuta a livello internazionale, anche se è difficile immaginare che tale modello possa essere esportato nelle società multiculturali e globalizzate dell’occidente. Non a caso il progetto nasce in un contesto geografico e sociale che caratterizza l’unico Regno buddista himalayano tuttora indipendente. Il Bhutan conta poco più degli abitanti di una città come Palermo, distribuiti su un territorio grande una volta e mezzo la Sicilia, con una forte identità culturale che si richiama ai fondamenti del buddismo mahayana e che naturalmente è orgoglioso di custodire.

Aspetti religiosi a parte, si tratta comunque di un’esperienza di governo concreta e ammirevole che cerca di andare oltre il paradigma dominante della crescita economica, su cui vale la pena di riflettere per coglierne gli aspetti più innovativi, soprattutto alla luce dei drammatici risvolti sull’ambiente, sui cambiamenti climatici e sulla convivenza sociale associati all’espansione del mercato e del profitto disgiunti da una prospettiva etica.

Pretendere di far felici tutti e per sempre mi sembra davvero un’impresa ardua se non impossibile, ma adottare un sistema di valutazione multidimensionale (economica, ecologica, sociale, culturale, emozionale) che si proponga di mettere l’economia al servizio della comunità e di misurare il grado di benessere individuale e collettivo mi pare un’ottima idea.

In ogni caso coloro che sono in cerca della felicità potrebbero organizzare un bel viaggio in Bhutan e accontentarsi di rendere felici sé stessi, quantomeno per la durata del soggiorno.

Bibliografia

Bhutan, Gross National Happiness Commission.
Verma R., Gross National Happiness: meaning, measure and degrowth in a living development alternative. J of Political Ecology vol 24; 2017.
Beaglehole R., Bonita R., Development with values: lessons from Bhutan. Lancet Vol 385 March 7, 2015.