La tecnica utilizzata per convincere la popolazione a fare qualcosa che non vuole fare, attraverso una procedura specifica, è nota in psicologia, viene molto considerata e soprattutto viene ampiamente utilizzata per vari scopi.

Tale tecnica, tuttavia, non risulta particolarmente nota a chi non è “del settore”, per quanto tale settore non sia affatto definito. Infatti, la sua applicazione può essere effettuata potenzialmente in qualsiasi ambito, nei campi più disparati e con le finalità più varie.

Sto parlando di quella che viene definita la “spinta gentile”, che fa riferimento alla teoria dei nudge, elaborata dall’economista Richard Thaler, che per i suoi interessanti studi ha ricevuto il premio Nobel per l’economia nel 2017. Thaler, fondatore della cosiddetta “economia comportamentale”, disciplina recente che sta a cavallo tra l’economia e la psicologia del comportamento, tra le altre cose ha descritto un sistema per convincere, diciamo indurre dei comportamenti positivi e virtuosi, che possono venire incoraggiati non tanto dal timore di incorrere in multe o sanzioni, bensì da condizionamenti positivi, per cui alla fine “comportarsi bene” diventa la scelta “più facile”.

Questa teoria, evidentemente affascinante e ricca di potenzialità, si discosta dalla teoria del “condizionamento” vero e proprio, in quanto in questo caso non entra affatto in gioco l’abitudine e neppure la reazione immediata stimolo-risposta, ma una sorta di meccanismo facilitante.

Di qui la scelta dell’aggettivo “gentile”. Si tratta quindi di una “spinta”, un invito diciamo, non un obbligo.

Ma si tratta anche di un invito espresso almeno formalmente attraverso una modalità “gentile”, che non soltanto non obbliga ma che viene fatta in chiave molto positiva.

Thaler ha incontrato parecchie resistenze in ambito accademico, soprattutto per l’idea della razionalità limitata in ambito di scelte economiche. Ma vediamo perché le resistenze possono comparire anche dal punto di vista etico.

Il principio dei nudge sottende, nella definizione stessa che ne dà Thaler, una sorta di “paternalismo libertario”. Tale principio è in grado di preservare la libera decisione, principio base del sistema economico liberale di matrice anglosassone, tuttavia contemporaneamente consente alle autorità di esercitare un “indirizzo” sulle scelte, economiche nella formulazione iniziale, ma anche come si è detto in altri settori.

Ad esempio, così come posso indurre la gente ad accantonare una parte dello stipendio per una pensione integrativa mettendo tale accantonamento come opzione di default (quindi la scelta più semplice), mentre se si è contrari occorre esplicitamente annullare l’opzione, così allo stesso modo posso indurre, con analoghi meccanismi facilitanti, scelte in altri campi.

Sulla base della teoria che ho sinteticamente descritto, appare chiaro – certamente a chi è psicologo, o economista, ma in generale a chiunque conosca tale teoria e le sue possibili applicazioni pratiche – che la campagna vaccinale oggi viene per l’appunto gestita secondo questi princìpi.

Anche se spesso si parla di obbligo vaccinale, non sussiste di fatto nessun obbligo a vaccinarsi. Ma non soltanto perché ciò sarebbe incostituzionale, o impossibile da sostenere se i prodotti sono in fase di sperimentazione, o per altre ragioni.

L’obbligo non c’è perché non conviene attuarlo.

Si è visto infatti, e la teoria di Thaler lo dice a chiare lettere, che è molto più efficace al convincimento comportamentale l’applicazione di una facilitazione a vaccinarsi rispetto a non vaccinarsi.

L’introduzione dello stesso “green pass”, che di fatto non è altro che un “lasciapassare” per entrare di qui, di là, per accedere a eventi interessanti etc., ne è l’espressione più evidente.

I governi dicono “io non ti obbligo, non ti proibisco di fare delle cose, ma ti offro un sistema, gratuito, per acquisire automaticamente un lasciapassare che ti renderà agevole l’accesso a tutto quanto”.

La scelta stessa dei termini utilizzati è illuminante in tal senso. Se ovviamente il termine “lasciapassare” è stato opportunamente evitato per i suoi rimandi di regime, l’uso del termine “pass”, opportunamente abbinato all’aggettivo “green”, rende in maniera immediata, efficace e direi inequivocabile l’idea stessa di agevolazione facile, semplice, rapida come un “telepass” appunto, come il verde al semaforo.

Come a dire “rapidamente entrerai al cinema”. Ma soltanto se sarai vaccinato.

Infatti, è bene ricordarlo, il green pass teoricamente non è abbinato alla sola vaccinazione, ma anche al tampone o al certificato di avvenuta guarigione. Ma in realtà queste due ultime procedure sono talmente lunghe, complesse, e per di più con tamponi non gratuiti ma a pagamento e costosi, che di fatto risultano automaticamente incoerenti con la definizione stessa di “green pass”.

Concludo con una domanda: quanto vale la presunta libertà di scelta se non sono a conoscenza del meccanismo di induzione di scelte che viene applicato su di me? Quanto è importante, oggi più che mai, conoscere per essere liberi?