Stefania Bartoccetti, fondatrice di Telefono Donna, attivo dal 1992, e riconosciuto da Regione Lombardia gestore e attuatore di centri antiviolenza e di case rifugio a indirizzo segreto per mamme e bambino.

Telefono Donna offre aiuto e successivo collocamento delle donne che hanno scelto di uscire dalla situazione di violenza e anche per tutte le altre emergenze che si presentano. Promuove ulteriori interventi di natura preventiva: per ridurre il numero di violenze domestiche e l’impatto sui minori coinvolti; educativa: per lo sviluppo di azioni formative e di sensibilizzazione sul tema della violenza domestica per adulti e minori; assistenziale: per la creazione e implementazione di servizi integrati per la presa in carico di vittime della violenza domestica e dei minori.

Ha partecipato e collaborato alla realizzazione di corsi di formazione con Università degli Studi Milano Bicocca, Università Cattolica del Sacro Cuore Università E-Campus, sul tema della violenza di genere, così come a progetti di ricerca nazionali e internazionali.

È amministratrice di enti pubblici in ambito socio-sanitario, attualmente è presidente dell’Istituto Golgi Redaelli di Milano e consigliere dal 2000 del Pio Albergo Trivulzio. È stata vicecommissario dell’Istituto Neurologico Besta di Milano e vice presidente della Commissione sulla Salute della Donna istituita dal Ministero della salute che ha elaborato il primo documento contenente linee guida per gli interventi di carattere preventivo in Italia. Ha promosso la creazione dei comitati per le Pari Opportunità ed è autrice di diverse pubblicazioni, fra le quali Penelope non abita più qui.

Quali incontri, esperienze, l’hanno portata a tentare l’avventura di Telefono Donna?

Quando ebbe inizio l’avventura di Telefono Donna, 30 anni fa, la sua prima sede fu presso la casa della mia famiglia, con mia madre grande sostenitrice del dovere di occuparsi delle persone più fragili e deboli. Era una cosa a metà tra la scommessa e l’impegno. Ma dopo i primi mesi, la scommessa l’avevamo vinta: dovetti cercare una vera e propria sede e l’impegno diventò costante.

Mi venne in mente di creare una linea d’ascolto per le donne a partire dalle diverse testimonianze che raccoglievo personalmente e che leggevo sui giornali. Non c’era ancora la consapevolezza, culturale e mentale, che registriamo oggi in merito al maltrattamento. Le donne erano rassegnate a vivere rapporti maltrattanti, perché la denuncia era super colpevolizzata da una certa società che continuava con un’idea obsoleta della donna che doveva, proprio per la propria condizione di dipendenza dall’uomo, accettare ogni situazione non avendo altra via di scampo. E sa la cosa curiosa? I locali della prima vera sede di Telefono Donna mi vennero offerti dalla parrocchia. Questo per dirle che la Chiesa in primis ha dato spazio a questo nuovo modo di riconoscere dignità alle donne, diversa da quella impaurita dalla denuncia delle donne contro i loro mariti maltrattanti (vedi certe dichiarazioni di sacerdoti che continuano a minimizzare il maltrattamento...), ma c’era una Chiesa che voleva voltare pagina. E da allora abbiamo iniziato a scrivere un altro libro.

Ce ne può sintetizzare la struttura e l’offerta assistenziale?

Non si tratta di assistenza ma di accoglienza. Telefono Donna innanzitutto riceve una telefonata e da lì parte un vero e proprio protocollo di intervento, sostenuto da psicologhe, avvocate, counselor, volto ad aprire una via d’uscita per le donne che subiscono le diverse forme di violenza: fisica, psicologica, economica. Una via che prevede anche la collocazione in case protette se la donna non ha una sua residenza. Il protocollo si prefigge anche il sostegno formativo per le donne che non hanno una vera e propria attività lavorativa, affinché possano entrare nel mondo del lavoro. Tutto il periodo di accoglienza, che non si protrae solitamente per oltre due anni, è sostenuto attraverso i finanziamenti pubblici e privati.

Quanto la sua esperienza di amministratrice di enti pubblici nel settore sociosanitario l’ha aiutata nel suo progetto?

L’approccio, ossia trovare una soluzione, è appunto frutto dell’esperienza maturata, visto che l’amministrazione di enti pubblici o privati prevede sempre che si giunga a una soluzione. Il che vuol dire: procedere secondo una mentalità proattiva, che deve anche essere patrimonio della donna maltrattata. Lo dirò con una formula: imparare a camminare sulle proprie gambe. Per questo non è un’assistenza, poiché non siamo in presenza di situazioni di indigenza, fisica o mentale; l’accoglienza, appunto, prevede di lavorare sui punti di forza che la donna ha, che ha sempre avuto e che aveva sacrificato credendo che fosse il modo migliore per “salvare” la sua relazione e che invece la facevano sprofondare sempre più nel disagio. Ecco, rubando un concetto dall’ambito psicologico-lavorativo, la donna maltrattata si trova in un vero e proprio bornout, solo che nel suo caso il lavoro è quello affettivo ed esistenziale. Allora, occorre che ritrovi le sue motivazioni, che rimetta al centro se stessa e i propri obiettivi. Noi l’accompagniamo verso questa consapevolezza, che in realtà non è altro che farle riscoprire le proprie ragioni, alle quali aveva rinunciato credendo che poteva salvare ancora la sua relazione. Ma ricordiamoci sempre che una relazione malata non migliora per incantesimo; anzi, il più delle volte scatta il processo carnefice-vittima, e più la vittima rinuncia alle sue ragioni, più il carnefice avanza inesorabile.

Ha fatto parte della Commissione Salute Donna del Ministero della Salute per le linee guida di carattere preventivo: che suggerimenti darebbe per la prevenzione della violenza sulle donne?

Si tratta di prendere diversi provvedimenti. Preparare il personale sanitario, i medici di base ad accogliere le donne e ad individuare il malessere, specie quando si presentano al Pronto Soccorso inventando le solite scuse: “Sono caduta dalle scale, ho avuto un forte giramento di testa”, ecc., mentre sono evidenti i lividi e segni di violenza. Individuare corsie preferenziali per le cure da riconoscere alle donne che, proprio per la loro specificità, rispondono a cicli di vita molto importanti: l’adolescenza, l’età fertile, la menopausa, ecc. Il maltrattamento inibisce lo sviluppo e la crescita armonica della persona, procurando disturbi che, se non curati in tempo, degenerano in patologie e disfunzioni di vario tipo. Come possiamo immaginare che la donna, priva di serenità, possa occuparsi della crescita dei propri figli della cura dei propri cari bisognosi di assistenza?

Il tema della serenità e del riconoscimento del suo importante ruolo nella società: serve essere molto, molto, molto attenti nelle sentenze e nelle motivazioni che le accompagnano. Mi spiego: quando una donna viene stuprata, il violentatore viene addirittura assolto perché “lei indossava pantaloni attillati”… Come può ancora oggi una società “moderna” accettare la violenza contro anche una sola donna? Serve la certezza della pena - comprensiva di un percorso di rieducazione profondo e radicale - per far emergere il sommerso, affinché le donne possano fidarsi delle Istituzioni e chiedere aiuto. Sin dalle scuole, occorre fare percorsi di educazione ai sentimenti, al rispetto dell’altro e delle sue differenze e di cultura di genere rivolti a ragazze e ragazzi.

La dimensione economica è un punto delicatissimo: perché una donna deve farsi carico interamente di tutte le spese conseguenti al maltrattamento? Se il convivente ha determinato la situazione alla sua ex, sia il convivente stesso a corrispondere le spese a cui la donna va incontro. Una sorta di prelievo del quinto dallo stipendio. Sono sicura: toccati sul portafoglio, qualche dissuasione ulteriore giocherà la sua parte.

Anche il riconoscimento delle carriere e dei redditi: perché una donna, a parità di titoli, fatica più di un uomo nella carriera e percepisce, a parità di mansioni, minor reddito?

Occorre anche essere rigorosi nel vigilare sulla pornografia, visto che è responsabile della diffusione di un’immagine della donna messa lì solo per soddisfare la malattia dell’uomo.

Ida Magli ha scritto che, in passato, spesso le donne sono state vittime del loro “spirito sacrificale, per sé e per gli altri, con tutte le patologie, le ingiustizie e le vere e proprie perversioni che questo ha comportato…” È un retaggio ancora presente?

I processi culturali hanno tempi lunghi di elaborazione dal momento in cui si inizia a criticare un modello prima che quello nuovo diventi il riferimento. Sono veri e propri tempi generazionali. Si lavora per ridefinire ciò che un modello ha di sbagliato, ma qui – lo dico sempre – il modello, più che culturale, è di costume e della mentalità che lo accompagna. La cultura, infatti, non è un sistema di offese né di discriminazione. Troviamo questi atteggiamenti nei costumi, appunto, il che vuol dire senz’altro una cosa: il piano dei costumi è purtroppo oggi molto radicato rispetto a quello culturale. Cambiare l’ordine dei messaggi e usare le vie che la comunicazione oggi ci presenta, accorcia molto i tempi. Sarebbe già un modo per disarticolare mentalità e costumi che spesso si reiterano solo perché non circolano messaggi opposti. O circolano con poca efficacia.

E nel maschio malato, come creare gli anticorpi che lo guariscano delle pulsioni aggressive?

Conosce la storia del matto che dà del matto a tutti quelli che circolano fuori dal manicomio, dove lui è ricoverato? Ecco, prendere coscienza della propria malattia non è un processo semplice. Abbiamo intere biblioteche sulla violenza del maschio e sulle sue cause, ma quelle biblioteche sono frequentate per lo più da donne. Una corsia preferenziale…

Per riprendere quanto detto sopra, se il maltrattamento ha una sua base nei costumi e nella mentalità, serve cambiare l’ordine dei messaggi. Nessun messaggio è eterno e il contenuto di ogni messaggio può essere cambiato. Lo dico scegliendo un esempio molto ambiguo, ma giusto per intenderci: il marketing ha ridefinito molte nostre prassi d’acquisto, riuscendo addirittura a far mettere più facilmente mano al portafoglio, cosa sempre difficile. Ecco, se il maschio respira messaggi diversi, la sua mentalità prima o poi si confronterà con quello che lui credeva ma che non è più quello che va ancora creduto.

La precarietà economica di molte donne può essere una concausa di uno stato di tossica dipendenza dall’uomo?

Di tossico nelle questioni economiche tra conviventi non è il denaro in sé; la tossicità sta in chi usa i soldi per mettere in atto una serie di ricatti. Più in generale, si rivela tossica ogni forma di dipendenza quando non si scorge la sottile, eppure, decisa linea d’ombra tra dipendere come scambio di ruoli, e ogni legame è iscritto nei ruoli e quindi c’è sempre un momento in cui uno dipende da un altro, e la dipendenza come atto di manipolazione. Da questo atto la donna deve liberarsi, e non vede che, paradossalmente, è più il suo convivente ad avere bisogno della sua dipendenza che non la donna ad averne bisogno. Sottrarsi alla dipendenza vuol dire mettere al centro i rispettivi ruoli, cosa che si perde di vista perché il meccanismo della dipendenza malata imprigiona tutti e due.

Quanto i mass-media possono contribuire, in negativo o in positivo, a proporre le tematiche della violenza di genere?

È il tema dei messaggi: possono fare moltissimo. E possono iniziare, per esempio, a smetterla di mettere in vetrina le donne quando non c’è nessun bisogno, e davvero non c’è mai nessun bisogno di una donna in vetrina. Qui poi succede qualcosa di ineffabile: perché una ragazza si fa mettere in vetrina? Guardi, non è il tema della donna oggetto; è, piuttosto, il tema del costume nel quale anche la donna è intrappolata. Tocca anche a lei liberarsi da qualche mentalità e dei costumi che le supportano. Così ora le dirò una cosa molto provocatoria, giusto per attirare nemici: non è venuto il momento di smetterla con "Miss Italia" e tutte le altre "Miss"? L'unica Miss sia la signorina, prima di diventare Signora dopo le nozze.

La pandemia, con la convivenza forzata, ha creato ulteriori casi di abusi e violenza.

Sì. L’aumento dei maltrattamenti durante la pandemia è il risvolto di una continuità nel vivere i rapporti alla quale non siamo più abituati. Stare a stretto contatto ventiquattro ore su ventiquattro ha generato, in alcuni casi, una vera e propria esplosione di aggressività. Ma qui non dobbiamo pensare solo alla questione del maltrattamento di cui mi occupo; da un punto di vista biologico, è noto che la mancanza di spazio generi atteggiamenti aggressivi. Costretti a vivere in una casa, magari anche piccola, ha amplificato la quota aggressiva. Poi, ovviamente, se la situazione di una coppia era in difficoltà, la pandemia ha liberato il peggio. Telefono Donna lo aveva denunciato già l’anno scorso, con la campagna “Il mio virus si chiama: Mario, ecc.” promosso da Fondazione Cariplo.

Ha posto l’accento sull’inadeguatezza della famiglia attuale, non più nucleo sicuro.

La famiglia è al centro di una grande ridefinizione; è un processo sociologico naturale oserei direi, coevo ai cambiamenti degli stili di vita che prevedono altro rispetto alla centralità affidata alla famiglia. Resiste ancora la famiglia nella dimensione della socializzazione primaria, quando vi sono figli. Ma già appena i figli entrano nella socializzazione secondaria, sono rare le famiglie che sono in grado di avanzare la propria priorità come poteva essere sino a venti-trenta anni fa. La famiglia cambia il suo ruolo e, diciamolo senza troppi lutti, fa molta fatica a contrastare modelli e riferimenti che il mondo della comunicazione ha messo in circolo e che sono sempre più la fonte alla quale attingere per generare confronti e crescite individuali. Sono curiosa però di questo: il nucleo affettivo resta il segreto della famiglia, ma questo segreto sta cambiando i suoi codici e le sue manifestazioni. Che voglio credere andare in questa direzione: sempre più ci sarà una famiglia dove davvero centrale è l’affetto e la capacità di rinnovarlo, sganciato da modelli di status e di conferme.

In base alla sua esperienza, come considera le attuali istituzioni sociosanitarie milanesi?

Il colpo della pandemia ha travolto tutti. La sanità più di ogni altro settore. Dove scontiamo ritardi, al limite anche della incomprensibile superficialità – non abbiamo, per esempio, adeguato il piano pandemico – e idee di sanità che si sono rivelate insufficienti, come la questione dell’impoverimento della medicina del territorio ha dimostrato. Ma sono fiduciosa: abbiamo imparato la lezione. Qualcosa non sarà più come prima e non solo nella sanità, quella lombarda come quella nazionale. In verità, quella mondiale. Avremo bisogno di grandissime competenze tra gli alti dirigenti e i funzionari, ma anche di lavorare su un diverso approccio alla malattia e alla cura.

Esiste, nella città, una rete di protezione delle donne?

Sì. Per esempio, lei è stato qui, a Telefono Donna….