Al giovanissimo Benjamin Franklin, arrivato a Londra per perfezionarsi nell’arte tipografica, il medico olandese che scriveva favole stava simpatico. “Un certo dottor Lyons […] - raccontava Franklin - mi aveva preso in grande considerazione e mi conduceva spesso all’Horns, una birreria di Cheapside, e mi presentò al dottor Mandeville, autore della Favola delle api, che aveva lì un club di cui era l’anima, essendo un tipo attraente e pieno di buon umore”.

Bernard de Mandeville, nato a Rotterdam nel 1670, si laurea in medicina, parte per il tradizionale Grand Tour, prerogativa dei figli delle famiglie facoltose e istruite, e decide di fermarsi a Londra dove prende moglie. Specializzato in malattie nervose si ricrea narrando favole. Intorno al 1705 scrive, stampa e vende con successo La Favola delle api per le strade della capitale inglese. “Lo scopo dei versi - spiega Mandeville - è di far comprendere l’impossibilità di conciliare i vantaggi che offre un paese industrioso, ricco e potente, con quelle qualità di virtù e innocenza che sono tipiche dell’età dell’oro. E far comprendere, quindi, l’insensatezza e la scempiaggine di tutti coloro che - straordinariamente avidi di tutti i privilegi delle società evolute - non smettono mai di lamentarsi e di denunciare in modo roboante i vari inconvenienti e quegli stessi vizi che loro stessi hanno”.

Il poemetto, dal sottotitolo L’alveare scontento, circola per un paio di anni. Poi l’eco si smorza, Mandeville vive defilato dalla scena culturale londinese e ricompare dopo un decennio con una nuova edizione alla quale aggiunge una nota sulla società dell’epoca. Lo scandalo scoppia nel 1724 quando il Grand Jury del Middlesex lo denuncia definendo l’opera un pubblico danno.

Ecco la sintesi di Sergio Romano della Favola di Mandeville, in un articolo del 1995 uscito sul quotidiano La Stampa: “Nel mondo delle api esiste un alveare potente, famoso per le leggi, il lusso, le scienze, le lettere, i traffici e gli eserciti. Ma il popolo delle api sapeva che dietro la ricchezza e la potenza si nascondevano la corruzione, la frode, la pigrizia […]. I medici non avevano altro obiettivo fuorché quello di arricchire a spese del paziente. Gli avvocati attizzavano litigi e prolungavamo le cause all’infinito. I soldati compravano le vittorie corrompendo il nemico. Il re imbrogliava i sudditi. I sudditi imbrogliavano il re e tutti, più o meno, erano corruttori o concussi. […] Ma il popolo non cessava di deplorare la corruzione e invocare giustizia. Un giorno, finalmente, Giove dette ascolto alle loro proteste e restaurò nell’alveare le leggi della pubblica moralità. […] I prezzi diminuirono, le cause divennero rapide, le carceri si svuotarono, i cattivi medici furono messi in disparte, i cattivi preti furono banditi, i funzionari dello stato cominciarono a fare speditamente ciò che prima facevano, per meglio intascare tangenti, con esasperante lentezza. Questa ondata di pubblica moralità, tuttavia, ebbe effetti devastanti sull’occupazione e la prosperità del Paese. Divennero superflui da un giorno all’altro tutti coloro che vivevano di tangenti o millantavano credito o spacciavano competenze di cui erano privi. E divennero egualmente superflui tutti coloro che vivevano, per una ragione o per l’altra la loro ricchezza. In poco tempo l’alveare si spopolò, perdette la sua antica potenza, rinunciò a commercializzare con il mondo, regredì verso un’economia austera e autarchica […]”.

La morale di Mandeville è: “Da sola la virtù non può rendere grande un Paese. Quelli che vorrebbero far rivivere l’età dell’oro devono accettare - insieme all’onestà - anche le ghiande, cibo dei porci”.

Certo ci sono ghiande e ghiande, porci e porci. Prosegue Romano: “[…] In Inghilterra, Stati Uniti, in Giappone il denaro della corruzione e il commercio dei favori hanno suscitato energie e ambizioni, hanno creato grandi opere pubbliche e splendidi monumenti nazionali, hanno finanziato fondazioni culturali e ricerca scientifica. Da noi, con qualche eccezione, lo stesso denaro ha generato fabbriche inutili, progetti abortiti, ospedali incompleti, città trasandate e pessimi servizi pubblici […]. Per questo, la classe dirigente della prima Repubblica merita d’essere condannata”.

La Favola delle api è stata appena ristampata da Prinp, a cura di Giuseppe Di Leva che ne fu catturato nel 1993 e la tradusse in modo non letterale, cercando “parole semplici, fluidità e soprattutto un ritmo”. Il commento è di Sergio Romano, che ha aggiornato l’articolo di ventisei anni fa, e ha risposto a qualche nostra domanda.

Scrisse Mandeville: “Se mi si chiedesse a che scopo ho fatto tutto questo (cui bono?) e quali benefici possa portare la lettura di quanto ho scritto, risponderei che non ho avuto altro scopo che cercare di divertire i lettori”. Nessuno credette a questo candore, si direbbe: l’autore fu trascinato a giudizio e coperto d'ingiurie. Lei, professore, con Mandeville si è divertito?

Divertirsi per uno scrittore significa: divertire, incuriosire, sorprendere. Mandeville aveva eccellenti motivi per divertirsi e divertire.

Mandeville parla di età dell’oro. Qual è stata, se c’è stata davvero?

L'età dell'oro esiste soltanto nella immaginazione dei poeti. Ma anche l’immaginazione è una necessaria componente della nostra esistenza.

Nel 1995, subito dopo lo scandalo di Tangentopoli, Lei pubblicò sul quotidiano La Stampa l’articolo sulla Favola. Oggi, nell’aggiornamento di quel testo, si dice pronto a scrivere l’arringa con cui il pubblico ministero potrebbe rispondere a un’eventuale proposta di rivalutazione della prima Repubblica. Che cosa osserverebbe, soprattutto?

Direi che la Prima Repubblica non è mai veramente finita. Aggiungerei soltanto che in ogni cambiamento vi sono inevitabilmente aspetti positivi e negativi e che lo sguardo retrospettivo può essere alquanto diverso e migliore di quello dei contemporanei. È una considerazione che si applica particolarmente all’Italia.

Scrive anche che ora il quadro è molto diverso: "L’alveare è più grande, si chiama Unione Europea e il sapore del miele mi sembra promettente. Sarei felice se sulle api italiane dei prossimi anni si potesse fare un maggiore affidamento. Troppo ottimista?”.

Molto di ciò che l’Unione Europea ha fatto negli ultimi decenni è stato utile e positivo.

Qualcuno affermò che Mandeville era un “Man of the Devil”, un uomo del demonio. Lei, professore, chi pensa che fosse?

Nella cultura popolare esiste anche il “buon diavolo”. Credo che Mandeville appartenga a questa categoria.

Mandeville fu tradotto in Francia, Germania, Austria, Olanda, Italia e suscitò curiosità e polemiche a ogni apparizione, per esempio, nel Settecento francese, in Italia fra i primi illuministi, specialmente napoletani, negli ambienti filosofici italiani dal dopoguerra fino agli anni Settanta del Novecento. Infatti, afferma Bruna Talluri: “Non c’è storia delle dottrine politiche che si rispetti che non contenga anche il suo nome”.

Il “buon diavolo” morì a Hackey (Londra), nel 1733. Le api sciamano da tre secoli, incorrotte.