Negli ultimi anni, è tornata alla ribalta, prepotentemente, la questione ambientale; non si tratta in effetti di una novità, visto che i movimenti ecologisti hanno ormai una storia pluridecennale, e del resto anche gli allarmi da parte degli scienziati, rispetto alle criticità determinate dall’antropizzazione selvaggia, non sono un fatto nuovo. Nel 1972, quasi cinquant’anni fa, fu pubblicato il Rapporto sui limiti dello sviluppo1, in cui si analizzavano le conseguenze sull'ecosistema terrestre della crescita esponenziale della popolazione mondiale, e quindi sulla stessa sopravvivenza della specie umana. Da allora, gli allarmi si sono moltiplicati, ma la situazione del pianeta ha continuato a peggiorare.

La principale novità, rispetto ai decenni passati, è che oggi a prendere atto del pericolo non sono più soltanto gli ambientalisti, ma anche i capitalisti. Naturalmente ciò non significa che questi ultimi abbiano assunto gli stessi punti di vista dei primi, ma solo che hanno cominciato a ‘vedere’ realmente il problema, sia pure dal proprio punto di vista. Questo elemento nuovo, ovviamente, modifica lo scenario. Pur essendo sempre vera l’affermazione di Chico Mendes (“L'ambientalismo senza lotta di classe è semplicemente giardinaggio”), inevitabilmente la discesa in campo sui temi ambientali, da parte del grande capitale, riapre spazi di manovra.

Ovviamente, il problema è che - nell’ottica liberista - occuparsi della salute del pianeta significa trarne occasione di nuovo profitto, e questa è la conditio sine qua non affinché valga la pena di occuparsene.

In effetti, quelle che oggi vengono a confrontarsi, sono due visioni per molti versi opposte, ma al tempo stesso accomunate, si potrebbe dire filosoficamente, più di quanto possa sembrare. L’approccio liberista discende in qualche modo da un’idea di darwinismo sociale. L’uomo, in quanto specie dominante sul pianeta, ha una sorta di ‘diritto naturale’ su di esso, e può quindi sfruttarlo e modificarlo quanto ritiene opportuno, avendo come unico limite allo sviluppo la salvaguardia di sé (del proprio dominio).

L’approccio ecologista, al contrario, attribuisce valore primario alla necessità di un rapporto armonico tra l’uomo, la terra e le altre specie viventi, e considera come limite invalicabile l’equilibrio ecologico.

Il terreno comune, tra le due posizioni per altri versi opposte, sta nell’adottare un punto di vista assolutamente (ed esclusivamente) ‘umano’ - nel senso letterale, di caratteristico della specie; cinico ed egoista, per gli uni, partecipe ed altruista per gli altri.

Ma, da una prospettiva meta-specifica, la storia del pianeta, e delle sue forme di vita, ci dicono che l’equilibrio ecologico è sempre stato un fattore mutevole, sia pure su tempi lunghi. E che una nuova condizione di equilibrio si viene sempre a determinare, prima o poi, quando quella precedente, per una qualche ragione, viene meno. Basti pensare alla scomparsa dei dinosauri, che rese possibile il successivo proliferare dei mammiferi. Ma anche, per restare ad un ambito assolutamente prossimo, al disastro nucleare di Chernobyl, a cui ha fatto seguito un rifiorire della natura selvaggia nelle zone contaminate ed abbandonate dall’uomo.

Insomma, la natura della Natura - mi si perdoni il calembour... - non è né altruista né attenta a preservare un determinato equilibrio. É, piuttosto, estremamente ‘adattiva’.

Ogni specie vivente, in ogni luogo del pianeta, ha stabilito nel tempo un equilibrio col territorio e con le altre specie; questo equilibrio è il risultato di un bilanciamento tra forze diverse, nessuna delle quali lo ricerca, ma si determina de facto.

La differenza sostanziale è che, ovviamente, la specie umana ha, al contempo, una straordinaria capacità di incidere sull’ambiente e sulla vita delle altre specie, e la consapevolezza del proprio agire, e delle sue conseguenze.

É precisamente questo che ci pone davanti la necessità di fare delle scelte. Apparentemente, le scelte sembrano poter andare solo in due direzioni: da un lato, la scelta cinica del liberismo capitalista, che vuole preservare al massimo grado il ruolo di ‘predatore alfa’, e che riproduce nel rapporto uomo-natura il medesimo rapporto ‘di classe’ che lo caratterizza sul piano intraspecifico; dall’altro, la scelta preservativa dell’ecologismo, che vuole ripristinare una condizione che ponga maggiore attenzione alla complessità dell’ecosistema.

In un certo qual senso, e senza con ciò esprimere una valutazione di merito, si potrebbe dire che la scelta liberista vuole ‘congelare’ lo status quo presente, ritoccandolo lo stretto necessario, mentre la scelta ecologista vuole fare un passo indietro, per recuperare una condizione di equilibrio pregressa.

Entrambe queste posizioni, però, pur nella radicale differenza che le caratterizza, rischiano di risultare monche, perchè fanno riferimento ad una visione ecosistemica che non è più quella presente. In ambo i casi, infatti, si immagina un pianeta fatto di materia inerte, su cui convivono le diverse macro-categorie di viventi: monere, protisti, funghi, piante, animali2.

In realtà, il nostro ecosistema è già mutato, poiché vi è un elemento nuovo, artificiale, e che però ha una estensione, una capillarità ed una pervasività, quale nessun artefatto ha mai avuto nella storia della terra.

Quando parliamo di antropizzazione, non parliamo semplicemente di ‘distruzione’ dell’ambiente naturale (deforestazione, inquinamento...), ma anche di modifica artificiale dell’habitat. Questa è ovviamente una caratteristica di moltissime specie animali, l’uomo in primis. Dalle dighe costruite dai castori, agli enormi termitai scoperti nel Nord-Est brasiliano, visibili persino dallo spazio, alla Grande Muraglia, sino alle innumerevoli megalopoli sparse sul pianeta, l’ambiente viene costantemente modificato artificialmente. E queste modifiche hanno un impatto sull’intero ecosistema; le centinaia di migliaia di città sono una modifica non meno significativa della distruzione delle foreste pluviali o dello scioglimento dei ghiacci polari. Ma sono modificazioni ‘passive’, funzionali alla vita della specie che le produce, ma sostanzialmente ‘inerti’.

La vera, straordinaria novità, che rende necessario fare uno scatto culturale verso un ecosistema ipercontemporaneo, è l’avvento di quella che - seppure non possiamo ontologicamente definirla come una specie vivente - si colloca comunque su un piano differente, più significativo quantitativamente e qualitativamente, rispetto alla grande varietà degli artefatti precedenti; e già la difficoltà di inquadrarla tassonomicamente, dice della attuale inadeguatezza culturale, del gap tra ciò che siamo stati capaci di creare e la nostra capacità di comprenderlo appieno. Stiamo ovviamente parlando di quel complesso fenomenico costituito dai Big Data ed i sistemi di intelligenza artificiale che li gestiscono. Continuare, infatti, a considerarli meramente come strumenti, significa chiudere gli occhi dinanzi alla realtà.

Possiamo pensare ad un ecosistema in cui convivono le varie specie viventi, in un habitat che non è più fatto semplicemente di mari e di montagne, ma anche di dati (quindi di informazioni, diversamente elaborabili ed estrapolabili) in continua, esponenziale crescita, e di sistemi sempre più autonomi per la loro gestione? Possiamo assumere, culturalmente, questo ‘paesaggio digitale’ come un elemento costitutivo dell’ecosistema in cui viviamo?

La contrapposizione sulle diverse interpretazioni da dare all’idea di ‘transizione ecologica’, tra ‘green washing’ e lotta di classe, pur certamente rilevante, rischia infatti di oscurare questo nodo, che invece non solo potrebbe essere decisivo, ma è sicuramente ineludibile. Il rischio, se non assumiamo questa prospettiva - che, è bene ribadirlo, è innanzitutto culturale - è di lasciare che questo aspetto dell’habitat contemporaneo, non essendo percepito come tale, possa divenire una gabbia invisibile. Uno strumento di dominio, piuttosto che un elemento di armonizzazione dell’ecosistema.

Assumere consapevolezza di questa mutazione significativa, che cambia radicalmente la natura del pianeta, inteso come ambiente ospite per le specie viventi, è questione di assoluta urgenza. Per fare ciò, dobbiamo innanzi tutto concepirla, definirla, nella sua natura inedita, che è più di mero epifenomeno strumentale e meno di forma ‘vivente’. Abbiamo bisogno, in questo, di una accelerazione culturale, per colmare lo scarto determinatosi tra la velocità di progressione ‘tecnologica’ e quella nostra di metabolizzarne le implicazioni.

Se riusciamo ad operare questo recupero, potremo invertire il processo di mercificazione dei dati, e farne invece un ‘bene comune’ come - appunto - il paesaggio. Forse dovremmo cominciare a pensare e parlare di ‘green data’, se vogliamo davvero aprirci la strada verso un diverso ecosistema, in cui il ‘predatore alfa’ si colloca in cima alla catena alimentare, ma nel rispetto di un equilibrio con le altre specie e l’ambiente ospite, senza mutarsi in Erisittone3.

Note

1 A cura del MIT, e commissionato dal ‘Club di Roma’, una associazione non governativa, non-profit, di scienziati, economisti, uomini d'affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di Stato di tutti i continenti.
2 Monere: organismi microscopici, unicellulari, procarioti (privi cioè di un nucleo) in altre parole tutti i tipi di batteri;
Protisti: un gruppo eterogeneo di organismi unicellulari, con caratteristiche nutrizionali simili a quelle delle piante, o a quelle di funghi e animali;
Funghi: organismi eucarioti, unicellulari - come i lieviti - o più frequentemente pluricellulari, formati da filamenti (ife) più o meno strettamente ammassati in una struttura complessivamente chiamata micelio;
Piante: sono organismi eucarioti, pluricellulari, autotrofi;
Animali: sono organismi eucarioti, pluricellulari, eterotrofi.
3 Erisittone (in greco antico: Ἐρυσίχθων, Erysíchthōn) è un personaggio della mitologia greca; condannato da Demetra ad una fame inesauribile, alla fine, per placare la sua fame, finì per divorare se stesso.