Viviamo in un mondo in cui è impossibile fare qualsiasi cosa senza fare del male agli altri.

Parte da questa amara ma lucida riflessione, il viaggio che ha portato Laura Muscardin a realizzare il suo ultimo film La guerra di Cam, premiato al Giffoni Festival.

Ambientato in un futuro nel quale forse temiamo di poterci identificare, la trama vede protagonista una famiglia: madre, figlia (Dede) e figlio, appunto il piccolo Cam, che lottano per sopravvivere. Attorno a loro macerie e distruzione, il colpo d’occhio suggerirebbe uno scenario di guerra. Il rapimento di Dede spingerà Cam, il piccolo e promettente Lorenzo McGovern Zaini, a cercarla con l’aiuto della figura ambigua e letteraria del “Frate”, un Virgilio o meglio un Lucifero interpretato da uno straordinario Alessio Praticò. Sotto la guida sulfurea e affabulante del Frate, Cam si dirigerà verso un epilogo inatteso, che lo catapulterà dall’infanzia all’età adulta in modo violento e repentino. Nel cast anche Sofia Iacuitto nel ruolo di Dede e Katie McGovern Zaini la madre dei due ragazzi che è anche la madre vera del protagonista.

La lotta tra bene e male è la cifra semantica del film. E Laura Muscardin ci si interroga da tempo col suo lavoro. La guerra di Cam non è solo un’interpretazione sensibile e lucida di un tema esistenziale e cruciale, ma anche un’autentica esperienza estetica.

Le location dove il film si ambienta sono suggestive e significanti come il Cretto di Gibellina, in cui l’opera di Burri diventa elemento di speranza in un territorio ferito dal sisma del Belice. La cineasta sa anche spaziare nei modi e nei tempi delle serie televisive. Anche se sono i lungometraggi a dare il senso della sua ricerca sulle fragilità marginali. Per La guerra di Cam, Muscardin, (il cognome tradisce l’origine Alpe Adria), ha attinto molto dall’esperienza della sua famiglia legata alla vicenda dolorosa dei profughi istriani. Abbiamo incontrato, virtualmente, la regista in collegamento dalla sua casa romana a pochi passi dal Colosseo.

Laura Muscardin, uno sguardo impegnato il suo che sa essere duttile verso ogni mezzo espressivo.

Gioco forza, direi di sì. Ho lavorato sempre su storie dal forte spessore sociale come Giorni del 2001 che affrontava la tematica dell’Aids e che fece un po’ scandalo perché parlava di una coppia di uomini e io li rappresentai senza caratteristiche macchiettistiche o tragiche. Sono stata chiamata a occuparmi di serie televisive perché era stato visto un mio film ‘impegnato’ in Francia. È accaduto con Billo, la storia di un Pinocchio migrante, un film sperimentale girato in Africa che ha suscitato molto interesse anche per una scena d’amore tra un ragazzo africano e una ragazza bianca. Billo, interpretato da Thierno Thiam, non è il migrante senza progetti, ma un ragazzo che lascia il suo Paese per andare a fare lo stilista. Un film per il quale sono stata premiata da un monumento del cinema francese come Jeanne Moreau. Dopo questo sono stata notata e mi è stato chiesto di partecipare alla regia della serie Tv Tutti pazzi.... Lavorare in televisione è stata un’esperienza incredibile perché è davvero un altro mondo dal quale ho imparato moltissimo.

E poi arriva finalmente La guerra di Cam, un progetto che l’ha coinvolta perché rappresenta una riflessione profonda sulle due forze ancestrali che si contrappongono: il Bene e il Male. E che forse sono il rovescio di una stessa medaglia.

Proprio così. Assumersi la responsabilità di agire contro le forze negative è il tema centrale di questa storia, un tema intimo e radicato in ogni essere umano che assume un maggior peso drammatico se ambientato in un mondo in cui la società come la conosciamo oggi appare perduta.

Alla base del film c’è l’esigenza di raccontare la lotta per la sopravvivenza e la predisposizione dell’umanità verso il Male. Di come la malvagità, se lasciata senza un controllo, possa permeare tutti gli aspetti della vita di un essere umano. Inizialmente, avevo immaginato due ragazzini che tiravano una bara, la loro madre veniva uccisa e si trovavano confrontati con un mondo sconosciuto e disorientante. Poi questa immagine si è trasformata in una sorta di viaggio in luoghi incompiuti o feriti da eventi catastrofici, come ad esempio il Belice. Mi interessava il concetto di sopravvivenza nella capacità di resistenza e resilienza di un bambino.

Proprio la scelta di Cam protagonista ed eroe-bambino del film amplifica l’effetto del messaggio racchiuso nel film. Il Male viene visto con occhi innocenti.

Nel suo viaggio Cam deve riuscire a sopravvivere e a ritrovarsi affrontando il proprio lato oscuro, popolato dalla presenza invisibile dei fantasmi e delle sue paure. Quel viaggio lo trasforma, così come trasformerà sua sorella Dede, li fa diventare adulti costruendo un ponte tra la memoria di chi sono e da dove vengono e chi possono diventare. La perdita dell’innocenza c’è già stata, forse. O deve ancora avvenire. La sfida, mai esplorata a sufficienza, tra il Bene e il Male è un classico senza tempo, e come se il genere western potesse ibridarsi con il genere distopico, ambientando il “cuore di tenebra” di Cam in uno scenario possibile e quantomai contemporaneo. Il mondo di Cam, il territorio in cui si svolge il viaggio del bambino Cam e della sua guida infernale il Frate è un mondo abitato da scheletri. Resti di un’umanità che diventano parti del paesaggio.

Scenografie e musica hanno avuto un ruolo fondamentale nel costruire l’estetica del film.

Con Giuliano Pannuti, lo scenografo, abbiamo cercato di creare un nostro mondo metafisico ridando vita a strutture abbandonate e solitamente poco apprezzate. Abbiamo puntato molto sul grande respiro degli esterni, delle vallate e dei paesaggi; su tutta una serie di opere che appartengono ormai al genere “incompiuto”, a una architettura senza tempo e abbandonata “a metà” immersa in paesaggi spettacolari, tali da creare un mondo nostro, un futuro mai nato, ormai abbandonato ma che conservasse una sua identità.

Avevo visto e apprezzato il lavoro del collettivo artistico Alterazioni video che definisce lo stile incompiuto come “il più importante stile architettonico in Italia dal secondo dopoguerra ad oggi. E afferma che ‘incompiuto ridefinisce il paesaggio italiano”. La colonna sonora è stata il risultato di una serie di lavori di Pescheria, un laboratorio collettivo di musicisti che conoscevo da tempo e che hanno creato un’architettura sonora densa e poetica per il mio film.

Il prossimo progetto?

Sto lavorando sui pony express, quelle figure professionali straordinarie, in era Covid, che ci consentono di stare a casa al sicuro, i cosiddetti riders. Li vedo sfrecciare con ogni condizione meteorologica, si aggirano in una Roma desolata e desertificata dalla pandemia. È un altro viaggio nelle marginalità perché credo che si possa conoscere solo guardando ciò che ci smuove e commuove. Del resto, le marginalità fanno parte delle mie origini e anche una certa malinconia di chi è stato profugo, la mia famiglia se ne andò dall’Istria occupata. In fondo, si capisce di più solo guardando chi è diverso da te.