11 dicembre 2020

Va il grigio della melanconia e la luce nera della pandemia. Così se non ci sono motivi consistenti per uscire me ne sto a casa dove, però, la melanconia verso le 16 del pomeriggio tende a prendere la forma della disperazione. Decido, allora, di uscire perché anche in questo periodo maledetto trovo rifugio solo in studio.

Da quando decido di uscire, al momento di chiudere alle mie spalle la porta di casa, trascorre un intervallo di un'ora. Devo decidere come vestirmi per affrontare il clima invernale rispettando il mio personale gusto estetico. Semplice da dire, complicatissimo da realizzare. Mi vesto a strati. Gli indumenti si nascondono in tre stanze e mentre cerco, continuo a chiedermi piumino leggero o pesante? Mi vesto leggera sotto e pesante sopra o viceversa? Quale berretto, quale sciarpa, quale paio di scarpe? Dove ho messo le chiavi di casa, della bicicletta, dello studio? La borsa piccola o quella grande? Se prendo la grande evito la sacca di tela dove metto l'iPad ed evito soprattutto di lasciarne una delle due in erboristeria o da CeccoliniBio; ormai sono i soli negozi che frequento.

Che cosa mi metto? Ho un armadio a muro pieno di abiti, dove nel reparto invernale ci sono due cappotti lunghi di grande bellezza, e che da due anni porto alla sarta per accorciarli un po'. Sono sempre troppo lunghi; o sono diventata più piccola o non porto più stivaletti con tacchi molto alti. In realtà solo raramente, in occasioni speciali, ho portato tacchi alti. Molto probabilmente sono rimpicciolita. Alla mia età succede e così anche quest'anno niente capi d'autore e continuo a indossare sempre le stesse cose. Quasi una divisa con piccole varianti nelle quali predominano pantaloni imbottiti di finta pelle, maglione a protezione -20 °C proveniente dall'Alaska come i salmoni affumicati, piumino, borsa grande o piccola, sciarpa, berretta, occhiali e mascherina.

Dovrebbero essere azioni veloci. Per la mia disorganizzazione mentale devo evitare scelte eccessive. Anche di sporte, sportine, borsette, berretti, scarpe, sciarpe e chiavi. Soprattutto la chiave della bicicletta. E quando proprio non la trovo, esco ugualmente con la speranza di non averla chiusa. E così è. Quasi sempre. Allo scadere dell'ora, sfinita e vestita come ieri, esco e appena chiudo la porta ho la sgradevole sensazione di aver dimenticato qualche cosa di fondamentale importanza. Nonostante mi sia coperta come un'abitante dell'era glaciale in uno degli inverni più caldi mai registrati, mi sento nuda. Respiro normalmente ed ecco che realizzo l'assenza della mascherina. Mascherina che tengo anche in casa quando viene a trovarmi Allegra, mia nipote e come questa mattina, giochiamo a "nascondino", a "strega in alto", a "uno, due, tre, stella" e poi seguendo la musica dei Beatles, balliamo pure, ma dimentico di metterla quando esco.

Cerco le chiavi di casa; le ho infilate in qualche posto remoto perché pensavo mi servissero solo per il rientro serale e quindi in tasca ho quelle dello studio. Infatti, in teoria e in ordine di tempo, dovevano essere le prime che avrei dovuto usare. Sono un'ottimista. Ancora non mi conosco. E ormai mi è rimasto proprio poco tempo sia per conoscermi sia per andare in studio. Infatti, mi vien voglia di rientrare, definitivamente. Ma sono anche testarda. Riapro la porta, mio marito in postazione davanti al video mi guarda e non dice nulla perché sa che la prima uscita non è mai quella definitiva. C'è sempre una seconda volta. Più raramente, una terza volta. Vado in terrazzo dove appese ai rami di un alberello - il mio albero di questo Natale - stanno appese le mascherine bianche, sicure al novantotto per cento, ma impegnative nella respirazione. Mi tolgo la berretta e gli occhiali, m'infilo la mascherina, mi ricompongo e ritento l'uscita. A fatica prendo la bicicletta dalla rastrelliera condominiale sempre incastrata ai manubri delle altre bici e finalmente esco in strada.

Il tragitto casa studio è un percorso ad ostacoli di ottocento metri di lunghezza.

In via Montanari le auto sono parcheggiate alla mia destra e le portiere e io abbiamo gli stessi tempi; ce n'è una che inevitabilmente si apre quando passo. Gli automobilisti, inoltre, non rispettano le precedenze, sbucano dalle traverse senza dare la precedenza e vanno, alcuni ignorano anche il semaforo, ma pur soli dentro la vettura, hanno la mascherina.

Nel frattempo, come apparizioni venute dal nulla mi sfrecciano a destra, a sinistra e al centro, in slalom giganti, creature extraterrestri su monopattini elettrici. Mi vengono incontro silenziosi come statue leggermente sollevate da terra, anche loro sempre contromano, e mi evitano all'ultimo momento con l'aria di farmi un favore.

Tutti a testa bassa tanto siamo soli, stanchi e arrabbiati.

In via De Gasperi, nei percorsi pedonali e nelle piste ciclabili è disegnata la sagoma della bicicletta e del pedone che indica la direzione corretta. Non vedo mai pedoni e ciclisti andare nel verso giusto. C'è soprattutto nell'andare in bici, una vocazione per la sinistra e per l'andare dove è possibile, ma anche dove è impossibile, accoppiati o in gruppo.

Tutti a testa bassa, tanto siamo soli, stanchi, arrabbiati.

E se suonando o con la voce avviso della mia presenza, nessuno si sposta. Lì sono e lì vanno appassionatamente insieme, magari con cane che al momento giusto fa un balzo al centro della pista ciclabile come accade con le portiere.

Tutti a testa bassa, tanto siamo soli, stanchi, arrabbiati.

A volte penso di essere diventata invisibile. Altre volte penso che portiere, ciclisti, pedoni, facciano parte di quel progetto che mi vuole eliminare per via del piano denominato "selezione di gregge".

12 gennaio 2021

Ma oggi mi sono svegliata con il sole e mi sono regalata una vacanza. Ho evitato la solita portiera che si apre quando passo, sempre auto diverse, ma le portiere, tra di loro, devono inviarsi messaggi. Ho evitato gli altri ostacoli forse perché ho deviato verso il mio negozio bio e ho preso una porzione abbondante di risotto con funghi shiitake, cipolle al forno e Milena ha insistito perché prendessi anche mezza ciambella. L'ho presa e così, al secondo giorno, ho già interrotto la dieta post festività natalizie. Sono poi arrivata fin quassù. Nel mio studio delle meraviglie. Ho pranzato e letto il quotidiano in un angolo del terrazzo protetto dal vento. E per due ore mi sono riscaldata al sole. Ora sono le 17.29. Da un'ora il cielo ha iniziato le sue metamorfosi di fuoco e mentre scrivo la grande finestra mi regala un tramonto infinito con all'orizzonte montagne, che dal monte Conero in semicerchio arrivano agli Appennini bolognesi.

Nel terrazzo dove più in alto c'è solo il cielo, posso conversare con la cupola del Duomo, il suo campanile, il Battistero degli Ortodossi, e la facciata dell'antico monastero Classense. Allargo lo sguardo e vedo gli altri monumenti. Anche ora, mentre sto scrivendo ho tutta Ravenna ai miei piedi. Da più di trent'anni la vedo crescere così disordinata e confusa!

Ma il mio appuntamento è con il tramonto, con la sua luce rosa che s'infiamma, conquista grandi spazi in un trionfo d'oro d'argento di corallo. Nella mente, in armonia con le metamorfosi della natura, si riaccende la speranza insieme a una scintilla di felicità, di riposo, di pace.

Ora è notte e le prime colline s'illuminano e brillano. Abbandono il cielo sopra Ravenna, scendo a terra e ritorno ad essere avvolta nel cupo silenzio e nella luce nera della pandemia.

Si consuma così, tra cielo e terra, la mia schizofrenia.

Inizio a raccogliere gli oggetti sparsi che mi sono indispensabili come il cellulare, alcune medicine, il cibo acquistato per la cena, l'iPad, e altre piccole cose. Quindi anche in studio inizia la danza della raccolta. Impiego meno tempo della prima vestizione, ma i tempi sono sempre lunghi. Appena chiusa la porta la riapro per controllare se ho staccato la spina del fornello che uso per il tè anche se il tè non l'ho preso, controllo la temperatura degli elementi del riscaldamento e contemporaneamente apro leggermente una finestra perché non si accumuli il gas all'interno quando il gas si scarica esclusivamente all'esterno e dopo altri movimenti insensati, richiudo la porta lasciando magari il cellulare o le chiavi.

L'ascensore è l'elemento che mi fa precipitare - di nuovo - agli Inferi. Non salgo in bicicletta perché sono troppo distratta.

Alla sera, a casa, assisto al rito televisivo del numero di morti e di contagiati. È un modo collettivo "per assicurarci di essere ancora tra gli scampati, risparmiati però esposti...". Oggi qui in Italia sono morte per Covid 616 persone.

Morti che risuonano ormai come echi lontani.

... e 'l modo ancor m'offende.

(Dante, Divina Commedia, Inferno, canto V)

I pensieri mutano e cancellano velocemente la speranza e quelle scintille di felicità, di riposo, di pace. Ridivento una creatura solitaria, impaurita, irritata.

E come le altre persone che incrocio anch'io vado a testa bassa tanto siamo soli, stanchi, arrabbiati e come il virus siamo mutati anche noi. Con la differenza che il Covid si evolve per infettarci di più e galoppa per il pianeta in piena salute. Si adatta alla specie umana diventando più contagioso, invece noi abbiamo perduto quella sinfonia della vita fatta di relazione, di contatto, di abbandono, di carezze, di abbracci. Abbiamo perduto la visione dell'esistente nel suo insieme di corpo, mente e spirito.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

(Dante, Rime)

Parafrasi

Guido, io vorrei che tu, Lapo ed io
fossimo soggetti ad un incantesimo
e posti su un vascello, che ad ogni soffio di vento
andasse lungo il mare secondo il nostro volere;

cosicché la burrasca od ogni altra sventura
non ci potesse essere d'ostacolo,
ma anzi, avendo gli stessi desideri,
crescesse il desiderio di stare assieme.

E che donna Vanna e donna Lagia,
oltre a colei che è la trentesima
il nostro buon mago ci ponesse vicino:

e qui parlare sempre d'amore,
e ciascuna di loro fosse felice,
così come, credo, lo saremmo noi [poeti].