L’indifferenza e la violenza sono le due matrici della disgregazione sociale perché alimentano l’egoismo, uccidendo il valore della solidarietà nella società umana. Portano l’uomo a dimenticarsi che prima di tutto egli è un animale sociale.

(Kossi Komla-Ebri)

Ieri a Vienna era l’ultimo giorno in cui i locali potevano restare aperti la sera prima dell’inizio del lock down.
Era d’obbligo quindi andare a trascorrere l’ultima serata al jazz club d’elezione per un ultimo concerto, soprattutto visto che ci suonava l’ottimo quintetto di un mio amico pianista, che avevo molto piacere di rivedere e risentire.

La serata era straordinariamente calda, qui sono due giorni che soffia lo scirocco e quando piove le gocce d’acqua ci portano la sabbia del Sahara: per completare l’illusione di essere nel deserto il termometro ha superato i venti gradi.
Decido quindi di raggiungere il Jazzland a piedi e mi incammino sbirciando come mio solito la vita dei Viennesi al di là delle finestre illuminate.
Sono quasi arrivata, imbocco Rotenturmstrasse schivando un crocicchio di turisti dall’aria perplessa fermi sul marciapiede. Mi avvio con passo baldanzoso giù per la strada - che con il senno di poi è un po’ troppo vuota.
Faccio neanche dieci passi e ad una cinquantina di metri da me un individuo in tenuta da assalto mi urla di retrocedere. Torno indietro precipitosamente e cerco di proseguire per la strada da cui ero arrivata, ma vengo bloccata da un altro poliziotto vestito da Robocop che mi punta addosso un’arma tipo Guerre Stellari con torcia incorporata e a sua volta comincia a urlare con tutto il fiato che ha in corpo.
Non capisco una parola, ma il linguaggio del corpo è inequivocabile.
Retrocedo molto velocemente con le mani ben in vista, non si sa mai. Faccio un giro complicatissimo per raggiungere il Jazzland dall’altro lato, scendendo vicino al canale e raggiungendo Schwedenplatz.
Ma anche Schewdenplatz è diventata una citazione cinematografica, una brutta copia di Blade Runner. Le luci delle macchine della polizia lampeggiano come lampade stroboscopiche, sono talmente tante che non riesco a contarle, ci devono essere almeno venti ambulanze, un dispiegamento massiccio di polizia e forze speciali.
Qualcuno urla ma le voci sono sovrastate dal grido delle sirene, la gente è come paralizzata e sembra si muova al rallentatore.
Non si sa cosa stia succedendo ma non può essere una cosa da poco.
Questa è Vienna, la capitale più sicura d’Europa, una città senza violenza e senza rapine; in un anno si registrano al massimo dieci omicidi da arma da fuoco, nessuno possiede una porta blindata, la gente lascia borse e valigie in bella mostra in macchina di notte e le ritrova la mattina dopo.
L’Austria è un Paese forse un po’ sonnolento, ma straordinariamente pacifico.
A Vienna non può succedere niente di male, lo dicono i dati statistici, eppure mi ritrovo improvvisamente in una realtà distorta, sembra il set di un pessimo film di fantascienza su un futuro improbabile e distopico: la tensione è altissima, la paura sale.
Il pericolo ha sapore di ruggine, ti riempie la bocca.

Ci fanno attraversare il ponte sul canale, dall’altra sponda si può vedere chiaramente l’area che è stata circondata e il Jazzland è esattamente nel mezzo delle luci blu delle auto della polizia e delle ambulanze. Il suono delle sirene sembra assordante ma tolto quello, il silenzio in cui è sprofondata la città è ancora più angosciante.
Vado a rifugiarmi in un locale dove c’è una jam session, nessuno parla, nessuno si muove, accanto a me una ragazzina bianca come un cencio sta guardando lo smartphone e sussurra “dio mio, dio mio…me lo ha mandato un’amica…” mi mostra il display tenendo il telefono come se scottasse. Le immagini sono riprese da una mano che trema visibilmente, si vedono i tavolini vuoti fuori ad un locale e per terra un corpo immobile in mezzo ad una pozza di sangue.
Abbandono il bicchiere di vino che avevo ordinato. Ho la bocca piena di ruggine.

Esco e cammino come una furia e improvvisamente mi scopro molto calma e lucida, l’adrenalina sembra amplifichi ogni sensazione e ogni pensiero mentre il mio senso di sicurezza va in frantumi.
Mi domando com’è possibile vivere a Kabul e in ogni posto del mondo dove ogni volta che i tuoi figli escono di casa per andare a scuola non sai se li rivedrai vivi. Dove ogni volta che vai al mercato o all’università potrebbe essere l’ultima, dove sei costretto a convivere con questa paura densa come pece e questa sensazione di pericolo che ti invade il corpo ed i pensieri.
Quello che sto provando da poco più di un’ora è un piccolo frammento della paura in cui vivono migliaia di persone da anni.
È come guardare dentro un pozzo di orrore.
Ed è spaventoso.

Ieri nel campus dell’università di Kabul un commando armato ha ucciso ventidue studenti, il 24 ottobre un attentatore suicida si è fatto esplodere vicino ad un centro educativo ammazzando trenta persone e ferendone altre settanta.
Il maggio scorso a Kuz Kunar, in una provincia “sicura” dell’Afghanistan, un kamikaze dell’ISIS si è fatto saltare durante un funerale massacrando trentadue persone e ferendone altre cento, e nello stesso giorno un attacco armato nel reparto maternità di una struttura gestita da MSF a Kabul è costato la vita a ventiquattro civili. Mamme, bambini, infermiere.
Cammino furiosamente e a casaccio mentre queste notizie mi ritornano in mente con una forza infinitamente maggiore di quando le ho lette, maggiore è anche la rabbia e maggiore è il dolore.
Quando hai in bocca un pericolo che sa di ruggine, la devastazione della vita degli altri ha un impatto emotivo molto più profondo.

Quando finalmente riesco a ritornare a casa le notizie sono ancora confuse, si parla della Sinagoga ma la Sinagoga di fatto non c’entra nulla, tranne per il fatto che si trova nella zona dietro a Schwedenplatz che la sera è una delle più affollate della capitale. Si trova lì per caso.
Non sono sei attacchi come qualcuno sostiene, né ci sono più attentatori, l’area è troppo piccola e ha strade troppo strette per essere stato un commando, altrimenti il numero dei morti sarebbe drammaticamente più alto. E poi se così fosse stato a nessuno sarebbe stato consentito di attraversare il canale e raggiungere qualsiasi altro distretto.

Conosco bene questa zona della città vecchia (qui chiamata “il triangolo delle Bermude”) all’attentatore è bastato spostarsi come fanno i ragazzi che fanno il giro dei bar.
Ha camminato uccidendo a sangue freddo quattro persone e ferendone ventisei prima di farsi ammazzare a sua volta, nove minuti dopo.
Non c’è modo di capire né di tentare di spiegare cosa può portare un ragazzo di vent’anni nato e cresciuto a Vienna a compiere un massacro del genere per poi farsi ammazzare in questa città un po’ sonnolenta ma straordinariamente pacifica.

Oggi non penso, oggi piango i morti innocenti, tutti. E questa sera scrivo, perché la scrittura esorcizza la paura e diluisce il dolore.
Ma domani sarà tempo di pensare, e molto, perché la lotta al terrorismo dipenderà in larga parte dalla nostra capacità di comprendere la realtà e trovare degli antidoti alla violenza.

È molto importante che la società ora capisca di cosa si tratta. In definitiva, i terroristi si occupano di dividere le società, terrorizzandole e mettendo le persone l'una contro l'altra. E, ironia della sorte, i terroristi islamici stanno cercando di incitare le persone contro i musulmani affinché altri i musulmani si radicalizzino, così da spingerli tra le loro braccia.

(Peter Neumann, esperto di terrorismo, in una intervista pubblicata il 3 novembre 2020 dal quotidiano austriaco Der Standard)