La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche il volo di un moscone
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione.

Quasi cinquant’anni fa, Giorgio Gaber cantava La libertà. Ma la partecipazione, si sa, è impegnativa, ed oltretutto non sempre possibile ed efficace. Per questo, a conti fatti, facciamo ricorso a quella soluzione imperfetta che va sotto il nome di democrazia rappresentativa. E la rappresentanza (la “rappresentatività”) non è elemento secondario. Poiché rinunciamo a gran parte della nostra partecipazione, attraverso un meccanismo di delega, la rappresentanza - la sua “qualità”, in senso ampio - è cruciale.

La moderna democrazia rappresentativa ha però subito una profonda trasformazione, particolarmente accelerata negli ultimi decenni, sotto la spinta della rivoluzione industriale, della crescita esponenziale della popolazione, della rivoluzione digitale e della conseguente globalizzazione. Le questioni che si pongono, anche semplicemente nella sfera della “bassa politica” (la mera amministrazione dell’esistente), sono sempre più complesse, e collegate a livelli sempre più lontani, rendendo così sempre più complicato gestirle. E tutto ciò risulta in un disincentivo alla partecipazione, per un verso, ma anche in una velocizzazione dei processi decisionali per un altro, che hanno progressivamente svuotato di senso le assemblee rappresentative. L’esito di questo processo è il progressivo slittamento dalla democrazia rappresentativa alla rappresentazione della democrazia.

L’idea stessa di partecipazione, così come si esprimeva (limitatamente) all’interno dei meccanismi della rappresentanza, è stata via via edulcorata, depotenziata, sino ad esserne definitivamente espunta. Un processo, questo, significativamente osservabile proprio in quelle forze che provengono da una tradizione di maggiore partecipazione, e che trova il suo apice nell’importazione del modello americano delle “primarie”. Spacciate come segno di grande partecipazione, sottacendo il fatto che trattasi di un meccanismo in cui quest’ultima è assolutamente passiva e limitata, in ultima analisi una sorta di pre-elezione, di cui riproduce in toto le dinamiche: leaderismo, personalismo, partecipazione ridotta al solo voto.

Il calo vertiginoso delle forme partecipative, seppur limitate, tipiche dei primi decenni della nostra democrazia, si è poi inevitabilmente riflesso nel calo della stessa partecipazione passiva - il voto. Da una percentuale di votanti pari al 92,19 % degli aventi diritto, nel 1948, ad una del 72,93 % settant’anni dopo. Più di un quarto dell’elettorato che, nonostante la presenza di numerose formazioni “populiste” (per tacere della torsione in tal senso di quasi tutte le forze politiche...), classico richiamo per gli scontenti ed i delusi, decide di rinunciare all’esercizio del proprio diritto-dovere.

L’emergere stesso delle formazioni populiste - e prima ancora del substrato culturale su cui fondano la propria esistenza - rappresenta il sintomo degenerativo della democrazia rappresentativa, e non certo l’affacciarsi di anticorpi. Non a caso, il leitmotiv del populismo non va in direzione di una ricostruzione dei processi partecipativi reali, né tantomeno di un “riallineamento” istituzionale che li renda nuovamente compatibili ed efficaci rispetto alle esigenze della complessità; il populismo si muove nella direzione del definitivo smantellamento di ogni residuo di rappresentanza, sostituita variamente dal rapporto diretto tra leader e “popolo”, o da vacue forme di “democrazia diretta”.

A sua volta, lo smantellamento dei processi partecipativi - e quindi degli strumenti attraverso i quali questi si articolavano - ha prodotto non solo la disaffezione dei rappresentati, ma anche la progressiva dequalificazione dei rappresentanti. Innescando una spirale che si auto alimenta: il rifiuto della partecipazione produce una classe dirigente mediocre (o peggio), che a sua volta allontana ancor più dalla partecipazione.

Purtuttavia, è evidente che vi sono altri fattori che hanno portato all’attuale crisi della democrazia rappresentativa.

Primi tra tutti, come su accennato, la crescente complessità dei problemi, ed il loro collocarsi in una dimensione globale sempre più difficilmente “governabile”.

Ciò nondimeno, la risposta delle democrazie è non solo insufficiente, ma anche mal orientata. Accettare la disaffezione, la scarsa partecipazione, anzi apprezzarla in quanto elemento che affievolisce il “controllo” che i rappresentati esercitano sui rappresentanti, si è rivelato un fattore di indebolimento strutturale, che se pure ha prodotto una maggiore libertà d’azione nell’azione di governo, l’ha per altri versi profondamente depotenziata.

E questa corsa “suicida” non sembra destinata a fermarsi.

Uno dei sintomi di questa pulsione suicida è l’auto-evirazione delle assemblee rappresentative. Il fondamento della democrazia parlamentare è la sovranità popolare, esercitata appunto attraverso la delega. Dunque, le assemblee rappresentative svolgono un ruolo di interfaccia tra il “sovrano” ed il potere esecutivo pro-tempore. Ruolo che non si esaurisce nel rappresentare i cittadini, ma anche nella funzione di indirizzo e di controllo esercitata sul potere esecutivo; ed entrambe le funzioni sono egualmente importanti, nonché strettamente connesse. Quanto più ampia e forte è la rappresentanza (politica, territoriale), tanto maggiore sarà l’autorevolezza delle assemblee.

Qualunque assemblea rappresentativa che voti una propria (sia pur parziale) diminutio, compie pertanto un tradimento verso la propria rappresentatività, persino se tale decisione corrisponda ad una parte significativa dell’orientamento generale.

Se una comunità esprime una classe dirigente inadeguata, o persino indegna, la soluzione non può certo essere ridurne il numero - cosa che, al contrario, ne rafforzerà le pulsioni negative - ma semmai intervenire sui meccanismi che ne determinano la formazione. E, in una democrazia rappresentativa, ciò significa innanzitutto non indebolire la rappresentanza, ma anzi operare per rafforzarla.

Aumentare le forme reali - non fasulle e/o virtuali - di partecipazione, renderle sempre più incisive ed inclusive è la chiave per non ridurre tutto al volo di un moscone.

Ma, intanto, preserviamo almeno quel po’ di rappresentanza che ancora ci rimane.