Per voce creativa è un ciclo di interviste riservate alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa occasione Giovanna Lacedra incontra Florencia Martinez (Buenos Aires, 1962).

Quando entri nella casa-studio di Florencia Martinez trovi ad accoglierti il suo sorriso contagioso, un gatto assai vispo e il caos creativo di aghi, fili e tessuti colorati di diversa fattura e spessore, tutti raccolti lì, dove lei sta plasmando qualcosa di nuovo. Florencia è una donna estremamente ospitale: ti saluta con calore, ti offre un caffè o una tisana, e immediatamente ti fa sentire a casa. Può succedere che si sieda al tavolo per bere insieme a te o che ti inviti a sederle vicino mentre lavora. In ogni caso, non dimentica mai di domandarti “come stai?”. E questo le interessa davvero. Florencia è una donna che sa ascoltare, e nonostante i nodi assai stretti delle sue difficoltà, quando ti incontra non dimentica mai di dedicarsi a te. Se ti racconti lei ascolta ogni tua parola e poi condivide con te le sue riflessioni. Sono sempre riflessioni profondissime. Florencia Martinez è una delle artiste più umili, generose e materne che io abbia mai conosciuto. Ha una rara capacità di condivisione. Siamo state vicine di casa per un paio d’anni e dunque ho avuto modo di conoscerla meglio e ho potuto appurare quanto lei non si risparmi. È una guerriera infaticabile e tutto quel cuore che ti mostra è lo stesso che pulsa nelle sue opere.

Florencia Martinez è un’artista italo-argentina, nata a Buenos Aires ma residente a Milano da molti anni che ha scelto di mescolare, nella sua pratica artistica, manualità e visionarietà. Il suo modo di operare è molto intimo e femminile. Florencia cuce, ricama, rattoppa, riempie, plasma tessuti già vissuti e questa è una scelta che ben si lega al suo lavoro sulla memoria. Il lento tempo del cucire è il lento tempo della traversata nella memoria. Rivivere, ricucire, lasciare andare. Florencia ricuce le ferite della sua vita: riciclando tessuti, restituisce nuova vita a materiali dimenticati. I temi trattati tornano sempre, costantemente alla dimensione del femminile. C’è, nel suo lavoro, la rivisitazione in chiave terapeutica e affrancante, di ricordi privati, luoghi vissuti, dinamiche relazionali e famigliari. Come Louis Bourgerois, anche lei crea per rivivere e rivive per liberarsi. Florencia Martinez vive e lavora a Milano. Questa è la sua voce creativa per voi…

Chi è Florencia?

Mi viene da rispondere Rosebud! Florencia Martinez in realtà è Rosebud: lo slittino di citizen Kane nel film Il quarto potere di Orson Welles. Ho l’età del ritorno all’infanzia. Rivedo, catalogo, sottolineo e cancello ricordi e scelte fatte in questa vita divisa tra due continenti da un oceano, tra l’Italia e l’Argentina; “florencia” è un nome tutto minuscolo: senza cornice.

Esiste un luogo dove sai che vive un’altra parte di te?

Ho due luoghi entrambi liquidi: l’oceano Atlantico e il mare Mediterraneo. Ho avuto da loro risposte, mi sono nascosta e rigenerata da ferite mortali, mi hanno suggerito cambiamenti, protetto. Loro mi hanno insegnato ad ascoltare e io ho insegnato loro a sostenermi.

Come inizia il tuo percorso artistico?

Inizia in Argentina verso la fine degli anni ‘80, frequentando la scuola d’arte “Antonio Berni” e gli studi di artisti come Dermidjian e Gorriarena, quando mi occupavo di pittura. Nel 1990 mi sono trasferita in Italia e la mia ricerca ha iniziato a rinnovarsi nel linguaggio e nei materiali. Questo rinnovamento mi ha portata ad utilizzare altri materiali e altri approcci, tanto da lasciare la tela e arrivare al tessuto come supporto per interventi pittorici. Il passo successivo è stata la fotografia, che stampavo direttamente sul tessuto. In un primo momento sono state fotografie degli anni Cinquanta che compravo nei mercatini di diverse città italiane, francesi, tedesche, dopodiché ho iniziato a fotografare io stessa e sono passata a raccontare una dimensione sociale niente affatto generica.

La mia scelta tematica è stata diretta e puntuale: ho scelto di raccontare la donna. La donna nella società contemporanea, nella dimensione affettiva, famigliare, sociale. L’uso del corpo della donna come merceologia quotidiana, la donna come oggetto con data di scadenza stampata sulla pelle, la donna come immensa solitudine. Su questo tema ho lavorato tra il 2005 e il 2011, talvolta appoggiandomi a poeti come Jolanda Insana, i cui versi hanno ispirato il lavoro presentato alla Biennale di Venezia del 2011, nel quale raccontavo il circo del “bunga bunga”. Si trattava di un lavoro di grande formato in cui una moltitudine di corpi femminili avevano la data di scadenza marchiata sulla pelle ed erano posizionati attorno al corpo nudo di un uomo anziano.

Ho anche lavorato sul tema della resilienza femminile tra il 2000 e il 2010, con un progetto che si chiamava “Il sorriso e il pianto”: avevo chiesto ad una serie di donne di sorridermi, avevo chiesto un sorriso da fotografare, un sorriso anche forzato. Dopo averlo fotografato lo stampavo su tessuti contrastandolo molto, in modo da ottenere visivamente “l’anima” di quel sorriso, la sagoma della resistenza. Tutti quei volti riempivano intere stanze, per cui “Il sorriso e il pianto” è diventato un progetto itinerante, una performance-installazione che è stata ospitata in diverse città e gallerie, sia italiane che straniere.

L’arte è introspezione?

Anche. Ma non solo. Ma da sempre.

Chi sei quando non crei?

Una mamma ansiosa, un’insegnante ansiosa, un’ansiosa ansiosa.

Se non fossi un’artista chi saresti?

Non ho sinceramente idea di cosa potrei essere: un medico chirurgo in Africa, un pescatore siciliano, una cantante lirica, un pilota di elicotteri, una venditrice di pozioni magiche, un gatto!?

La tua ricerca è molto particolare, visionaria e manuale, quali sono i materiali con cui lavori e come li plasmi?

Grazie per quanto mi attribuisci, essere visionaria e manuale ha dello sciamanismo e mi ritrovo nella categoria “venditrice di pozioni magiche”! Dal 2014 il tessuto che fino ad allora conteneva le mie fotografie ha cominciato a prendere forma e spazio da solo e si è autoeletto a materiale primordiale del mio fare, non ha voluto più restarsene nell’ombra a contenere storie, ma ha preteso lui stesso d’essere la Storia. Ebbene sì, mi sono arresa a questa sua richiesta. Ed è così che siamo passati allo step successivo: la scultura. Il tessuto è diventato oggetto, forma, ha iniziato ad interagire e comunicare con lo spazio. Il patto è stato quello di lasciare che io potessi cucirlo talmente forte da conferirgli una durezza di “marmo tessile”, e così alcuni lavori hanno assunto – e tutt’ora assumono – una compattezza solida peculiare. Parallelamente amo la traccia della cucitura che interpreto come segno grafico. Questo è un aspetto del mio operare, ma la realtà è che in questo materiale così quotidiano, povero, snobbato dai più, io trovo una verità profonda e anzi, una verità che è più vicino al cuore delle persone di qualsiasi altro materiale. Il nostro primo vestito, il vestito delle nostre idee.

Con il tuo lavoro affronti tematiche forti e anche delicate, quali sono i temi più ricorrenti negli anni?

I temi ricorrenti su cui lavoro da sempre sono la donna, la memoria e il sociale. Ho fatto un’indagine sulla violenza sulle donne dal 2005 al 2011: la serie Il pasto nudo e L’amore mio è buonissimo (verso rubato a Vivian Lamarque) presentate presso la galleria Stefano Forni di Bologna, mostravano un corpo femminile metaforicamente mutilato, stampato sui tessuti più diversi e in situazioni spaesanti. Sulla tematica sociale vorrei ricordare I mari del Sud: un’Italia sdraiata realizzata al MACRO di Roma nel 2018. In quel lavoro ho voluto raccontare l’Italia in una orizzontalità che le negava la sua gagliarda verticalità e partendo dalla poesia di Pavese, ho inteso ripristinare una memoria da dopoguerra per ricordare chi eravamo. Nell’installazione La chiamavano Millemiglia, fatta con macchinine a pedali degli anni ‘30-‘40 recuperate da un incendio, alle quali ho ricostruito in tessuto le parti mangiate dal fuoco o Carritos, con delle carriole raccontavo la storia dei “cartoneros” di Argentina, quando la raccolta differenziata nasceva dal basso e non dall’alto come in Europa, nasceva dalla necessità di sopravvivere.

Lavorando con tessuti di vari tipi ho anche partecipato più volte al Salone del Mobile con dei progetti particolari come Separé, Pouf e altre sedie, tutti oggetti rivisitati. In questo caso, il linguaggio dell’arte e del design confluivano in un’armonia nuova, dando vita a pezzi unici. È il caso del lavoro presentato durante l’ultimo salone del Mobile milanese, dove insieme a Gilda Contemporary Art abbiamo proposto una serie di pouf ispirati all’acconciatura di Maria Antonietta, chiamata Pouf aux sentiments. Ecco, nella produzione artigianale di oggetti di design batte un cuore che incontra altre lingue, storie, poesia, e sensi.

La tua opera più potente?

La Pietà. Potente perché fatta in un momento di estrema necessità e fatta con l’intenzione e la volontà che quest’opera mi aiutasse. Ricordo, era il dicembre del 2016 quando, alzando gli occhi al cielo chiesi al soffitto del mio studio “vita aiutami tu!” e iniziai questa scultura. A gennaio 2017 i problemi che mi aggredivano erano scomparsi e la Pietà era a metà conclusione. Non era è una Pietà religiosa, ma sociale: vediamo un uomo di feltro grigio che regge un corpo senza vita, bianco, pieno di pizzi e perline; un Terzo Mondo che regge un Primo Mondo. Quest’opera è poi stata presentata alla mostra H, Hungry Honey Home, sempre alla galleria Gilda Contemporary Art a Milano, con due bellissimi testi di Cristina Artese e Alessandra Redaelli.

Quale credi sia il compito di una donna artista oggi?

Sicuramente per le artiste donne quello di aiutarsi a vicenda tra loro, fare muro come a pallavolo. Io non credo che l’arte abbia un genere però quello che vedo è una disparità secolare in tanti settori e ambienti lavorativi, per non parlare della crescente percentuale di femminicidi e di situazioni nascoste dentro le mura domestiche. C’è un non detto che fa più male del detto e una sensazione che tutte le donne provano prima o poi di essere in pericolo, una paura che forse viene dai tempi dei tempi, confermata ogni volta che sentiamo una notizia di cronaca, una morte assurda, una sparizione, o semplicemente la tua amica che viene con un occhio nero e ti dice che è caduta per strada.

Ad ispirarti, influenzarti, illuminarti ci sono letture particolari?

Sembrerò anacronista ma leggo fondamentalmente poesia, i miei nomi sono Dickinson, Cummings, Kavafis, Elliot, Montale, Apollinaire, Michaux. Come saggi: Richard Sennett L’uomo artigiano e Leggere i materiali di Eleonora Fiorani.

Non sei anacronista, anche io mi nutro abbondantemente di poesia. Ora scegli tre delle tue opere per raccontarci ancora meglio il tuo percorso.

La presenza dell’altro, poltrona, Galleria Zaion Biella, 2017.
Questo è un esempio di art-design, si tratta di un pezzo unico, una vecchia poltrona trovata per strada ridata alla vita attraverso una sinfonia di palline colorate cucite tra di loro e la poltrona che però appoggia a sua volta su una nuvola carminio, è stata il perno dell’inaugurazione. Dal suo nome “la presenza dell’altro” è partita la performance: ho realizzato 24 disegni, divisi a metà in 48 buste. La gente doveva trovare l’altra metà del disegno e poi concordare sul chi si sarebbe tenuto il disegno. Un esperimento antropologico su quanto siamo disposti a perdere la nostra metà di disegno, a lottare per avere il disegno intero, sulla generosità e la capacità di fidarsi dell’altro. Una sedia che si trova su una nuvola e sembra impossibile da raggiungere. La presenza dell’altro è quella cosa che non ci fa sedere anche se la sedia è vuota.

Lagrimas al cielo – Lacrimatorio, installazione dimensioni variabili, Galleria Gilda Contemporary Art, 2018.
Si tratta di una pioggia di fazzoletti di seta bianca che cade dal soffitto creando, in uno spazio in questo caso di 3x3 m e altezza 5 m, un morbido labirinto di tessuto, i fazzoletti cuciti a diagonali ci fanno pensare a fazzoletti utili per asciugare il pianto, per non piangere più. Questa installazione è nata in seguito ad un pianto reale, mio, lungo otto ore, durante il quale avevo pensato che mi dispiaceva persino che i fazzoletti cadessero a terra insieme alle mie lacrime, e a quel punto ho immaginato questa ascensione verso l’alto, ho immaginato che le lacrime evaporassero al cielo.

Quel che non si dice quel che non si ascolta, Marca Residenza Catanzaro, Fondazione Rocco Guglielmi, 2019.
La residenza chiedeva di relazionarsi con la città di Catanzaro. Ho cucito tutti questi sacchetti di tessuto bianco e poi ho chiesto alle persone che visitavano lo studio dove lavoravo di scrivere anonimamente una lettera sul passato o sul futuro, su quello che volevano lasciarsi dietro le spalle o su quello che avrebbero voluto ottenere in futuro. Il risultato è stato un’installazione con centinaia di lettere nascoste dentro una specie di alveare. La potenza di un desiderio sigillato in un determinato spazio è veramente funzionale, credo così di aver permesso alla gente di partecipare a una esperienza ludico-lavorativa: viviamo con il telefono in mano credendo di comunicare, di essere “connessi”, pensiamo di sapere tutto in tempo reale e se possibile prima che accada, insomma viviamo in un modo superficiale, veloce, “WhatsAppiamo” e siamo tornati a comunicare quasi come i nostri antenati, con ideogrammi, per velocizzare.

In questa corsa rimangono indietro molte persone e sentimenti non espressi, che diventano angoscia, ansia, depressione: il male della nostra epoca. Questo tipo di comunicazione, se anche risulta utile e funzionale, non tocca mai punti profondi, non ci si interroga su se stessi o sul mondo e non ci si fa domande, si accetta o si rifiuta un “like”. E tutto si riassume così. Ho voluto proporre un’indagine anonima e sincera sul disagio umano e lasciare una documentazione cartacea in questa epoca senza carta, attraverso un’installazione di materia e lavoro manuale in questa epoca virtuale e tecnologica. Chi desiderava partecipare scriveva una lettera che avrebbe raccontato ciò che nessuno sapeva: un dolore, una malattia, un sogno o un desiderio. Questa lettera veniva inserita all’interno di sacchetti di tessuto preparati precedentemente da me e che avrei chiuso cucendoli con un filo rosso, come un sigillo. Credo fortemente nella relazione tra arte, magia, materia e persone. L’arte contemporanea deve avere uno spazio relazionale, un ponte che facilita il linguaggio e una condivisione fisica dei materiali inusuali per l’arte “tradizionale”, materiali che la gente di solito non si aspetta di vedere in una mostra, in un museo o in una galleria. Credo che la pratica artistica sia l’unica via possibile per la guarigione e la libertà mentale, credo nella generosità umana che tale pratica sviluppa nell’anima di chi vive a contatto con questo “altro mondo”.

L’opera d’arte che ti fa dire: “Questa avrei davvero voluto realizzarla io”?

Tutto Louis Bourgerois.

Un o una artista che avresti voluto essere tu.

Maria Lai e Kiki Smith , però stimo e apprezzo il lavoro di artiste e colleghe con conosco e che mettono nella propria ricerca tutto quello che possono dare, ci sono altre realtà oltre l’Olimpo delle stelle, a me sorprendono sempre l’ossessione e il rigore di Angela Trapani per le sue cupole, i messaggi e le narrazioni ironiche nei quadri di Vania Elettra Tam, la forza del caos messo in ordine di Jole Serrelli, le azioni catartiche e purificatrici di Giovanna Lacedra e le azioni paradossali di Liuba, amo la alchimia e i giochi di chimica nei lavori di Francesca Romana Pinzari. E vogliamo parlare delle fotografie di Erica Campanella? Di una bellezza perfetta senza questioni. E i paesaggi di Alessandra Rovelli dove vorresti entrarci e rimanere nascosto in silenzio? Micaela Lattanzio, con la sua fotografia molecolare, Veronica Montanino e il suo colore-forma, Virginia Ryan e la sua lotta per il giusto e per il buono, tante altre artiste che magari ora non mi vengono in mente ma che mi fanno sentire che il fiume scorre, oltre a guardare in alto, si possono allargare le braccia per toccare chi c’è e chi fa ora qui con te.

Un critico d’arte o curatore con il quale avresti voluto collaborare.

Okwui Enwezor, il curatore della biennale di Venezia del 2015, una biennale che mi aveva profondamente emozionata per la sua impronta umana, sociale e multidisciplinare. Purtroppo è morto l’anno scorso. Nel mio piccolo ammiro e stimo molto il lavoro di critici e curatori con i quali ho lavorato, come Alessandra Redaelli, della quale amo la scrittura delicata e ironica, (se posso raccomandare un suo romanzo Arte , amore e altri guai, per chi vive anche tangenzialmente il mondo dell’arte è un tuffo in situazioni dove ognuno di noi è stato o sarà… ci si riconosce, riconosciamo stereotipi e ridiamo finalmente delle nostre tragedie quotidiane…), o con i quali ho collaborato qualche volta come Ivan Quaroni, visionario, o Chiara Canali, versatile, o Barbara Santoni, che viene dal mondo della moda e che apporta uno sguardo trasversale che questiona e mette in discussione tanti punti morti. Comunque penso che i critici italiani abbiano una preparazione straordinaria, che talvolta fa di loro i veri artisti.

Tre aggettivi per definire il sistema dell’arte in Italia.

Elitario, chiuso, autoreferenziale.

In quale altro ambito sfoderi la tua creatività?

Nei giochi di ruolo con mio gatto Scott Fitzgerald!

Work in progress e progetti per il futuro?

Nel dicembre 2020 a Milano realizzerò una mostra personale presso la galleria Gilda Contemporary Art. Per questa occasione sto lavorando ad un progetto dove la partecipazione del pubblico completi il senso della mostra e dove l’artista funzioni da ponte tra l’opera e spettatori. Prossimamente parteciperò a una bellissima esposizione collettiva con artisti internazionali curata da Virginia Monteverde e dal titolo Il respiro dell’arte, un progetto che lei ha partorito durante la quarantena e che secondo me ha aiutato noi artisti a non perdere il filo del nostro fare, ci ha evitato di soffocare sotto la pressa dei divieti, ci ha evitato di lasciarci sopraffare dalla paura del virus; in questa mostra diversi linguaggi e metodi di lavoro confluiranno nell’oggetto molesto che è la mascherina.