Suo padre spese un fracco di soldi in vernici e manodopera. Marco imbrattava, pardon “affrescava”, le pareti che gli capitavano a tiro, e i genitori dei suoi compagnucci erano affatto felici. Alcuni sì, a dire il vero (ma come saperlo in anticipo?), e il bimbo non si poneva il problema: gli piacevano i muri bianchi. “O smetti di disegnare o smetti di andare dai tuoi amici” fu l’aut aut paterno all’ennesimo esborso per l’imbianchino.

Marco Milanesi, pratese di antico ceppo, disegnava da monello e disegna ancora. La strada con la matita in mano è indipendente da quella ufficiale fatta di liceo Classico, facoltà di Scienze Politiche, impiego nell’azienda di famiglia che produceva filati (quasi da non specificare trattandosi di Prato), impiego che accettò dopo “giri lunghi, da ribelle”. Una strada bruscamente interrotta, come se fosse esploso un ponte sulle rapide di un fiume. Il lutto, gli impegni professionali gravosi e, soprattutto, troppo lontani dalla sua indole. “A un certo punto non mi ha più divertito e ho smesso di disegnare. La perdita del babbo nel 1993, le responsabilità in ditta e la crisi al principio del Duemila non erano adatte alla creatività”.

Una strada imboccata di nuovo, con parecchie soddisfazioni dato che in questo mondo, per fortuna, a volte non c’è scampo nemmeno dal riconoscimento.

Marco Milanesi, sessant’anni in questi giorni, sempre avvolto dal jazz.

Da bambino che disegnavi?

Le stesse cose che faccio ora: esseri umani un po’ strani, animali, tubazioni e meccanismi che non servivano a niente, ma fin da piccino mi affascinavano, caricature varie. Da ragazzo poi mi sono divertito tanto in duo con il mio compagno di classe Piero Ceccatelli che ha un’ironia frizzante alla Marcello Marchesi: lui aveva la battuta e io il segno.

Ho anche disegnato ogni passo della vita di mia figlia che ha un album personale: battesimo, patente, matrimonio.

Poi l’interruzione

E la ripresa. Il disegno, creare queste storie improbabili, mi ha aiutato a superare la separazione da mia moglie, ha rimesso in moto le rotelle arrugginite e, con le mostre, è arrivata anche una botta positiva all’autostima. Prima un’esposizione ispirata al jazz, in un circolo culturale di Campi Bisenzio, con il mio migliore amico, il fotografo Marco Benvenuti. Nel 2016 ho esposto a Firenze, alla villa del Poggio Imperiale, nell’ambito della giornata internazionale del jazz UNESCO. Nel 2017 una personale di 26 disegni nel foyer del teatro Metastasio per il festival Metastasio Jazz dove, mi concedo un pizzico di narcisismo, non avevano mai proposto interventi al di là dei classici concerti.

Suoni?

No. L’unico legame tra me e il jazz è disegnarlo. Da tre anni mi unisco a un trio, Andrea Allulli al piano, Carlo Bonamico al contrabbasso, Marco Barsanti alla batteria, che suona stabilmente all’Arci di Quinto Fiorentino: mentre suonano, io disegno dal vivo. A ogni concerto c’è un musicista ospite di riguardo. Ed erano contenti che ci fossi anche io. Un appuntamento fisso, molto interessante, originale, che sta avendo tanto successo.

E per quindici anni ho condotto una trasmissione alla radio locale.

Che cosa ti suscita il jazz?

Mi ha dato il senso del ritmo dell’esistenza. Lo sento sotto i piedi, scandisce la mia vita. Quando disegno è come respirare, come se suonassi. Swing, blues. I musicisti jazz hanno lasciato grandi tracce. Hanno affrontato i territori inesplorati. A me piace il racconto in musica che nasce lì per lì attraverso l’improvvisazione che poi è tutto meno che improvvisazione.

Gli amatissimi?

Il periodo più bello: dagli anni Cinquanta all’inizio dei Sessanta, da Charlie Parker a Miles Davis prima della svolta elettrica, anche se la svolta mi piace. Chissà se i miei gusti interessano…

Chet Baker. Sono stato stregato dalla copertina di Blue Note. Il trombettista Clifford Brown, il sassofonista Hank Mobley. Da ragazzo ero invasato di Frank Zappa che ha inzuppato molto nel jazz. E il jazz di oggi è bellissimo. Anche il free jazz. Io muoio senza sentire tutto! Ma te sei matto, mi dicono. Beh, è sempre probabile.

C’è una musica diversa che ti conquista?

Il suono del motore di un’automobile d’epoca. L’altra mia passione. Mio padre Mario ha corso la Mille Miglia, quella vera, per alcuni anni: ha smesso nel 1959. Il cugino Felice Bellandi, pecora nera di una grande famiglia, vinse la Mille Miglia del 1938, nella sua categoria, con un’Alfa Romeo 1750 Gran Sport Zagato. Mio cugino Stefano Milanesi è stato campione italiano rally. Ho legami con la scuderia Biondetti. Mi sono occupato della Coppa del Chianti Classico, gara importantissima del campionato europeo, che è gestita in lingua inglese. Sono giudice ai concorsi di eleganza dell’auto storica.

Ho girato il mondo per le macchine. Ho corso in Inghilterra. Ho avuto belle macchine, ora non ce le ho più dopo la crisi del tessile. Ma sono flessibile, sennò si diventa maniacali. E…

Sì?

Per concludere l’intervista vorrei citare Sara Passi, professoressa, che mi chiese di illustrare i suoi racconti per bambini proprio quando mi stavo piano piano riappropriando del disegno e che, dopo il mio no, mi disse: “Perché non provi, perché non guardi”. E Patrizia di Carrobio (autorità internazionale in materia di pietre preziose e gioielli vintage n.d.r.) che abita a New York per la quale faccio un disegno alla settimana, i Sunday sketches, partendo da spunti della sua vita, e che lei pubblica sui social. A volte mi fa: “Marco vado a Miami”. E io: “Boh, non ci sono stato mai”. Ma poi il disegno viene. Una bellezza, questa relazione amicale a distanza.