Rendo omaggio a te, Gea,
madre di tutti i viventi,
a te che nutri tutti gli esseri,
quanti camminano sul terreno fecondo,
o nuotano nel mare e quanti volano nell’aria.
Rendo omaggio a te,
che sei la più antica fra le divinità.
Progenitrice degli dei,
sposa del cielo stellato.
È in tuo potere dare la vita,
tu domini il mondo delle ombre.
Felice colui che trova benevolenza nel tuo cuore
poiché ogni bene affluisce
nella sua esistenza.
Madre Terra, potente Signora,
concediti benigna, esercita
la tua misericordia,
apri il tuo cuore al perdono.

È un’invocazione quella che riesco a far risuonare, che emerge dal cuore mentre le parole non ce la fanno a mettersi in ordine; non trovo una forma che risponda alla loro urgenza, alla loro inquietudine; sono sconquassate dal bisogno incalzante di silenzio, sono state scardinate dalle loro sicurezze, non vogliono altre regole, hanno bisogno di abbandonarsi all’incertezza, alla fragilità, accettano di perdersi nell’abisso delle ovvietà e di ritrovarsi nel “respiro della fiducia”1. Sentono l’odore fastidioso della menzogna e si dibattono per scrollarsi di dosso i discorsi vuoti e pieni di arroganza. Hanno il respiro breve della paura, quella antica che ci portiamo dentro, nel profondo, quella dei nostri antenati che affrontavano l’angoscia dell’ignoto e il turbamento del pericolo conosciuto, quella cupa, primordiale, quella degli animali che percepiscono il pericolo ma non sanno dominarlo, quella che taglia le parole in gola, quella fredda, agghiacciante che attraversa il corpo e lo stringe fino a togliere il respiro.

Hai paura
In questo momento la paura è una
realtà esistenziale,
esperienziale: è lì.
Puoi rifiutarla,
ma rifiutandola la reprimi.
E col reprimerla
crei una ferita nel tuo essere.” 2

Cerco resti di parole significanti già depositate nella memoria, chiedo aiuto per entrare in intimità con la mia paura che è uguale alla tua, per non immergermi nella dimensione sfuocata e confusa della separatezza, della diversità.

Mi aggrappo ad ogni sentore di vicinanza, di identità per non dimenticare il nostro essere specie che custodisce e conserva la compassione, la più potente delle protezioni, la via maestra della guarigione.

Per una sorta di antico pudore le parole faticano a rendere dicibile ciò che dicibile non è se non attraverso una consapevolezza di fragilità e di timore che si racconta negli occhi che guardano alla distanza che separa l’io dal tu ed è al tempo stesso un accorato desiderio di tornare, come non mai, ad abbracciare senza il pensiero della differenza, ad accogliere il segno del nostro nascere tutti da uno stesso grembo.

A lungo, molto a lungo resto seduta in silenzio, in attesa che arrivino parole desiderose di incontrare altre parole, di continuare a muoversi per cercare altri cuori, ma continuo a trovarle distratte, sospettose, confuse, in grado di condividere soltanto quel buio interiore, quell’oscurità dell’anima che produce immagini sfuocate, sentimenti pallidi, tiepidi, un miscuglio di tristezza e ansietà.

Vorrei parole coraggiose capaci di ringraziare Madre Natura per averci messo in ascolto, per averci svelato un sentire del corpo che può rendere benevola la sofferenza se solo la si accompagna al sapere dell’anima.

Vorrei parole che dicano una verità scomoda: appesantiti dal fiato corto dell’avidità non riusciamo più ad avere il respiro ampio, generoso che scorre con il battito del nostro cuore.
Se il cuore è blindato, reso insensibile dalla mancanza di pietà, il soffio vitale non è più nutrimento ma dolore; c’ è il freddo della mancanza, c’è l’oscurità che opprime ed ammala.

Vorrei parole che portino sentimenti carezzevoli come la confidenza e la fiducia, vorrei parole capaci di piangere: le lacrime nei nostri occhi sono belle, incredibilmente belle perché brillano di amorevolezza, perché profumano di misericordia, perché parlano di una benevolenza lieve, tutta umana che trascende la parola e la avvolge di attesa, di attenzione premurosa, di pazienza.

Le parole sembrano ritrarsi dal gioco pericoloso e assordante della comunicazione, chiedono raccoglimento, non vogliono entrare nel frastuono incessante che tiene prigioniero il pensiero, che lo avvinghia in una intricata rete di domande senza risposta, di oscuri richiami, di colpevolezze senza colpevoli. Non vogliono entrare in discorsi ebbri di sapere.
Scelgono “la muta percezione della realtà” 3.

Cerco di persuaderle a prendere posizione, ad entrare in frasi risolutrici, ma non sento la loro forza, non sanno rassicurarmi. Pare che vogliano sottrarsi al loro compito per rivendicare il proprio diritto a tacere, ad esercitare l’assenza della parola, ad accettare il nostro esserci e basta senza bisogno di dare spiegazioni: una forma di silenzio alla quale gli esseri umani possono accedere prima ancora di comprendere che cosa davvero significhi fare silenzio, il silere dei Latini, per ascoltare il respiro del cuore, la sua voce esile eppure colma di intensità.

È nel silenzio che può esserci l’attesa quieta del compiersi di ogni cosa, che può esserci l’attenzione a ciò che sta accadendo così come accade, che può farsi sentire la richiesta forte della condivisione che è il primo passo per accettare. Solo guardando dentro di noi, nel profondo possiamo incontrare la verità della paura che non risparmia nessuno e forse trasformarla in altro sentire:

Quando riusciamo a vederci come fragili bambini nel nostro cuore nasce la compassione4.

In un istante la vita si è frantumata e non è stato più possibile ripararla, ma negli infinitesimi, minuscoli frammenti di sentire si nasconde la memoria dell’intero, la speranza che nuova bellezza torni a nascere dall’impossibile.

Non è dato sottrarsi al dolore che sta arroccato in quella zona di labile confine fra felicità e privazione, tra perdita e appagamento.
Il dolore pretende attenzione, non si può resistere al richiamo della sua voce. Lo senti, ti ascolti in lui.

Conosco il potere del dolore e rendo omaggio alla sua forza perché le sue mille facce sono le mille facce della vita, ma c’è un dolore che si stempera nella parola condivisa e si sublima fino a divenire tenera sofferenza, a farsi condizione dell’anima.

Che la fragilità si faccia cura,
che la paura si faccia fiducia,
che il disordine si faccia armonia,
che l’abbraccio unisca
le nostre anime sagge e antiche,
che le parole tornino ad essere amorevoli.

Conosco la sofferenza: la forma che ciascuno dà al dolore affinché diventi il suo dolore così da poterlo incontrare più intimamente. È questa la via che è concessa alla nostra individualità per imparare a conoscerci e forse a perdonarci.

Mi lascio essere triste poiché questa amarezza mi dona umanità, mi rende partecipe e consapevole di una condizione.

Lascio emergere la spontaneità, lascio libero il cuore che ha bisogno di condividere ogni sfumatura del sentire senza filtri, di colmarsi della pienezza di ogni istante.

Lascio spazio a frammenti di pensieri e sentimenti, li lascio liberi di risalire dal profondo, senza ordine, senza regola con la sola licenza che viene dalla frastornante curiosità di ascoltare altre voci, di trovare aiuto per capire tutto.

Tutto-
una parola sfrontata e gonfia di boria.
Andrebbe scritta tra virgolette.
Finge di non tralasciare nulla,
di concentrare, includere, contenere e avere.
E invece è soltanto
un brandello di bufera5.

Accetto di lasciar fluire le cose, di rendermi flessibile, disponibile ad accogliere, accetto di arrendermi con fiducia, accetto di seguire il vagabondare della mente che si alimenta di speranza.
Accetto di attraversare la foresta del dubbio, della tristezza.

Nonostante tutto continuo ad avanzare lungo un cammino faticoso, accidentato, pieno di alti e bassi che fa saltare molti equilibri di abitudine, forse anche di comodo, che scombina l’ordine delle priorità con una invisibile intensità, paragonabile ad un uragano.

Percepisco il disagio, la sorpresa, il timore dell’incontro con l’altro e allora imparo a disarmare le parole sempre pronte a gonfiarsi di minacce e di giudizi, parole che feriscono, arroganti e disattente e nell’oscurità del tempo compare una luce, bianca, calda, purificatrice che avvolge parole antiche capaci di acquietare l’anima, di mostrarci una Natura che sempre rinasce, tranquilla e impassibile “come un neonato che ancora non abbia sorriso”6.

La pioggia sparge i petali del susino
un pianto macchia la terra
Possiamo solo cercare riparo e attendere la schiarita7.

A cura di Save the Words®

1 Carla Gianotti, Il respiro della fiducia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015.
2 Osho in Krishnananda, Uscire dalla paura, Feltrinelli, Milano, 2008.
3 Deng Ming-Dao, Il Tao per un anno, Guanda Editore, Milano, 1993.
4 Tich Nhat Hanh, Paura, Bis Edizioni Gruppo Macro, Cesena, 2013 5 Wisława Szymborska, La gioia di scrivere, Adelphi Edizioni, Milano, 2009.
6 Lao Tzu, Tao Te Ching, Gruppo Editoriale Armenia, Milano, 2011.
7 Deng Ming-Dao, op. cit.