Chi oggi fa tutto con un clic non può immaginare che poco più di trent'anni fa, quando non esistevano ancora gli smartphone e i computer non erano ancora di uso comune, il cartaceo la faceva da padrone. A quel tempo dipendevamo tutti moltissimo dalle fotocopie e ogni città aveva diverse copisterie, luoghi cioè dove si andava essenzialmente con quello scopo.

All'epoca io lavoravo come illustratore freelance a Milano. Il lavoro mi piaceva, era vario e creativo. Di ogni realizzazione amavo soprattutto la prima parte, quando cioè dovevo fare delle ricerche per trovare materiale che mi potesse ispirare. Era lì, in quella fase, che mi trovavo spesso costretto a modificare le immagini scelte, a ridurle o ingrandirle. Per fare ciò dovevo sempre ricorrere alle fotocopie. Per questo, ogni volta che mi installavo in uno studio nuovo, la mia prima preoccupazione era quella di trovare una copisteria facilmente raggiungibile.

Ne ricordo due, entrambe a conduzione famigliare, dove al banco si alternavano marito e moglie. La prima era stata ricavata da un piccolo locale nella zona dei Navigli. Comandava lì una donna non molto alta, con occhi scuri vividissimi e un seno imponente di felliniana memoria che turbava gli avventori maschi. Il marito c’era ma lavorava nelle retrovie, probabilmente alla contabilità. Ogni tanto si assisteva a qualche battibecco tra loro e in quei casi l’attesa si prolungava, ma nessuno si lamentava perché tutti seguivamo appassionatamente le vicende della coppia. La marescialla - come l’avevo ribattezzata - aveva sempre la meglio. Infaticabile e generosa, era riuscita a crearsi in poco tempo un seguito di affezionati clienti tra i quali c’erano molti ragazzi liceali, nonnetti in cerca di un ultimo brivido con la scusa di fotocopiare una ricetta medica e uno stuolo di architetti o disegnatori come me.

La seconda copisteria era invece ubicata in un appartamento al piano terra di un edificio ottocentesco, in una zona molto signorile della città. Soffitti alti, stucchi e un pavimento in legno cigolante contrastavano con le grigie e mastodontiche macchine fotocopiatrici. Anche lì c’era una coppia di coniugi. L’uomo, lamentoso e dalla voce stridula, teneva le redini dell’attività. La moglie, pacata e apparentemente dimessa, lo aiutava. Bastava poco per capire che in realtà, anche in quel caso, era lei al comando. Lì la clientela era un po’ diversa, meno ragazzotti e più professionisti seriosi. C’era anche un macchinario specifico per copiare le grandi planimetrie di geometri e architetti. Per quanto possa sembrare incredibile oggi, allora erano queste le cose che facevano la differenza.

Ho amato entrambi questi due luoghi con i rispettivi titolari e le diverse atmosfere che si potevano respirare. Mi chiedo oggi quale fosse il motivo che di volta in volta mi spingesse da uno piuttosto che dall’altro, probabilmente si trattava solo di praticità. O forse dipendeva dal mio itinerario della giornata. Ricordo però di altri momenti, in cui mi ero sentito più attratto da una delle due copisterie. Se penso che in fondo la mia necessità poteva essere risolta da entrambe, allora devo arrendermi e lasciare che il vero motivo resti per sempre un mistero.

Così era successo anche quel giorno d’inverno - non potrò mai dimenticarlo - in cui mi ero infilato con decisione nel portone al numero 4. Pioveva. L’atrio del palazzo austero era affollato da biciclette e motorini e dal numero di ombrelli all’entrata si capiva che in molti avevano avuto la mia idea. Sul pavimento di legno era stata sparsa della segatura. Il titolare quella mattina aveva da dire contro i governanti e le tasse. La moglie, lo osservava, annoiata. Era abituata. Di solito lasciava che il marito completasse il suo sfogo mettendolo da parte e servendo i clienti al suo posto. Quella mattina però, curiosamente, anche lei aveva cominciato a lamentarsi. L’atmosfera quindi era diversa dal solito, serpeggiava una tensione strana. Anche tra i clienti, anche tra gli habitué, qualcuno aveva cominciato a borbottare protestando per l’attesa estenuante. Io stesso, che normalmente accoglievo con benevolenza gli sfoghi di quell’uomo, sentivo dentro di me una crescente insofferenza e meditavo di mollare il colpo e di cambiare aria, allungando fino alla marescialla. Poi era successo l’incredibile: la fotocopiatrice a colori si era inceppata e con uno stridio sinistro erano uscite delle copie tutte macchiate di rosso. Un cliente, già provato dalla lunga attesa, vedendo il suo progetto compromesso, era esploso inveendo contro il cielo. Il titolare, ricordo, era parso dapprima dispiaciuto, deciso a risolvere il problema. Subito si era messo a smontare la macchina un po’ imprecando un po’ chiedendo scusa. Poi però si era bloccato. Con le mani sporche di rosso stava fermo davanti a tutti noi che lo guardavamo senza capire. Il suo sguardo fissava il vuoto incurante del crescente mormorio.

“Non doveva andare così!” aveva urlato. “Non doveva andare così!” E guardando i presenti - saremo stati una decina di persone - aveva cominciato a raccontare la sua storia, improvvisando un monologo degno del miglior attore drammatico. Per fare ciò si era anche spostato dalla macchina e aveva appoggiato il cacciavite che prima teneva in mano. “La guerra era finita da pochi giorni, io ero piccolo, c’erano anche mio fratello maggiore e altri bambini. Stavamo in campagna, fuori Bologna, sull’Appennino. I miei genitori ci avevano portati lì per stare in salvo, lontani dai bombardamenti. Lì abitavano i nonni, sì, i miei nonni cari. Quella mattina stavamo giocando in un campo e mio fratello aveva trovato un pezzo di metallo molto pesante e ricordo giocavamo a lanciarci i sassi contro perché quando lo beccavamo faceva un rumore che ci piaceva. Poi però era arrivato il nonno e ci aveva urlato qualcosa e aveva subito preso il nostro gioco. Noi l’avevamo seguito fino alla sua officina dove però, nonostante le nostre proteste, non ci aveva permesso di entrare.

E proprio allora ci fu l’esplosione. Un boato pazzesco, tremendo, aveva improvvisamente fatto tremare la terra tanto da farci ricadere tutti all’indietro. Io che ero lì davanti, più davanti di tutti feci in tempo a vedere i piccoli vetri della porta scorrevole diventare all’improvviso tutti rossi, spruzzati di sangue. Io l’ho visto morire mio nonno e non posso dimenticare… io lo sentivo, io... io... avrei potuto fermarlo… dirgli attento nonno... io...”.

Pareva che quella esplosione di cinquant’anni prima fosse avvenuta lì, di fronte a me e alle persone presenti in quel momento in copisteria. Eravamo rimasti tutti immobili, attoniti, come assordati da quelle parole. L’uomo nel frattempo, come svuotato dal peso del ricordo, si era accasciato su una sedia e piangeva. La consorte gli si era fatta accanto e la vedevamo mentre cercava in tutti i modi di confortarlo. Io mi ritrovai invece a pensare alle innumerevoli volte in cui ero stato lì in passato e a come avessi sempre notato l’insofferenza di quell’uomo senza però riuscire a capirne le ragioni. Mi impressionò pensare come in ognuno di noi possa albergare per tutta la vita un dolore rimosso e nell’ombra esso influenzi e trasformi il nostro carattere.

Vidi qualcuno scavalcare il bancone tentando di avvicinarsi al pover’uomo per abbracciarlo. Un pudore ultimo mi trattenne.

Prendemmo allora ognuno le nostre carte, i rotoli, le cartellette e dopo aver salutato con un filo di voce ci avviammo verso l’uscita, in silenzio.

Fuori scorreva il traffico.

La pioggia, incessante, mi parve quel giorno un pianto inconsolabile.