Nella straordinaria opera in cui sfociarono le sue monumentali ricerche nell'ambito della linguistica comparata (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 1969), il celeberrimo studioso francese Emile Benveniste giunse alla conclusione che nelle innumerevoli parlate sviluppatesi tra Europa e Asia a partire dal II millennio a.C. non esistesse un termine specifico atto a indicare la procedura del “matrimonio”. Al suo posto, egli rintracciò piuttosto il costante differenziarsi del lessico della coniugalità che, nel caso fosse riferito all'uomo, si articolava tutto intorno a un'identica ricorrente radice verbale indicante l'atto del “condurre nella propria casa una donna” (che a sua volta veniva concessa da un altro uomo, si trattasse del padre o di un fratello), mentre, quando riguardava la posizione della futura sposa, metteva al contrario in risalto “il cambiamento di condizione” cui ella si trovava ad essere conseguentemente sottoposta, la posizione risultante da un gesto compiuto da altri, quasi un destino da subire.

La donna, dunque, vista non come soggetto agente, bensì quale oggetto ricevente una particolare mansione; ma soprattutto la donna in qualità di pegno di quello che aveva tutti i caratteri di uno scambio, di un accordo, di un autentico regolare contratto. “La donna non si sposava, veniva sposata”, si legge nelle pagine di Benveniste, in nome di quello che per moltissimo tempo a venire avrebbe continuato ad assumere i contorni di un patto sociale in piena regola. Cosa che contribuì indubbiamente a conservare un sensibile disequilibrio anche nell'articolarsi del lessico che definiva le relazioni di parentela all'interno della famiglia, ricco e diversificato se inerente all’uomo cui spettava l'assoluta predominanza delle funzioni, poverissimo per la donna.

Eppure, se si restringe il campo d'indagine alla sola civiltà greca delle origini, emerge che la figura di questa fanciulla chiamata a lasciare il proprio clan di provenienza per fare il suo ingresso in quello del marito finì storicamente per rivestirsi di un'importanza epocale (quanto involontaria). Immediatamente dopo il signore della casa cui spettava di diritto il titolo di philos in nome di quella fitta rete di relazioni che egli era tenuto a intrattenere con i propri ospiti stranieri, ella fu infatti il primo membro della famiglia al quale venne attribuito l'appellativo phile (“...ho tre figlie nella mia casa ben costruita, Crisotemi, Laodice, Ifianassa...” dice Agamennone nel tentativo di persuadere Achille a deporre la sua ira implacabile e a rientrare in battaglia a fianco dei compagni Achei “...prenda pure quella che vuole come *phile in casa di Peleo!...”; *Iliade IX, vv. 144-147).

Note sono la ricchezza e insieme la complessità contenute nella radice phil- che fin dai tempi più remoti ebbe la peculiarità di esprimere il profondissimo legame che vincolava ciascun individuo ai suoi differenti gruppi di appartenenza; ciò che in primis dava a ciascuno la coscienza del proprio sé, infatti, era la consapevolezza del suo “essere naturalmente parte di...”, del suo “trovarsi costantemente implicato con...”, il tutto a prescindere da qualunque forma di coinvolgimento emotivo. Inizialmente caratterizzata da una corrispondenza privilegiata con la dimensione dell'alterità nell'istituto della xenìa (quella sacra “ospitalità” che negli stadi più antichi della civiltà - non solo greca - tentava di sopperire alla mancanza di un diritto internazionale regolamentando i rapporti di buon vicinato tra le comunità dislocate in tutto il bacino del Mediterraneo), questa nozione di tipo relazionale, che racchiudeva in sé i concetti di coesione e reciprocità, fece sì che tutto il lessico della philotes venisse poi progressivamente esteso a ogni forma di alleanza e collaborazione che fossero ugualmente consacrate dallo scambio di un solenne giuramento e che fossero altrettanto ugualmente vincolanti alla mutua e inderogabile prestazione di consenso, fiducia, sostegno.

Fu del tutto naturale poi che la consuetudine di legami così strutturati comportasse per tutti i contraenti il progressivo insorgere di una qualche attitudine sentimentale e che nel tempo una simile attitudine finisse per andare al di là dell'aspetto prettamente istituzionale. E fu ancora più naturale che tutto questo si manifestasse, seppur in forme differenti, tra quanti si trovavano a convivere sotto lo stesso tetto del padrone di casa, i quali proprio attraverso la presenza della neo-sposa si videro a loro volta riconosciuto il suo stesso status. Philoi e philai divennero, pertanto, il marito e la moglie, i servi e le nutrici, ma soprattutto i genitori e i figli, i fratelli e le sorelle; perché una delle componenti essenziali del concetto stesso di philotes fu proprio il legame preferenziale che esso instaurò con i vincoli di suggheneia, quelli che erano dati dalla biologia e che venivano per questo detti primari, quelli su cui ricadeva l'onere di adempiere doveri irrinunciabili, come la celebrazione degli onori funebri e, laddove si rendesse necessario, il compimento della vendetta.

Non è difficile comprendere come a lungo andare persino la valenza di possessivo (che il termine philos aveva sempre avuto anche nei poemi omerici e che aveva sempre rimandato a qualcosa di ben più articolato di un semplice marchio di appartenenza) arrivò a identificare in forma privilegiata la parentela di sangue, non diversamente da quanto espressioni quali “i miei” oppure “i tuoi” significano nella nostra lingua. Una relazione assolutamente preferenziale, dunque, quella tra la philotes (e il più moderno e astratto philia) e la consanguineità che per moltissimo tempo rimase nell'immaginario dell'uomo greco il paradigma indiscusso dell'abnegazione e della stabilità, anche quando la famiglia smise di essere la cellula sociale essenziale e nel passaggio tra l'VIII e il VII secolo a.C. essa dovette iniziare a confrontarsi con le nuove strutture di una civiltà che si andava profondamente riconfigurando, trasformandosi prima da guerriera a contadina e dando poi vita alla polis che decretò il definitivo primato della politica.

Più difficile, invece, è comprendere come all'interno di una città come Atene che fece della propria terra una madre e ripose nella nascita dal proprio suolo il più importante requisito dell'identità di ogni cittadino, che riservò il diritto di cittadinanza ai soli maschi che nascevano da un uomo che fosse a sua volta cittadino e da una donna che fosse figlia di un cittadino, alle donne non fosse paradossalmente mai stato riconosciuto il benché minimo diritto. Difficile comprendere come la nascita dal ventre di una donna, indispensabile e irrinunciabile mistero, continuasse a essere oggetto di venerazione e insieme di ostilità, tanto che persino nel mondo romano che riconobbe alle sue matronae una dignità ben superiore a quella mai concessa alle donne in Grecia, il termine raro matrimonium continuò sempre a indicare la mera “assunzione del ruolo di mater” e si dovette attendere molto, moltissimo tempo prima che esso passasse finalmente a definire l'unione consapevole e consenziente di due volontà.