È passato un anno dalla nascita di Ō, progetto pensato e diretto da Cristiano Leone, promosso dal Museo Nazionale Romano e prodotto da Electa. Per valorizzare le Terme di Diocleziano e non solo – rendere l’arte, oltre che ideale, un polo tangibile di condivisione, di comunione e soprattutto di dialogo. Dialogo tra antico e contemporaneo, meraviglie già create e da preservare da una parte – nuovi figli da accudire, da sostenere dall’altra. È tempo che l’arte faccia da padre e da figlio – è questo che sembra suggerire Cristiano Leone, direttore artistico del Festival. Sì, perché Ō è un progetto ma è anche e soprattutto un Festival (cioè anche una festa) dove non concorrono né competono ma si affiancano, giocano e comunicano - ogni settimana e fino al 24 giugno 2020, in un palinsesto che conta trentadue appuntamenti - moltissimi artisti.

Quest’anno, il Festival è giunto alla sua seconda edizione. “Permane l’impronta forte della danza e della musica elettronica, ma si uniscono nuovi generi e discipline, affinché la contemporaneità si mostri in tutta la sua porosità. Fa il suo ingresso il teatro, la riflessione sul design acquista un ruolo centrale, e compaiono, anche se in maniera ridotta rispetto alle altre discipline, la fotografia e il cinema”, dice. Ō è così uno spazio aperto, un confronto costante tra pubblico e artista, performance e luogo. Discipline ed espressioni diverse, causa comune. Perché i luoghi e gli artisti sono Arte, le persone anche. E il nostro tempo, il tempo di oggi – è giunto al suo giusto giorno.

“C’è bisogno di rendersi conto di aver avuto la grande fortuna (…)” di “vivere e essere cresciuti nel luogo con la massima concentrazione al mondo di beni culturali”. Per farlo, suggerisce, non serve fare paragoni, ancor meno battaglie – non serve spolverare l’antico a discapito del nuovo o, viceversa, boicottare il contemporaneo per forza. Serve dialogo, interazione, consapevolezza. Di questa stessa consapevolezza, Cristiano Leone è portavoce e perfetto esempio, poiché da filologo romanzo a specialista in gestione culturale è oggi - oltre che uno studioso e un Professore (in passato anche Direttore della programmazione culturale e della comunicazione dell’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici) - un imperterrito creatore, uno scenografo; personalità eclettica e generosa che, finora, realmente mancava al panorama culturale italiano. Il panorama di Ō, d’altronde, è il suo panorama: luoghi che hanno animato i suoi studi, colori e trame che conosce, artisti che stima e che definisce “i suoi preferiti”, dialoghi (nei quali ogni filtro è di troppo) che sono “lavoro di squadra” e formano “abbracci”.

Perché mossi da uno spirito di generosità assoluta, i canti, le messe in scena, le danze e gli spettacoli di Ō diventano, nelle sue mani, più di quello che sono. Diventano, in una “linea di continuità di riflessione”, portatori di un messaggio forte, di un messaggio necessario: “C’è bisogno di Design, di Danza, di Musica, di Teatro, di Cinema e di Fotografia. C’è bisogno di persone. È tempo di – tutto questo.

Ō è una locuzione, un’interiezione di origine latina. Ma non solo. Può spiegarcene il significato?

Con Ō, gesto grafico quasi primordiale mutuato dall’antichità romana, ho voluto indicare l’urgenza del dialogo tra la contemporaneità e la storia, sin dal titolo. L’anno scorso, Electa e il Museo Nazionale Romano mi chiesero di immaginare un progetto inclusivo per valorizzare le Terme di Diocleziano. Qualsiasi progetto contemporaneo per me doveva prendere in conto la potenza del rito delle terme antiche: momento di condivisione, di ossigenazione e riflessione. Rito e metafora, per me, di ciò che le arti dovrebbero innescare: un dialogo costante con il tempo.

Il Festival, del quale è Direttore artistico, è giunto alla sua seconda edizione. Che cosa distingue l’edizione di quest’anno da quella precedente? Perché “Tempo di”?

Il ritmo, innanzitutto, che assume una cadenza settimanale, proprio come un rito, appunto, da novembre a fine giugno. Tutti i progetti sono realizzati appositamente per celebrare il patrimonio storico artistico delle collezioni e delle architetture non solo delle Terme di Diocleziano, ma anche del meraviglioso Palazzo Altemps. Permane l’impronta forte della danza e della musica elettronica, ma si uniscono nuovi generi e discipline, affinché la contemporaneità si mostri in tutta la sua porosità. Fa il suo ingresso il teatro, la riflessione sul design acquista un ruolo centrale, e compaiono, anche se in maniera ridotta rispetto alle altre discipline, la fotografia e il cinema. L’espressione “Tempo di” sta a indicare anche un’affermazione di politica culturale: è giunto il tempo che il design, la musica, la danza, il teatro, il cinema e la fotografia siano accolti nelle grandi istituzioni patrimoniali italiane in maniera continuativa e strutturata. Queste discipline, opportunamente introdotte, dialogano con il patrimonio senza giustapporvisi. È per questo che tutti i progetti di Ō. Tempo di sono costruiti insieme agli artisti, che si immergono nel contesto storico dei luoghi e li celebrano, illuminandoli con la propria visione.

Che cosa, del suo percorso, l’ha portata a credere che la cultura non necessiti di essere battaglia, ma abbraccio?

La cultura deve federare, non separare. L’umanesimo, di cui siamo figli distratti, ci ha insegnato a mettere l’essere umano al centro del mondo, esplorandone le radici. Ci ha insegnato che bisogna riconnettersi con la storia per consentirci di comprendere, trasmettere e ampliare l’eredità dei padri. Non amo rumore e provocazione: la mia visione della cultura è meditativa, pacifica e umana. Il campo semantico dell’estetica e dell’etica della cultura non include la parola battaglia. Sforzo, sì, lavoro. Ma lavoro di squadra, perché non siamo soli in questo mondo e soli non possiamo interpretarlo. Abbraccio, quindi, mai battaglia.

Gli spazi che ospitano la nuova edizione di questo Festival sono luoghi ricchissimi di storia. Quanto è stato difficile unire, nella teoria ma nella pratica soprattutto, l’elemento storico all’attualità degli eventi proposti?

I protagonisti di questo progetto hanno visto in Ō. Tempo di un’occasione per confrontarsi con la dimensione individuale e collettiva della storia. Dal momento in cui questi artisti hanno accolto questa proposta, il dialogo tra l’attualità e gli strati della storia si realizza in modo naturale, gioioso, anche quando le emozioni che queste creazioni suscitano passano attraverso il prisma della sofferenza. Perché ogni verità è composita e ogni creazione sincera veicola una vasta gamma di emozioni. Ma la costruzione di questi progetti passa attraverso il piacere della condivisione con il pubblico: è un atto d’amore, come ha detto Massimiliano Fuksas nel primo incontro dedicato al design.

Quali filtri, oggigiorno, bloccano il dialogo tra antico e contemporaneo? C’è qualcosa che possiamo fare per accelerarne la dissoluzione?

Per quanto riguarda i curatori, le specializzazioni. In passato, era prassi arrivare allo studio del contemporaneo dopo aver assimilato la lezione dell’antico e del moderno. Oggi, l’approccio contemporaneo spesso trascura l’acquisizione del passato. Molti artisti, poi, hanno perso la tradizione della “bottega”, il confronto-scontro con i maestri, l’imitatio-aemulatio della tradizione. Così, si perde il confronto con il passato.

Forse bisognerebbe partire dal presupposto che la nostra grande fortuna è il vivere e l’essere cresciuti nel luogo con la massima concentrazione al mondo di beni culturali. Invece di cercare di produrre sempre apparenti novità, forse bisognerebbe sensibilizzare maggiormente i nostri artisti a promuovere il nostro patrimonio. La classicità e la tradizione non sono valori assoluti, ma radicalmente relativi. È solo nella dialettica tra passato e presente che la creazione di oggi diventa il patrimonio di domani. Il patrimonio storico è in continuo divenire: abbiamo il dovere di preservare e valorizzare ciò che ci è stato tramandato, ma abbiamo ancora di più il dovere di indirizzare l’attuale verso nuove mete. E siamo tutti responsabili.

Design, danza, musica, teatro, cinema e fotografia. Ha assistito, in qualità di Curatore, alla congiunzione di tutte queste Arti all’interno di uno stesso progetto, il suo. Come si conciliano tra loro? Esiste, oppure no, una difformità di linguaggio, un qualche scoglio, o tutte comunicano tra loro con facilità?

Per me queste sono solo etichette, utili più a semplificare che a descrivere. Il design si situa tra architettura, arte contemporanea e artigianato. E oggi più che mai è intimamente legato a tante altre arti: moda, musica, danza. Gli artisti visivi sono molto spesso anche performer, abbracciano sempre nuovi mezzi espressivi, che includono la videoarte, le forme installative, la realtà aumentata. I musicisti fanno sempre maggiore ricorso a moduli elettronici, contaminando forme musicali classiche ad altre più barocche o contemporanee. Innegabile è poi la matrice visiva, sempre di più legata a questa disciplina. Ma anche la danza è indissociabile dalla musica, dalla moda, dalle arti visive, e così via. Oggi l’arte non è monolitica, bisogna accoglierla quindi nella sua dimensione eclettica e proteiforme. In Ō. Tempo di questa energia composita si offre al pubblico anche con le sue apparenti contraddizioni. Ad armonizzarle c’è l’obiettivo comune: il confronto con la storia.

Ō prende vita quando la lettera diventa una parola, la cellula un tessuto, il punto un insieme infinito.” Sembra essere un punto centrale l’intenzione di condurre il pubblico alla scoperta dell’iter artistico. Quale valore attribuisce alla parola esplorazione? Esplorare vuol dire comprendere? E se l’esplorazione vuole o può condurre alla comprensione dell’arte, inversamente l’arte esige, oppure no, di essere necessariamente compresa?

Tutto è esplorazione e l’esplorazione è tutto. Non finiamo mai di esplorare, e anche al termine della nostra ricerca ci troviamo solo al punto di partenza. Quindi no, la comprensione non si esaurisce nell’esplorare, ma è solo esplorando che ci si avvicina alla comprensione. L’arte, poi, non ha esigenze, men che meno quella di essere compresa. Ha forse una sola urgenza: la libertà.

Insegnare all’Università. Quanto è importante per lei? Di cosa hanno bisogno i giovani oggi, a che cosa bisogna sensibilizzarli? La pedagogia ha, oppure no, una responsabilità anche nei confronti dell’arte?

Insegnare è il miglior modo per comprendere, nel senso etimologico di afferrare insieme, di abbracciare con la mente le idee. Cerco sempre di invertire le lezioni e mettere gli studenti in condizione di insegnare. Desidero che si riuniscano in piccoli gruppi per analizzare una tematica da vari punti di vista. Giudico essenziale la loro partecipazione in classe e il loro sviluppo personale. Non mi interessa un compito ben fatto, voglio essere sorpreso dalle loro personalità. Do loro una struttura, ma solo affinché possano muoversi all’interno in libertà. Quest’anno, ad esempio, un mio studente ha liberamente scelto di presentare, al posto del classico esame finale, un poetico documentario girato appositamente per mostrare la sua visione delle arti. Penso che gli studenti abbiano bisogno di idee guida, di esempi e di tanta fiducia. Un bravo insegnante è colui che stimola la curiosità e incoraggia a pensare. Io non ho certezze da trasmettere, ma quando insegno consegno umilmente tutte le mie idee agli studenti. Poi saranno loro a discernerle, selezionarle, a ispirarsi o a rifiutarle. La pedagogia deve sviluppare senso critico, senza il quale l’arte non è utile.

Cosa direbbe a chi vorrebbe contribuire, in qualche modo, a valorizzare il patrimonio culturale italiano, ma non sa da dove partire?

Direi loro di studiare tanto, di essere eccellenti nel loro campo, perché la valorizzazione del patrimonio ha bisogno di molteplici competenze. Di fare ricerca. Di non aspettare che qualcuno li coinvolga, ma di costruirsi il proprio ruolo. Di non temere di scomodare artisti, curatori e agenti della cultura: chiedete loro di incontrarvi, di aprirvi i loro ateliers, di insegnarvi il mestiere e non abbiate paura di dire che siete lì per superarli.

Da filologo romanzo, cosa ricorda con maggiore gioia del suo percorso accademico? C’è un giorno in cui ha pensato che sì, i suoi studi l’avrebbero portata al punto in cui è oggi, o è successo strada facendo?

La filologia mi ha fornito un metodo, fatto di disciplina e di etica. Riconsegnare al mondo tracce del passato a volte sbiadite o dimenticate mi ha fatto sentire parte di un movimento costruttivo. Non ci si può limitare, però, a ripristinare i testi, bisogna comprenderne il senso. Le arti sono la maniera più bella di decodificare il testo del mondo. La filologia, dunque, riporta alla luce. L’arte spiega e dispiega. Non saprei scindere la mia attività di docente da quella, oggi, di direttore artistico: vi vedo una naturale continuità. Il primo libro, la prima lezione da docente mi hanno dato la stessa gioia dell’aprire le porte di un festival e di accogliere le migliaia di persone accorse per assistere alle performance. Chi mi ha conosciuto durante la mia vita precedente di filologo romanzo a volte si meraviglia che sia poi arrivato ad occuparmi di musica elettronica, ad esempio. Io sapevo cosa avrei voluto fare e ho proceduto nel mio percorso volendo sempre avere un impatto sulla società. Ad oggi ho già vissuto un paio di vite, ma ce ne sono mille altre da vivere. Chissà se mai le vivrò, ma so che in quelle che ho già vissuto ho sempre cercato coerenza e onestà intellettuale.

Ha viaggiato molto. C’è qualcosa, della dimensione del viaggio, che serve ad arricchire, ad avvalorare, la visione che si ha del proprio paese di origine? L’Italia l’ha chiamata per cambiare le cose, o è stato lei a voler ritornare per provare a farlo?

Mi viene in mente una pagina di Pessoa: “Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o nel mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti”. Viaggiando in Giappone ho capito l’importanza dell’ombra, in Brasile ho compreso la bellezza vegetale, in Africa ho capito che il capobranco guida e protegge il suo gruppo. La Francia, poi, ha plasmato la mia estetica di giovane uomo. Sono quindi rientrato in Italia, ma grazie alla Francia. E da allora non riesco più a lasciare il mio Paese. Vorrei mi si desse la possibilità di rimanerci tutta la vita, ma devo essere messo in condizione di realizzarvi la mia missione.

Mallarmé diceva: “In una società senza stabilità, senza unità, non può esserci arte stabile, arte definitiva.” Crede che oggi, l’arte, come la società, sia instabile?

L’instabilità può nutrire la creatività. L’irrequietezza e il dubbio sono linfa per l’agire. Il vero problema è l’assenza di visione.