In Italia l’epopea dell’architettura postmoderna si apre e si chiude a Perugia. Segnatamente a Fontivegge, dove nel maggio del 1970 l’Amministrazione comunale locale bandisce un concorso internazionale per la progettazione di un centro direzionale che, interessando un’area di quasi 150 mila metri quadrati, taglia l’area industriale dove è insediata da più di cinquant’anni “La Perugina” e scavalca i binari della linea ferroviaria Terontola-Foligno, estendendosi dalle pendici del quartiere di Case Bruciate, in direzione nord, ai margini del quartiere di Madonna Alta, in direzione sud.

Il concorso, patrocinato dell’Union International des Architectes e qualificato dalla partecipazione di 95 progetti firmati da più di 500 architetti (tra cui molti italiani: Gae Aulenti, Carlo Aymonino, Pierluigi Cerri, Costantino Dardi, Mario Fiorentino, Dario Passi, Antonino Terranova), si conclude con un podio internazionale. Il secondo premio, infatti, è assegnato al progetto redatto dall’équipe statunitense coordinata da Warren Schwartz (Francis McGuire, James Wick), che propone una sofisticata concatenazione seriale di nuclei autonomi destinati alle diverse attività previste dal bando, mentre il primo premio è assegnato al progetto redatto dall’équipe giapponese coordinata da Tsuto Kimura (Yoshiro Ikehara, Yoshinori Mori), che concentra la volumetria in un magniloquente edificio a spina centrale, concepito in forma di autoporto urbano e ancorato alla città vecchia mediante una lunga risalita meccanica.

Un’ipotesi avveniristica, che raccoglie l’eredità delle utopie radicali italiane degli anni sessanta, ma che è soffocata dalla crisi economica conseguente all’embargo petrolifero del 1973. Infatti, nonostante l’eco pubblicistica alimentata da Bruno Zevi, ideologo dell’iniziativa concorsuale, il progetto viene archiviato perché ritenuto sovradimensionato e soprattutto dispendioso dalla committenza ovvero dalla IBP-Perugina, proprietaria di gran parte dell’area. Ciò nonostante, l’Amministrazione comunale di Perugia non rinuncia all’idea di realizzare un centro direzionale capace di assurgere a landmark identitario della città recente: in modo che anche il Bacio-Perugina, al pari dell’Oscar-Mondadori e della Lettera 22-Olivetti, possa essere celebrato con un’architettura d’autore.

Così nel 1983, annullata la previsione di un’autostrada urbana volta ad alleggerire i carichi dei flussi veicolari e ridimensionate drasticamente le volumetrie consentite da 1.000.000 di metri cubi a 750.000 metri cubi, solleva dall’incarico Vittorio Bega e affida d’imperio il coordinamento della progettazione ad Aldo Rossi. Che è già un maestro di fama internazionale, ma che soprattutto è reduce da importanti esperienze professionali a Berlino nell’ambito dell’Internationale Bauausstellung, dove ha testato concretamente, sotto la direzione di Josef Paul Kleihues e di Robert Krier, le ricadute positive del piano-progetto. E Rossi non delude le aspettative, costruendo una “Perugia analoga” che, nonostante l’adozione di soluzioni architettoniche estranee al contesto ambientale (mutuate dal fronte del condominio residenziale di Kochstrasse a Berlino e dalla torre di scena del teatro Carlo Felice a Genova), è fatta da una lunga piazza pedonale che, così come è proprio dei centri storici umbri, segue la pendenza naturale del terreno ed è misurata da una fontana pubblica piantata nel mezzo di due diverse quinte scenografiche.

Laddove il lato orientale della piazza è occupato da un imponente edificio residenziale in linea, ribattezzato “steccone” e contrassegnato da portici e negozi al piano terreno, ma soprattutto ritmato dalle lesene corrispondenti ai corpi scala e suggellato da una gigantesca colonna d’angolo che inquadra la veduta dalla stazione ferroviaria; mentre il lato occidentale della piazza è occupato da un edificio direzionale altrettanto imponente, ribattezzato “broletto” e contrassegnato da un fronte templare che evoca le figure archetipe profuse da Giotto sulle pareti della basilica superiore di San Francesco ad Assisi oltre che da una piazza galleggiante che sovrappassa la strada Cortonese con la stessa imponenza con cui la piazza pensile di Gubbio sovrasta via Baldassini.

Ma non è tutto. Verso nord, infatti, il profilo dell’acropoli è seminascosto da una torre conica che, contrapponendosi alla stazione degli autobus progettata da Vittorio Bega, sancisce l’ingresso al Teatro/Centro di quartiere (l’edificio più piccolo dal punto di vista dimensionale, eppure fulcro prospettico dell’intera composizione) e affianca una vecchia ciminiera industriale che, in modo del tutto insolito per il repertorio aldorossiano, non è ricostruita ad arte, ma è preservata ed è posta a presidio di una passerella pedonale che, pur adducendo al viale alberato di villa Buitoni, è poco frequentata, così come è poco frequentata la piazza in genere. Né potrebbe essere diversamente, visto che la piazza Nuova di Aldo Rossi, al pari delle Piazze d’Italia di Giorgio De Chirico, non si può non immaginare deserta ovvero popolata solo da quelle luminosità radenti e da quelle ombre sfumate che la drammatizzano all’alba e al tramonto.

Perché, così come è scritto nella relazione illustrativa che correda il Piano particolareggiato, “lo spazio non è solo misura topografica, delimitazione di pieni e di vuoti, traduzione nel costruito di metri cubi pianificati, di percorsi e di viabilità, ma è spazio di cose costruite ed è spazio urbano”. Ovvero lo spazio è anche una grande piazza inclinata con torri, fontane e portici.