Io sono un contenitore di idee, fin da piccola sono stata educata ai sogni e alla progettazione, per poterli realizzare o almeno per cercare di realizzarli.

Non esiste delusione se ogni tappa del progetto viene vissuta come un traguardo. L’importante per me è fare, in una costante ricerca e progetto per realizzare idee e sogni.

Un suo motto è “divertimento e gioia”.

Il divertimento è un filtro importante per guardare la realtà da punti di vista anomali e per inventare nuovi linguaggi oltre quello che la realtà in sé rappresenta.

Per un designer credo sia un ingrediente fondamentale per creare emozioni positive e innovazione.

In che misura, secondo lei, la moda è influenzata dalla società e quanto la moda influenza la società?

Moda e società coincidono. La traduzione in codici estetici dei fenomeni sociali si chiama moda. Paradossalmente esiste anche un viceversa visto che i codici della moda spesso influenzano i comportamenti, gli atteggiamenti sociali.

Quando tengo lezione ai miei studenti all’università sottolineo sempre l’importanza della responsabilità sociale della moda che cambia la gestualità della popolazione e segna un’epoca, faccio sempre l’esempio dei punk: l’attitudine punk, quel modo di camminare con le gambe piegate che ha disegnato un’epoca nella moda, nella musica… basti pensare ai Clash, ai Ramones… quell’andamento figo che ha segnato un’epoca non era altro che il risultato dell’utilizzo delle Creepers, mitiche scarpe dei punk nate a Londra da robot in Kings Road, con le quali era impossibile piegare il piede e, quindi, si era costretti a piegare le ginocchia e a camminare molleggiati da super fighi.

Quanto le ferree leggi del mercato concedono alla creatività nel mondo della moda?

Un designer ha bisogno di limiti per poter progettare un oggetto. La creatività non ha spazio né tempo, ma per poterla sfruttare al meglio e progettare un oggetto che venga fruito dalla popolazione, ci si deve confrontare con i limiti del mercato, del prodotto aziendale, del contesto, dei materiali… bisogna guardare i limiti come elementi necessari e parte fondamentale del progetto.

Che significa essere “designer concettuale”?

Non significa nulla.

Il concetto nel design è solo il punto di partenza che attraverso la progettazione viene trasformato in funzione estetica. Se no sarebbe arte. E il design non è arte.

Erotismo e moda: che tipo di incontro?

Credo che l’erotismo sia una componente intrinseca a tutti gli oggetti. Basta saperla scovare. Basta saper guardare in quella direzione.

Il mio progetto Pussybag come altri miei progetti in cui l’erotismo risulta più evidente, non nascono dalla volontà di esprimerlo ma piuttosto da quella di provocare una reazione attraverso un linguaggio che possa far sorgere un sentimento di dubbio sull’argomento. Creare sentimenti e reazioni è per me fondamentale per la percezione di un progetto di moda, di design o di qualsiasi altro tipo. La moda può essere un supporto casuale come un altro per esprimere un argomento come anche l’erotismo.

Come spiega il fenomeno “fashion victim”?

Credo che si tratti di una naturale attitudine sociale. La maggior parte degli individui ha bisogno di sentirsi uniformata, rassicurata da una tribù di appartenenza.

Ci parli del suo progetto “by g.b”.

By Gentucca Bini è un progetto nato ormai 9 anni fa, che parlava di sostenibilità in un momento in cui non si sentiva ancora la necessità di parlarne in maniera così massiccia.

Dopo essere stata direttore creativo del marchio Romeo Gigli per quasi 3 anni dal 2006 al 2008 (e di conseguenza in contatto con le grandi realtà dell’industria della moda con grande responsabilità) e in seguito essermi rimessa a disegnare la mia collezione, avevo avvertito la necessità di partire da quello che già esisteva sul mercato passato di stagione e con un destino di stockisti pronti a deprezzarne il valore non solo di mercato ma anche dal punto di vista del design. Così ho inventato l’etichetta by Gentucca Bini (che mi ha disegnato Giancarlo Iliprandi grande personaggio della storia della grafica milanese) che applicavo a capi di passate collezioni di altri designers, capi che ci facevamo dare dagli avanzi di stagione dei più prestigiosi negozi multimarca internazionali, li ridisegnavamo smontandoli e riportandoli alla moda secondo il nostro stile e li rimettevamo sul mercato con la doppia etichetta, per esempio: Comme des garçons by Gentucca Bini restituendo al negozio i capi in cambio di un fee per pezzo.

In questo modo il capo poteva essere rivenduto al prezzo originario, conteneva il lavoro di due designer e non si perdeva la memoria del brand.

Lo stiamo attualizzando per ripresentarlo ora sul mercato, in tempi più maturi in campo di sostenibilità.

Viene da una famiglia di “creativi”: quanto ne è stata condizionata e quanto l'ha stimolata?

Essere cresciuta da una famiglia di creativi è stata una grande forma di educazione. Alla creatività ci si educa, è una disciplina che va coltivata per scavare nella propria fantasia e trasformarla in immaginazione.

Come si è sentita nel corpo di Kiki de Montparnasse?

Da piccola credevo che fosse parte della mia famiglia, abbiamo sempre avuto racconti e immagini di quel periodo culturale straordinario, Man Ray, Max Ernst, Duchamp… era un gruppo di intellettuali straordinari di cui faceva parte anche mia nonna, mio padre da ragazzino, insomma… avere le chiavi di violino sulla schiena e credere di poter essere “jouée” come un violoncello mi è sempre sembrato del tutto naturale.

Quanto Milano e la milanesità hanno influenzato le sua formazione e la sua affermazione?

Molto. Milano è un campo straordinario, una griglia in cui muoversi liberamente trovando tutti gli strumenti necessari per poter realizzare i propri sogni, per poterli trasformare in business internazionali, per poterli comunicare al mondo. È una città del mondo, è a-territoriale, è una bolla della giusta misura, da cui nascono e si diffondono grandi progetti.

È una estimatrice di Alfred Jarry: ci potrebbe accompagnare in un itinerario (immaginario o/e reale) di una Milano patafisica?

Io non sono una seguace di Alfred Jarry, sono una patafisica! Precisamente dottoressa maxima cum laude e governatrice dell’Ordine della Grande Giduglia. Sono figlia di un patafisico e sono stata insignita del mio titolo patafisico a Locarno nel ’91 durante una rara riunione del collegio patafisico, da Enrico Baj, Thietrry Foulc, Fernando Arrabal e mio padre, grande lucumone dell’Ordine della Grande Giduglia. In quell’occasione è stato nominato anche il caro e grande poeta Edoardo Sanguineti.

La patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie… quindi tutti in quanto dotati di immaginazione lo siamo e Milano credo sia la città più patafisica del mondo. Un grande contenitore di immaginazione. basta viverla per rendersene conto, non si può raccontare.