Come here, storm, show us how small we are.

Il cielo dietro al palco dell’anfiteatro del Vittoriale venerdì 26 luglio è uno spettacolo di quelli che nessun essere umano può allestire. Una serie infinita di lampi altissimi e lontani lo accende completamente, disegna crepe luminose tra le nuvole mentre Glen Hansard guarda quelle saette e le chiama, facendo ampi gesti con le braccia, a mo’ di sciamano: “Venite qui, fateci vedere quanto siamo piccoli”. Quando suoni in un posto del genere, che invece dei fondali di scena ha le acque del lago di Garda e le luci della sponda opposta, la natura è per forza protagonista, e se decide di innescare uno spettacolo di fuochi d’artificio che di artificiale non hanno nulla, significa che davvero vuole metterci un punto esclamativo, una sottolineatura.

Alla fine anche le canzoni di Glen Hansard hanno l’effetto dei temporali: ti fanno vedere come siamo piccoli, come possiamo essere sconquassati dalle emozioni, e allo stesso tempo ci dimostrano come il raccontare quanto siamo piccoli ci fa diventare grandi, o almeno fa diventare grande chi questo racconto lo padroneggia con la sincerità e l’umiltà di Glen, che per due ore e mezzo consegna se stesso, le proprie emozioni e il proprio sconquasso a un pubblico pronto a sostenerlo, a prenderlo tra le braccia proprio come farà a fine set, quando il cantante irlandese deciderà di adagiarsi delicatamente sulla foresta di mani che lo chiama.

Ormai ho visto Hansard dal vivo una decina di volte, e so che i suoi live sono almeno di due tipi: possono essere una festa gioiosa, con cantanti improvvisati invitati sul palco e un clima di allegria da bagordi degno di un pub di Temple Bar, oppure possono essere una dimostrazione di bravura, una coltellata benefica che ti penetra nel cuore, te lo ferma, lo fa ripartire e lo fa battere al ritmo che preferisce. Il concerto del Vittoriale è stato del secondo tipo, almeno fino all’apoteosi conclusiva, in cui effettivamente Glen ha desiderato l’abbraccio liberatorio del suo pubblico. Un pubblico che aveva deciso di prendere in mano, per poi portarlo dove voleva, fin dalle prime note, suonate da solo al piano, di Bird of Sorrow. Uno dei suoi pezzi “sicuri”, che sai che a un certo punto possono infiammarsi se lui decide di far esplodere la sua voce, di lasciarla andare disperata e potentissima. A Gardone ha deciso di farlo, e in quel preciso momento ho capito che ci aspettava un’esibizione memorabile, perché un po’ lo conosco, e comincio a capire come “funziona”.

Il gruppo (in versione ridotta, senza archi, tromba, trombone e in questo caso anche senza la chitarra elettrica di Rob Bochnik) rimane dietro la scena anche per This Gift, con Glen che passa dal pianoforte alla chitarra acustica, ed entra solo per Love, Don’t Leave Me Waiting. Devo ammetterlo: i primi minuti mi spiazzano un po’, perché danno l’impressione di dissolvere la magia di quell’introduzione solista perfetta, e anche perché trovo il sax un po’ invadente nelle sottolineature. Ma è questione di poco, perché poi apprezzo la bravura con cui le canzoni sono state adattate a questa formazione. Non cambia solo il vestito perché manca la spinta dei fiati e il romanticismo del violino, spesso sono proprio cantate con un’anima differente da quella a cui siamo abituati, e però sono convinto che qualcuno che le stia sentendo per la prima volta farebbe fatica a credere che non sono nate così, con sottotraccia quei ricami eleganti di Javier Mas, un pezzo della band di Leonard Cohen che Glen si è voluto portare in famiglia.

La scaletta visita molte delle tappe significative del canzoniere messo insieme in quasi trent’anni, dai tempi dei Frames a una manciata di brani dell’ultimo This Wild Willing, splendidi nelle versioni live che catturano sia il fragore delle chiusure che la poesia delicata che le precede. Un percorso che, tornando alla metafora meteorologica, mostra i diversi segni che le intemperie della vita possono lasciare sull’anima. My Little Ruin e Don’t Settle per esempio raccontano due crisi: la prima dedicata a un amico in difficoltà, la seconda, come spiega lo stesso autore, scritta in un momento in cui “non sapevo più da che parte andare”. Sono pezzi che servono per mostrarci le nostre debolezze, ma anche il nostro potenziale, così come Fitzcarraldo, che arriva un po’ più in là nella setlist con il rinforzo occasionale di Dave Odlum, la prima chitarra dei Frames, ci ricorda che a volte di fronte alle strade senza uscita bisogna cambiare direzione, allontanarsi e ritrovare noi stessi per riuscire nelle imprese che sembrano impossibili. Oppure Mc Cormack’s Wall, che parlando di sbronze epocali omaggia l’amicizia, perché forse se c’è qualcosa di veramente inaccettabile nella condizione umana è la solitudine. Glen è un uomo che si preoccupa degli altri: da sempre ha a cuore gli homeless, e da qualche anno Way Back When (stasera particolarmente riuscita) è il suo inno dedicato alle migrazioni, che siano di massa o individuali.

Il bisogno di connettersi agli altri lo dimostra anche quando dedica le canzoni a qualcuno: al padre (Didn’t He Ramble) a Greta Thunberg, a Bob Dylan e Carola Rackete (The Closing Door), ma anche a Marketa Irglova, rispolverando l’immancabile Falling Slowly, che gli valse l’Oscar e la prima ventata di vera notorietà internazionale.

E non è un caso che nella scelta delle cover guardi sempre a una pattuglia di spiriti che in qualche modo gli sono affini, che lo guidano. C’è Van Morrison in una citazione di Into the Mystic, c’è lo Springsteen di Drive All Night, c’è il faro Leonard Cohen in una struggente e indimenticabile versione di Bird On The Wire, ci sono i fantasmi e il genio melodico di Daniel Johnston con la sua Devil Town, e ci sono i Suicide di Dream Baby Dream, che segnerà il confine tra il concerto canonico e la festa finale, con decine di persone chiamate sul palco dopo aver tirato su un amico lucchese scovato in mezzo alla platea.

La condivisione è anche al centro di Winning Streak, eseguita in trio con i Fireplaces, che avevano partecipato all’ottimo opening act di Mark Geary, a sua volta coinvolto anche lui nella seconda parte della serata. E uno squarcio di intimità familiare arriva anche quando Ellie Doyle, la giovanissima figlia di Joe, il bassista di Glen (e dei Frames), si siede accanto al piano per cantarci (benissimo) una sua canzone.

I lampi continuano a promettere un acquazzone che fortunatamente non arriverà, e quando sulle prime note di Dream Baby Dream Hansard chiama il pubblico sotto al palco e la security prova a impedire l’invasione, lui risolve a modo suo, stringendo uno degli addetti in un abbraccio lunghissimo, alla fine del quale nessuno è più in grado di opporsi a questo clima di comunione. Nemmeno i programmi e le scalette, e infatti quando gli spettatori scendono e il concerto sarebbe finito, è impossibile non seguire quella che ormai è diventata una piccola liturgia nei concerti italiani di Hansard: basta che uno sparuto gruppetto di irriducibili, subito sostenuti dagli altri, urli l’attacco di The Auld Triangle per far tornare la band al completo e dare il via a questo “standard” irlandese in cui tutti, compresi il tecnico del suono, quello delle chitarre e il tour manager, cantano una strofa, mentre il pubblico fa in coro il refrain. Senza altoparlanti, senza microfoni, solo con l’amplificazione dei sentimenti. All along the banks of the Royal canal.

Setlist

Bird of Sorrow
This Gift
Love Don't Leave Me Waiting / Midnight Train to Georgia
(Gladys Knight Cover)
My Little Ruin
When Your Mind's Made Up
Fool's Game
Don't Settle
I'll Be You, Be Me
Winning Streak
The Closing Door
Fitzcarraldo
Revelate
Mccormack's Wall
Didn't He Ramble/Citazione Riders on The Storm
Way Back in The Way Back When
Grace Beneath the Pines
Falling Slowly
It Beats Me (Mark Geary)
Citazione Into The Mystic (Van Morrison cover) / Her Mercy
Drive All Night (Bruce Springsteen Cover)
Bird on The Wire (Leonard Cohen Cover)
Dream Baby Dream (Suicide Cover)
Devil Town (Daniel Johnston Cover)
The Auld Triangle (Brendan Behan Cover)