Mentre Drammaturgie, la terza Biennale Teatro, a firma del regista Antonio Latella, è alle porte, la Biennale Danza 2019 ha compiuto 20 anni, in una Venezia al solito affollatissima, calda, umidiccia ma meravigliosamente unica al mondo. Forse ben pochi dei suoi spettatori, - quest’anno cresciuti del 18% rispetto alla scorsa edizione - quasi tutti giovani, e anche partecipanti alle iniziative didattiche definite “college” per danzatori e coreografi in erba - si saranno potuti ricordare del commovente ed entusiastico avvio di questa “Cenerentola” delle Biennali, ma hanno partecipato alla sua ultima edizione con la stessa festosità. L’incredibile ritardo, di oltre 100 anni, con cui la nobile istituzione lagunare poneva fine a quella che con occhi odierni potremmo definire un’ingiustizia, si deve al fatto che nel 1895 quel gruppo di intellettuali veneziani che propose di allargare, con il concorso comunale, i confini del mercato dell’Arte Visiva, non aveva di certo sentore che la danza del tempo potesse essere di qualche interesse internazionale. La musica sì, e infatti la seconda Biennale istituita nel 1930, comunque con calma, fu quella sonora.

Poi giunsero a precipizio la Biennale Cinema (1932) e Teatro (1934) e mentre per la Biennale Architettura (1980) si attesero altri 46 anni, per la danza ci vollero forse due precedenti eclatanti, anche se distanziati nel tempo, per convincere l’allora Ministro alla cultura Walter Veltroni ad affiancare alle altre Biennali anche quella del corpo e del movimento. Nel 1995 un Leone d’oro alla carriera fu infatti assegnato da Mario Messinis, critico di vasta cultura e sensibilità e direttore in due tornate della Biennale Musica, all’ormai famosissimo e rivoluzionario coreografo americano Merce Cunningham. Mentre l’esperienza del “Teatro e Danza La Fenice di Carolyn Carlson”, prima e unica (a tutt’oggi!) compagnia italiana di danza contemporanea, sostenuta da un ente lirico, faceva ancora parlare di sé, e con rimpianto. Così Veltroni richiamò a Venezia l’esile e bionda Carlson, e proprio a lei che per quattro anni, dal 1981 al 1985, aveva guidato danzatori italiani appoggiati dal Teatro La Fenice, destinò la prima Biennale del settore. Era il novembre 1999.

Talent scout per vocazione, oltre che ancora carismatica danzatrice e coreografa mistica, ispirata dalla poesia e dalla natura, Carolyn elaborò subito un progetto triennale, puntando alla didattica e alla trasformazione della città in un luogo di esclusivi appuntamenti coreutici. Con lei si riaprì il Teatro Verde dell’Isola di San Giorgio rimasto chiuso dal 1975; si fece scoprire al pubblico il Teatro alle Tese, un largo androne cinquecentesco a tre navate, e con due file di colonne, che un tempo serviva per la costruzione delle tele delle imbarcazioni veneziane, e si inaugurò l’Accademia Isola Danza, pure a San Giorgio, una scuola che l’artista americana di origini finlandesi, avrebbe voluto rimanesse permanente anche dopo la sua dipartita da Venezia. Così non fu, almeno nella formula da lei delineata. Carolyn rimase in Laguna sino al 2002, ottenendo il primo Leone d’oro dell’istituzione nel 2006. Curioso che l’attuale direttrice della Biennale Danza, la canadese del Québec, Marie Chouinard, fosse stata invitata proprio dalla Carlson a presentare una serie di straordinari assoli, furibondi e istintivi, da lei stessa interpretati entro guaine a forma di animale preistorico. Sino al 2020, la Chouinard si attesterà, inoltre, come terza donna a capo del settore (ci fu anche l'americana Karole Armitage), dopo il brasiliano Ismael Ivo e il fiorentino Virgilio Sieni, entrambi dispensatori di importanti Leoni d’oro e poi anche d’argento, e tra questi ultimi, uno solo attribuito a un italiano, Michele Di Stefano.

La bionda, e anche lei come Carlson a suo modo mistica, Chouinard, si è spinta più in là e quest’anno, con l’appoggio di Paolo Baratta, due volte Presidente di tutte le Biennali e del suo Consiglio di Amministrazione, ha attribuito un Leone d’oro al marchigiano Alessandro Sciarroni e un Leone d’argento agli ancora sconosciuti francesi Théo Mercier e Steven Michel. Tastando gli umori di una danza contemporanea, ben rappresentata nel saliscendi del titolo della sua Biennale - On BEcOMING A SmART GOd-dess - Marie asserisce che nella sua costante trasformazione questa danza diventa una divinità strategica. Ben detto ma nient’affatto nuovo. Da un ventennio, almeno, la ricerca in ambito coreutico nega ogni possibilità di essere definita a priori, e accetta con generosità inclusivista ogni genere di gesto, parola, suono, movimento quotidiano, appiglio performativo o proveniente dalle arti visive. D’altra parte, si poteva già “danzare” stando fermi sin dall’epoca del primo Béjart-ballerino sul tetto della “Città radiosa” di Le Corbusier a Marsiglia, avvolti nella musica concreta di Pierre Henry… ed eravamo negli anni’50.

Oggi davvero nulla sembra poter épater le bougeois, se non quel serrato pensiero coreografico che non scade in retorica, didascalia, facile ammiccamento rivolto a un pubblico invece in cerca di auto-soddisfazione per aver finalmente capito ciò che la danza contemporanea esprime senza bisogno “di mettersi la testa tra le mani” come Erik Satie diceva della musica di Wagner. Ma non voliamo così in alto. L’odierna semplificazione porta a “fenomeni sociali” forse destinati a consumarsi in fretta come gli smartphone; in questo senso il Leone d’oro attribuito a Sciarroni è del tutto pertinente allo Zeitgeist del momento. Nel suo Augusto (2018) nove danzatori in costumi quotidiani girano in tondo e poi iniziano a ridere movendosi nello spazio anche senza rispettare la corsa in cerchio. Due sberle violente e asciutte inferte a una delle due sole danzatrici nel gruppo, e il pianto di spalle di uno degli interpreti, spezzano l’allegria molto forzata dell’insieme, e si capisce bene a cosa alludano. Alla violenza gratuita sulla donna e all’ambiguità dell’Augusto, archetipo circense di solito contrapposto per le sue ridanciane o smagate facezie, al serio e spesso triste Clown Bianco. Nei suoi spettacoli, Sciarroni “dice” una cosa sola e questa sua monotonia non solo è citazione espunta e rivisitata da altro - la jonglerie, i passi del folclore, le pratiche sportive, il girare dei Dervisci - ma è anche ripetuta in un dilatarsi che a suo dire sarebbe veicolo di piacere e di ipnotica sospensione del tempo. Forse all’inizio della sua carriera, aveva altre chance registiche. Il suo primo lavoro, Your Girl (2007) è riapparso proprio nel già citato Teatro alle Tese, confermandosi struggente rilettura di Madame Bovary.

La pièce è interpretata da Chiara Bersani tutta volto e lunghi capelli ma dal corpo nano intrappolato in una deformità vissuta con invidiabile saggezza estetica. Subito ci si para davanti in carrozzella, abbandonandola per raggiungere un bidone -aspirapolvere nel quale introdurrà le rose di cotone del suo corpino bianco, e non solo quelle, continuando a ripetere, nel silenzio, “You love me, you love me not”. Il vento scopre l’estasi del suo viso. L’immagine è accattivante: a stento ci si avvede di un bellissimo ragazzo sul fondo, seduto come la vera Bovary in un gazebo di fiori ma di cotone, e intento a cucire. Calamitato dalla collega, anche lui raggiungerà il proscenio, e, obbedendo al suo invito muto, le passerà ogni indumento per restare senza veli. Mentre scatta Non me lo so spiegare, canzone pop di Tiziano Ferro, la performer infila le sue mani anomale e aguzze in quelle di lui che, nella perfezione del suo corpo, l’accarezza e la guarda negli occhi. Non è la storia d’amore tra un principe e un affascinante “ranocchio”: è molto di più. È l’originale sovvertimento anti-tragico di un classico della letteratura, in cui nessuno muore e tutto diventa possibile. Semplicemente desiderando quello che l’altro desidera il mondo ha una bellezza senza confini, ricolma di una grazia rigenerante.

Ciò a cui aspira, invece, il duo Leone d’argento composto da Théo Mercier e Steven Michel, è costruire in Affordable Solution for Better Living una sorta di perfetta casetta Ikea per poi scardinarla con l’ausilio di testi che narrano passo passo ciò che vediamo. Il solo Michel è in scena, dapprima intrappolato in una guaina con maschera immobile da Ken di Barbie, e poi, nella fase distruttiva, in un’altra guaina che scopre muscoli, tendini e vene come in un’illustrazione medica del corpo umano. Molto ben costruita, la pièce ha un afflato politico-sociale che si spegne in un eccesso didascalico. È ciò che non accade nell’accuratissimo duetto femminile Habiter della canadese Katia- Marie Germain, creato per sé e la collega Marie-Gabrielle Ménard.

Qui il principio dell’abitare in uno spazio claustrofobico vive sottovoce, con piccoli gesti e raffinati movimenti tra buio e luce sempre velata d’ombra. Le due performer stanno da sole o in coppia sedute davanti a una tavola imbandita; una lieve musica di sottofondo spinge micro-trasformazioni. Lo spostamento di un piatto, di una cornice, di un bicchiere avviene al buio, e costringe l’osservatore a scoprire cosa è mutato quando si riaccende la luce. Da questa sorta di “natura morta che si muove” con estrema precisione, traspare una bellezza cinerina e funebre: alla fine le presenze umane spariscono e restano solo gli oggetti/ricordi. È un dissolversi non privo di segnali ben leggibili come ciò e chi ha ispirato questa pièce: dalla pittura fiamminga alla fotografia, dalle opere visuali di Bettina Hoffmann a quelle di Bill Viola. Il pensiero coreografico nascosto in Habiter può non essere compreso da tutti, in specie se paragonato a A Quiet Evening of Dance di William Forsythe o a Impromptus di Sasha Waltz.

Con intelligenza Marie Chouinard ha voluto introdurre nella carrellata del suo On BEcOMING A SmART GOd-dess due lavori che, seppur non nuovissimi, hanno segnato un mutamento nel cammino dei due campioni, di diverso peso, ormai da tempo sulla scena internazionale. In Impromptus, visto al debutto di Avignone nel lontano 2004 e un poco trasformato nel ritorno al Teatro alle Tese, la tedesca Waltz inaugurava inaspettatamente - dopo due notevoli trilogie d’impianto teatrale ma ben poco affini al linguaggio della connazionale Pina Bausch - un suo legame con la musica. Legame mai più reciso, anzi affinato anche a contatto con l’opera lirica.

Nelle note di Schubert, persino nella biografia del compositore, Waltz disse, a suo tempo, di aver scoperto inediti motivi per creare un più intimo rapporto tra i corpi della Sasha Waltz & Guests, la sua compagnia. In realtà, come molti coreografi vis à vis con la musica, lavorò sulla danza pura, almeno all’inizio. Qui i sette interpreti di Impromptus, sempre in bilico su due lastre soprapposte e sollevate da terra, si alternano in assoli, duetti e insiemi, scomparendo dietro il grande pannello dorato e oscillante che funge da sfondo. Poi però un irresistibile impulso teatrale impone a due danzatori di indossare calosce ricolme d’acqua che snervano il silenzio frapposto tra i vari pezzi schubertiani, restituiti da un pianoforte dal vivo, e di utilizzare vernici per imbrattare il nitore dei corpi, prima tutti tesi a raggiungere, specie nei magnifici duetti acrobatici, la volta del cielo. Amore, comprensione reciproca, fragilità di certi istanti di vita gioiosa illividiscono nel dolore - Schubert compose Impromptus un anno prima di morire - nella necessaria e colorata impurità della vita (le vernici), nella sensazione di un irreparabile distacco dal mondo, cui neppure quattro compassionevoli Lieder schubertiani (ancora cantati da Judith Simons, come nel 2004,) riescono a dare conforto.

Più ottimistico, anche per la caustica e sottile ironia che lo pervade, A Quiet Evening of Dance dell’americano William Forsythe, già Leone d’oro nel 2010, rafforza l’ennesima svolta della personalità più importante e influente sulla scena della danza dell’ultimo quarantennio, assieme a Pina Bausch, di cui è stato l’esatto e opposto contraltare. Coreografo- sperimentatore, giunto persino ad inventare “oggetti coreografici” per dimostrare che danza e coreografia sono arti ben distinte, Forsythe è tornato a indagare, ormai da free lance, quella “cosa-balletto” dalla quale era partito nell’incandescente e ventennale esperienza della sua prima compagnia, il Frankfurter Ballett. Anche sul palcoscenico nudo dello storico Teatro Malibran, dopo precedenti recite italiane e un debutto londinese al Sadler’s Wells Theatre (ottobre 2018), ha offerto una stupefacente suite di danze, divise in due parti, interpretate da sette formidabili danzatori provenienti dalla sua seconda compagnia l’ex-Forsythe Company, con Rauf “RubberLegz” Yasit, campione di hip hop ed elettrizzante motivo di arricchimento del suo linguaggio.

Come sempre i suoi titoli sono dirimenti. A Quiet Evening of Dance è danza e non coreografia, ma un potente pensiero coreografico riguarda i vari e contrastanti apporti sonori e musicali. Morton Feldman, nel suo quasi rapsodico Nature Pieces n.1 del 1950, sarebbe teoricamente inavvicinabile al Ritournelle tratto da Hyppolite et Aricie una tragedie lyrique, composta da Jean Philippe Rameau nel 1733. Il coreografo, tuttavia, se ne serve, dopo una buona dose di silenzio e di cinguettii di uccelli, per una non casuale trasformazione dei suoi duetti maschili o bisex, dapprima mimici, poi didattici e virtuosistici, sia nell’ambito di una danse d’école tutta balzi e giri, sia nel confronto tra balletto e hip hop, due sistemi geometrici di movimento dalla non dissimile natura matematica. Nel finale, l’eccitazione cortigiana di tutti i corpi rivela come la prima parte del balletto non sia che la continuità della seconda: libera razionalità vigilata (Feldman) e ironica libertà teatrale (Rameau). Senza ostentazione, senza sforzo (che pure c’è ma non si vede), con quella naturalezza priva di patina in superficie , tipica di Forsythe, A Quiet Evening of Dance, appare colto e gioioso, introspettivo ed estroverso con tutti quei guanti e calzini colorati indossati dai suoi interpreti, e soprattutto ferocemente contemporaneo.

Adottiamo una nota asserzione ancora di Forsythe: “Non è il linguaggio a contare bensì l’uso che se ne fa”, per osservare altri brandelli di questa variegata Biennale Danza 2019. Dal duetto femminile e femminista della brasiliana-berlinese Michelle Moura, un viluppo di emozioni, posture, parole, sguardi movimenti aggressivi e delicati, animaleschi e poi amorosi con Clara Saito, performer pure lei brasiliana, all’assolo giocoso di Simona Bertozzi. In parrucca grigia e attillata tuta opaca nella quale infila un microfono, l’emiliana Bertozzi ha rinfrescato Ilinx-Don’t Stop the Dance (2008) rincorrendo, con un piglio ginnico, muscolare e pensoso, le indicazioni di I giochi e gli uomini, la maschera e la vertigine del sociologo francese Roger Caillois. Bellissima la collocazione nella Sala d’Armi del fascinoso Arsenale e le luci pop - rosa, violetto, blu: smalto ideale per l’intrigante assolo, con musica dal vivo, cui manca forse, per raggiungere la perfezione, una struttura più coesa. Coreografica o drammaturgica? I confini sono ormai fluidi e sovrapponibili.

Aprendo il festival della Biennale Teatro (22 luglio-5 agosto) di Antonio Latella, confermiamo l’importanza di Drammaturgie “titolo volutamente lasciato al plurale” - spiega il direttore - “proprio perché nel XXI secolo, sono tante e differenti le drammaturgie per la scena e per tutto ciò che concerne lo spettacolo dal vivo”.

Verissimo anche per la danza. Nell’accezione tedesca, ad esempio, la figura del dramaturg non è più solo quella di scrittore di testi teatrali: “E come potrebbe esserlo - si chiede Latella - dopo la rottura operata da Samuel Beckett in Atto senza parole, un atto unico del 1956, che non prevede parole ma soltanto azioni da compiere?” Da tempo di casa sulla scena coreutica mitteleuropea, questo dramaturg o autore teatrale, comincia a prendere piede anche in Italia. Non si sostituisce al coreografo, ma può meglio incanalare, con apporti sia teorici sia di ampliamento delle fonti bibliografiche e videografiche, le sue follie e fantasie. La Biennale Teatro lancia una bella sfida alla Biennale Danza. Prosit!