Storicamente, a partire dall’antichità più remota, l’economia ha trovato la sua dimensione ‘espansiva’ nello spazio. Le rotte dei commerci e delle migrazioni, così come quelle delle guerre d’invasione, hanno segnato sul Pianeta queste direttrici di marcia, a volte ancora vere e valide a distanza di migliaia di anni.

La colonizzazione greca1 del Mediterraneo è una primordiale storia di espansione commerciale. Così come lo fu l’antica ‘Via della Seta’, l’intreccio di vie terrestri, marittime e fluviali, che collegava la Cina all’Impero Romano, e attraverso la quale scorrevano gli scambi commerciali tra Oriente e Occidente. Una ‘via’, tra l’altro, rilanciata di recente dal governo cinese col progetto “Belt and Road Initiative”. Primo passo di una ‘colonizzazione’ cinese del vecchio continente.

Questa espansione spaziale ha caratterizzato l’intera storia mercantile dell’umanità, per raggiungere il suo massimo nel XX secolo con la ‘globalizzazione’ capitalista. La forte accelerazione di questo processo espansivo che l’ha caratterizzata, ha al tempo stesso determinato il rapido raggiungimento del suo limite: la Terra ha una dimensione finita. E a un certo punto, è ‘finita’. Non offriva più spazio per una ulteriore espansione.

Non ai ritmi e alla velocità richiesti dalla ‘spaziofagia’ dell’economia capitalistica.

In mancanza di una alternativa valida - visto che la corsa allo spazio, inteso come sistema solare, è ancora troppo lenta e costosa - ci si sarebbe potuti aspettare che la spinta espansiva avesse un riflusso, o quanto meno rallentasse la sua corsa.

Ma la forza dell’economia è la sua estrema flessibilità, la sua straordinaria capacità opportunistica. Il suo saper trarre profitto - in senso lato e in senso letterale... - da ogni cosa. Nello specifico, quella stessa tecnologia che ha consentito il boom espansivo della globalizzazione, è alla base della seconda fase espansiva dell’economia di mercato, che segna un punto di svolta epocale.

Dopo aver divorato lo spazio, sta ora colonizzando il tempo.

Il nostro tempo, il tempo della nostra vita. Questo, ovviamente, era già stato progressivamente ‘invaso’, man mano che si andavano sviluppando forme di lavoro organizzato. Sino al suo apice, raggiunto con l’industrializzazione della società e, quindi, con una netta scansione del tempo, in base alle esigenze della produzione.

Questa ‘regolazione mercantile’ del tempo, è però rimasta sostanzialmente invariata per circa 200 anni, ed era basata sulla separazione tra il tempo di lavoro e il tempo di riposo. Variamente regolata, e variamente articolata, ma sempre caratterizzata da questa chiara distinzione. Ciò che sta avvenendo adesso, invece, è l’espansione mercantile nella dimensione temporale. Quello che era il tempo del riposo - e/o dello svago - diventa sempre più, e sempre più invasivamente, tempo di lavoro e di consumo. Cioè tempo ‘colonizzato’ dal mercato.

Se gli studi di Ferdinand Braudel2 sin dagli anni ‘40 avevano messo in luce il nesso tra nascita del capitalismo ed espansione geografica degli Stati europei, la colonizzazione del tempo è ancora in gran parte materia inesplorata; e di ciò si sente la mancanza3. Mancando, infatti, gli strumenti d’analisi del fenomeno, ne siamo in parte sopraffatti più del dovuto. Questa ‘cronofagia’ del capitalismo contemporaneo si muove essenzialmente lungo due direttrici, ovviamente più evidenti nei Paesi economicamente più ‘avanzati’, dove più forte è l’azione plasmatrice del mercato.

La prima è quella che si muove sull’asse lavoro/non lavoro. La crescente precarizzazione del lavoro, la sua frammentazione, produce una diminuzione del tempo di non lavoro. Perché diventa a volte necessario avere più di un lavoro, perché i tempi di mobilità connessi al lavoro si dilatano, perché i cicli di lavoro si espandono, coprendo l’arco delle 24 ore, 7 giorni su 7. Al tempo stesso, il tempo non dedicato alla produzione viene sempre più orientato al consumo (che della produzione è l’altra faccia): nei giorni festivi andiamo al centro commerciale, la notte cerchiamo il supermarket aperto, quando siamo in ferie affidiamo il nostro tempo all’industria turistica del ‘capitalismo di piattaforma’ (Airbnb, Booking, etc). Una quota sempre crescente del nostro tempo di vita viene risucchiata all’interno del sistema di mercato.

La seconda direttrice è quella di renderci tutti prosumer. Il neologismo anglosassone, contrazione di ‘producer’ e ‘consumer’, indica la figura che riassume in un solo soggetto sia il produttore che il consumatore, e inizialmente fu creato per indicare il consumatore che diventava a sua volta produttore (di contenuti). Ciò faceva riferimento a un fenomeno dei primi anni dell’era digitale, il web ‘maturo’ ma ancora 1.0...

Oggi la sovrapposizione del consumatore e del produttore avvengono in un contesto assai diverso, quello appunto del ‘capitalismo di piattaforma’ (in questo caso, Facebook, Instagram, Twitter, etc), e si concretizza nella produzione continua e non retribuita di dati. Produciamo gratuitamente informazioni, che vengono poi elaborate da algoritmi e rivendute ai produttori, affinché possano affinare le tecniche con cui ci vendono i loro prodotti e/o servizi. In tal modo, il nostro tempo libero viene ancora una volta fagocitato, e posto al servizio del meccanismo produzione/consumo - per di più a costo zero.

Se il tempo, esattamente come lo spazio, è a sua volta limitato - 24 ore al giorno, un determinato numero di anni di vita - il suo consumo a livello individuale ci lascerà sfiniti, ma a livello globale ha il pregio di riprodursi continuamente. Il ciclo nascita/morte presenta ancora un saldo positivo, sul piano planetario.

Dunque, questa ‘nuova frontiera espansiva’ del capitalismo non sembra destinata a trovare il suo limite. Quanto meno, non nel breve tempo - appunto. O perlomeno, non lo troverà ‘naturalmente’. Dovremo porlo noi. Attraverso la rivendicazione di una inversione di tendenza, che riduca i tempi di lavoro a parità di retribuzione (cosa già possibile, grazie alla robotica e all’uso di algoritmi complessi). Attraverso la riappropriazione dei dati che produciamo, la cui capitalizzazione deve essere socializzata tra i produttori, e vincolata all’assenso esplicito di questi. Attraverso l’uso ludico e creativo dei dati collettivamente prodotti, perché non tutto deve essere monetizzato, e dalla nostra vita non vogliamo solo produzione e consumo.

1 Cfr. Valerio Massimo Manfredi, Mare greco, Mondadori.
2 Cfr. Fernand Braudel, Opere principali.
3 Forse unica eccezione, il saggio di Jean-Paul Galibert, I cronofagi. I 7 principi dell’ipercapitalismo, Stampa Alternativa.