Giunsi nella piazza principale del paese nella tarda mattinata di un giorno estivo. A giudicare dalla luce e dal caldo deve essere stato mezzogiorno, ma non ne sono certo.

Di qualcos’altro conservo invece ancora oggi un ricordo certo: per qualche ragione inesplicabile mi era venuto in mente Fellini.

Non c’era apparentemente nulla in quel posto remoto della Sardegna che potesse riferirsi a lui o ai suoi film, eppure, qualcosa dentro di me aveva suggerito il suo nome.

Incuriosito, volli scoprire il senso di quella strana associazione e istintivamente mi fermai e chiusi gli occhi. Quando li riaprii si era alzato un refolo di vento e ai miei piedi si era creata in un istante una curiosa tempesta in miniatura, con vortici d’aria a inseguirsi e polvere e pietrisco trasportati di qua e di là.

Fu allora che mi ricordai di un’intervista rilasciata da Fellini a bordo di un aereo in partenza da Roma per Città del Messico. Il giornalista presente, nel descrivere con dovizia di particolari il momento del decollo, notò che, a un certo punto, l’attenzione del regista era stata catturata da qualcosa all’esterno del velivolo: attraverso l’oblò il Maestro guardava pietre ed erbacce a bordo pista: i colori, le proporzioni, tutto faceva sì che quella visione apparisse come un paesaggio desertico in scala ridotta così perfetto che egli non si trattenne dall’esclamare: “Guardate! Il deserto messicano l’abbiamo qui! Inutile partire!”.

Ebbi la sensazione di essere stato sbalzato a una latitudine lontanissima e di trovarmi in mezzo a un paesino disabitato del Centro America. Le case basse di fronte a me non erano più le stesse di prima, il luogo appariva desolato e spoglio. Comparvero dei colombacci, due, tre in sequenza, a volo radente nel cielo azzurro. Quando riabbassai lo sguardo vidi lontano, di fronte all’ultima casa, una minuscola figura di donna che faceva segni con la mano. Riconobbi Maria. Risposi al saluto e affrettai il passo per raggiungerla.

Maria l’avevo conosciuta qualche anno prima viaggiando sul trenino storico che ancora oggi collega regolarmente Arbatax a Mandas. Io, come sempre, impegnato in uno dei miei viaggi di ricerca – quella volta ero sulle tracce dello scrittore inglese D.H. Lawrence che utilizzò quello stesso treno nel 1921 durante la sua prima esplorazione dell’isola - Maria più semplicemente di ritorno a casa dopo una giornata trascorsa al mare da un’amica.

Avevo notato subito la figura minuta ed elegante di quella ragazza e mi ero seduto di fronte a lei con la segreta speranza di poterla conoscere. Maria, ricordo, aveva capelli corvini folti e lunghi raccolti a coda da un fermaglio di madreperla. Cominciammo a scambiarci degli sguardi e a sorridere. Purtroppo, non eravamo soli: un pastore, in viaggio con un agnello legato alla corda, si era seduto proprio vicino a lei e ogni volta che tentavo di iniziare una conversazione, mi lanciava delle occhiate di disapprovazione da sotto la coppola. Grazie a Dio lei riuscì a non farsi intimidire e in poco tempo riuscimmo a raccontarci molto delle nostre vite: non mancarono momenti di genuina ilarità.

Quando arrivò il momento del pranzo si fece avanti e volle assaggiare il mio sandwich offrendomi in cambio dei deliziosi fichi neri. Le offrii anche la mia borraccia piena d’acqua e lei non si tirò indietro anzi, bevette con gusto, bagnandosi il collo. Furono forse questi suoi gesti spontanei che mi conquistarono e mi parvero di buon auspicio. Il trenino attraversò trasversalmente l’isola passando da zone montuose molto boscose ad altopiani aridi dove per ore non vedemmo anima viva.

Alle stazioni intermedie, piccole costruzioni semi diroccate in mezzo al nulla, salirono gruppetti di persone abbigliate con abiti e copricapi tradizionali, spesso portando con sé grosse quantità di cibo, taniche d’acqua, animali vivi e attrezzi agricoli. Vidi un uomo con un fucile a tracolla. Parevano tutti comparse in costume impegnate in un set cinematografico. Il vagone dove mi trovavo fu spesso animato dalle conversazioni dei passeggeri che, ahimè, parlavano solo in sardo, lingua per me incomprensibile.

La mia attenzione però era soprattutto per Maria e i suoi racconti. Rapiti l’uno dell’altro, perdemmo ben presto il senso del tempo. Quando Maria mi annunciò di essere quasi arrivata a destinazione venni colto di sorpresa e sentii come un colpo al cuore.

La separazione fu inaspettatamente brusca e quasi dolorosa. La vidi scendere dal treno e rimasi come paralizzato: in quell’attimo realizzai di non avere il suo indirizzo, di non avere niente che mi potesse riportare a lei. Sentivo che avrei potuto perderla per sempre.

La vidi scomparire attraverso l’atrio buio della stazione e non ebbi la prontezza di chiamarla. Trascorsi così il resto del viaggio sopraffatto dalle emozioni e con un grande senso di vuoto. Solo quando giunsi a Cagliari, alla sera, mi accorsi che Maria aveva scritto il suo indirizzo sopra a una cartolina e l'aveva infilata di nascosto tra le pagine di uno dei miei libri. Quanto risi e quanto piansi nel medesimo istante e quanto ballai nella stanza di fronte agli occhi divertiti di Antonio, il mio vecchio amico sardo.

Il giorno successivo decisi di scriverle un biglietto. La sua risposta si fece attendere. Passò un mese senza che accadesse nulla finché, con mia grande gioia, giunse la sua risposta. Iniziò così la nostra amicizia e presto l’amicizia parve naturalmente trasformarsi in qualcosa di più importante. Entrambi sentivamo crescere dentro un forte desiderio di rivedersi e di stare insieme. Purtroppo, una serie di imprevisti intralciò i nostri piani e per altri due mesi il nostro progetto fu continuamente rimandato. Tentai di convincere Maria a raggiungermi sul continente - all’epoca risiedevo a Roma - ma lei, tra le lacrime, mi disse che non le era permesso lasciare la casa di famiglia. Cominciai a temere che il tempo e la distanza potessero logorare e nuocere alla nostra relazione. Giunse l’estate del 1989 e un provvidenziale convegno di Antropologia a Cagliari al quale fui invitato come relatore.

Il mio carissimo amico Antonio, già mio compagno di studi alla Sapienza di Roma - ma forse oggi sarebbe più giusto chiamarlo Prof. Puxeddu - saputo della mia relazione con Maria, mi mise subito in guardia sconsigliandomi di spingermi nell’interno della Sardegna con progetti sentimentali. Con Antonio avevamo spesso parlato di ragazze e l’avevamo sempre fatto con la goliardia degli studenti, mai troppo seriamente, ma quella volta si capiva che c’era qualcosa di diverso.

Mi descrisse senza sfumature la realtà dei piccoli paesi e le regole sociali tradizionali ancora oggi molto sentite: non si poteva sfuggire a certe leggi che regolamentavano le relazioni uomo-donna e stabilivano l’obbligo di matrimonio in caso di fidanzamento. Ascoltai le parole del mio amico con sufficienza convinto di poter spaccare il mondo, certo che l’amore che provavo per quella ragazza avrebbe superato qualsiasi prova. Il giorno seguente, all’alba, presi l’autobus diretto a Lunas, il suo paese.

Gli ammonimenti del mio amico mi tornarono in mente quando vidi Maria sorridente. Nell’atto di abbracciarla intravidi di sfuggita dietro di lei un’altra figura, una donna con il suo stesso sguardo ma con i capelli grigi, ancora più piccola di statura. Era la madre. Maria si volse verso di lei e mi presentò. Con mia sorpresa la donna si fece avanti di slancio e mi abbracciò con inusitato vigore premendo contro la mia vita il suo seno enorme e caldo.

Risi dentro di me, divertito: un seno così non avrebbe lasciato indifferente Fellini! Rimanemmo sulla soglia di casa ancora per qualche minuto poi venni accompagnato all’interno di un atrio dove ci volle qualche secondo per abituarsi all’oscurità. Solo a quel punto vidi una grossa testa di cinghiale imbalsamata appesa al muro e dei cesti di vimini intrecciati appoggiati a una cassapanca di legno scuro. Mi voltai e incrociai di nuovo lo sguardo della madre di Maria che parlava a voce alta, sorrideva e rispondeva maliziosa con un sorriso tutte le volte che mi coglieva a indugiare con gli occhi nella scollatura piena del suo vestito nero.

Maria, fortunatamente, mi salvò, mi prese per mano e mi invitò a visitare la casa. Il portone pesante alle nostre spalle si chiuse con un tonfo e dentro di me per un istante apparve l’immagine di Antonio: mi sentii soffocare.

Un lussureggiante giardino interno, fresco e inaspettato, mi risollevò catturando la mia attenzione. Mai avrei immaginato che dietro a quella desolazione “messicana” ci fosse un così ricco agrumeto con alberi carichi di limoni e arance e, sullo sfondo, a ridosso di un muretto di pietre a secco, ulivi e cespugli fitti di mirto e lentisco. E come se ciò non bastasse il terreno più in là era tutto coltivato a orto e grossi pomodori a grappolo brillavano vivaci incorniciati dall’azzurro netto del cielo.

La casa sul retro, a differenza della parte affacciata sulla piazza, era completamente ristrutturata e si prolungava nel giardino con un’ampia cucina con veranda. Lì, ad attendermi, trovai una invitante tavola imbandita a festa, piena di promettenti ciotole coperte da tovaglioli ricamati. Tutto appariva estremamente pulito e ordinato. I profumi del cibo si mescolavano a sentori di sapone, di legna bruciata e cera per pavimenti.

Le sorprese non erano finite: in cucina, notai un letto appoggiato a una parete e vidi che c’era qualcuno disteso. Guardai meglio: un uomo di piccola statura, con la coppola in testa, la giacca di velluto e gli stivali stava riposando rivolto verso il muro.

“È mio padre” disse Maria usando il tono rassicurante di chi è in imbarazzo “È molto anziano” aggiunse alle mie spalle la madre e approfittò per scrutarmi come alla ricerca di un nuovo segno di approvazione. Bevemmo dell’acqua lì in piedi poi mi fu offerto di rinfrescarmi e mi indicarono il bagno. Quando ritornai trovai il padre di Maria seduto a capotavola. Aveva ancora il cappello in testa. Il viso era rugosissimo e scavato ma gli occhi scuri erano molto vispi, pronti a cogliere qualsiasi movimento intorno a sé. Disse di chiamarsi Albino ma io potevo chiamarlo Albineddu. Poi mi sorrise e mi indicò il posto accanto a lui, invitandomi a sedere.

Il contenuto delle ciotole fu a quel punto disvelato: le più piccole contenevano del pane carasau molto fragrante e delle olive, mentre la grande era piena di ravioli culurgiones evidentemente scolati da poco e sui quali vidi Maria versare del sugo di pomodoro dal profumo intenso. Una grattugia passò di mano in mano e ognuno aggiunse sul proprio piatto del formaggio pecorino stagionato.

Maria, seduta accanto a me, mi sorrise e con gesto aggraziato pose sul mio piatto una piccola foglia di basilico. Albineddu cominciò a parlare e lo fece mescolando frasi in italiano con pensieri in sardo che subito Maria provvedeva a tradurre. “Benvenuto a Lunas e buon appetito” disse guardandomi benevolmente ma spostando subito l’attenzione verso il suo piatto pieno di culurgiones fumanti. “Il piatto lo voglio vedere pulito!” aggiunse subito dopo.

“Babbo quest’anno ha ucciso il suo ultimo cinghiale” annunciò Maria con fare solenne. “È da quando aveva 20 anni che partecipa alla battuta di caccia annuale sulla montagna, non ne ha persa una” aggiunse.

Tutti sorrisero. Furono riempiti i bicchieri con del vino rosso aspro proveniente da una bottiglia senza etichetta e furono fatti ripetuti brindisi. A quel punto, il vecchio Albineddu si alzò e senza dire una parola voltò le spalle e si diresse verso il suo giaciglio dove si distese e riprese il suo riposo. “Da qualche anno fa così” disse la madre di Maria sorridendo e senza aspettare il mio consenso mi riempì il piatto con gli ultimi culurgiones avanzati. “Ha voluto lui il letto qui in cucina, gli piace sentire che siamo in giro per la casa, ma vedrai che appena porto in tavola il maialetto, tornerà e di corsa!”

Dieci minuti dopo, eccolo di ritorno. Mi sentivo in costante soggezione di quell’uomo, colpito dalla forte energia proveniente dalla sua presenza. Fu lui a decidere i pezzi di carne migliori tagliandoli e porgendoli ai presenti con il suo coltello da pastore. E ancora lui a raccontare che l’animale era stato macellato a tre giorni dalla nascita, un gesto necessario per onorare la mia visita. La crosticina croccante color miele scuro sapeva di latte e di mirto, si scioglieva letteralmente in bocca, che delizia! Insieme alla carne arrostita mangiammo solo finocchi crudi freschissimi, utili per rinfrescare la bocca.

“Mi paridi ca a su invitau nostru su purceddu gi pragidi!” disse Albineddu osservandomi chino sul piatto: “Un ierru chi torrasa a innoi ti portu a is montis po pappai su purceddu a carraxiu commenti du faidi Efisiu”. E ci scrutò tutti, serio, serio. Avvicinando il viso alla spalla di Maria le chiesi subito: “Cos’ha detto tuo padre?” E lei: “Dice che ha visto che apprezzi il maialetto e un giorno che verrai d’inverno ti vuole portare con lui in montagna per farti assaggiare il maialetto cotto “a carraxiu”, un modo di cuocere la carne mettendola sotto terra in una buca con erbe aromatiche”. “Ma Efisiu chi è?” insistetti curioso. “Efisio era il vicesindaco del paese, una brutta persona, uno speculatore rapace. Durante l’ultima battuta di caccia al cinghiale qualcuno gli ha sparato alle spalle ed è morto. Dalle indagini risulta essere stato un incidente ma qui in paese si sa che quando si va a caccia spesso si pareggiano i conti in sospeso” mi spiegò Maria con un filo di voce per non farsi sentire. “Ma è terribile! E quali sono i motivi?” chiesi inquieto. “Mah…! A volte i motivi sono banali: gelosie e scappatelle coniugali, debiti non ripagati, più spesso furti di terreni e animali. Ma anche promesse di matrimonio disattese” aggiunse prontamente Maria e mi strizzò l’occhio. Deglutii nervosamente.

“Ti piace il maialetto? Prendine ancora che poi quando parti te ne mettiamo uno in valigia da portare a casa” aggiunse Albino questa volta con il suo italiano traballante, e certo non si era perso una battuta della nostra conversazione. Poi, eccolo di nuovo, alzarsi e tornare nel suo letto.

Continuammo a chiacchierare in tre mangiando anguria fresca e dolcetti alle mandorle e al mosto di vino, una vera prelibatezza. La madre di Maria, che non ci aveva lasciati soli un istante, propose di bere il caffè e si alzò da tavola diretta in cucina. Quando tornò, probabilmente fedele alle proprie abitudini, si congedò dicendo che sarebbe andata a riposare un po'. Nonostante in casa si stesse bene, il caldo estivo si faceva sentire.

Maria mi propose di trasferirci in giardino. Mi disse anche che mi voleva parlare. “Perdonami, mia madre è un po' strana probabilmente è depressa, sai, lei ha 20 anni meno di mio padre, vive male questo suo declino, la vecchiaia che avanza. È anche molto gelosa di me, della mia giovinezza. Hai visto come ti guarda? Sono terribilmente imbarazzata, chissà cosa hai pensato! Mi perdoni vero? Quando si sono sposati lei aveva 14 anni e non sapeva nulla della vita. La sua famiglia decise per lei, un costume diffuso ancora oggi qui. Pensa che non è mai uscita da questo paese, mai! Non è mai stata a Nuoro o a Cagliari, non ha mai visto il mare. Io voglio bene a mia madre ma a volte mi sembra appartenga a un mondo troppo primitivo e lontano. Sono così contenta che sei qui! “E mi cinse il collo delicatamente con il braccio tirandomi a sé e baciandomi.

Fu quello il nostro primo bacio. Mi sentii felice, liberato ma anche inquieto e imbarazzato per qualcosa che non riuscivo ad afferrare. “Più tardi voglio portarti a vedere il grande Nuraghe di Birrosu, una scoperta recente. È rimasto sepolto per migliaia di anni, nessuno sapeva della sua esistenza fino a quando è stata rilevata per caso attraverso delle immagini prese dall'aereo. So che a te piacciono queste cose” aggiunse. E mi prese la mano.

“Maria, è di questo che mi volevi parlare?” chiesi io sentendo dentro di me il cuore battere all'impazzata. “No, no” rispose, tirando istintivamente indietro la sua mano “Volevo dirti che l’anno prossimo sarò a Cagliari, mi sono iscritta all’università. Tutte le cose che mi hai scritto nelle tue lettere mi hanno fatto appassionare e sentire orgogliosa di essere sarda! Ora voglio saperne di più!” “Che bella notizia! - risposi io candidamente - Non dirmi che seguirai il corso di Puxeddu?!” “Sì! Ma tu come lo sai?” chiese tutta sorpresa. “Lui ha la cattedra di Antropologia da poco più di un anno, ed è il mio migliore amico” dissi in un crescendo di eccitazione. Anch’io potrei chiedere un trasferimento e avere un incarico… così potremmo vederci sempre...” “Piano, non correre…” intervenne Maria. “C’è un’altra cosa che devo dirti...” “Dimmi, amore...” risposi senza esitare. “Mi sono fidanzata con un ragazzo del mio paese, si chiama Lorenzo. Si tratta di una cosa molto recente e avrei voluto anche scrivertene ma poi ho pensato che dovevo dirtela a voce. L’anno prossimo ci sposiamo. Mi dispiace darti questa sofferenza, mi dispiace molto”.

La incalzai: “Maria, ti prego, guardami, noi avevamo una storia, sognavamo delle cose, tu mi scrivevi vieni da me, tu mi dicevi voglio solo te, come è potuto succedere tutto questo?” “Ci siamo visti una volta, troppo poco!” mi rispose.” È vero abbiamo sognato, immaginato, desiderato... l’ho fatto anch’io quanto te. Ma io e Lorenzo siamo cresciuti insieme nello stesso paese. È diverso. Non avrei mai immaginato che tutto questo potesse succedere. Poi l’ho rivisto a una festa qui nella piazza, c’era musica, abbiamo ballato. Lui mi ha guardata in modo strano. Ci siamo baciati, lì davanti a tutti. Ci siamo compromessi per sempre. Mi capisci?”.

Maria distolse lo sguardo da me e rimase immobile, in silenzio. La guardai e rividi per un istante la bellezza che mi aveva rapito la prima volta, sul treno. Sembrava passato un secolo. Ripensai al mio amico Antonio e alle sue parole e mi resi conto che non provavo dolore ma una sensazione di riconoscenza mista a leggerezza. Ero libero.

Mentre eravamo lì seduti uno accanto all’altro, un intenso odore di dolce fritto ci catturò. Ci guardammo esclamando come due bambini la parola “Seadas!” Pochi secondi dopo eravamo di nuovo seduti a tavola dove su un grande piatto facevano bella mostra le tradizionali frittelle di formaggio, miele e scorza di limone, fatte dalla madre di Maria.

“Ti abbiamo preparato la stanza buona, quella per gli ospiti, così potrai riposare bene” disse la signora come se fosse cosa fatta e mi porse la frittella più grossa. “Purtroppo non può, ha da fare a Cagliari, deve tornare già stasera” intervenne di slancio Maria. “Oh, ma che peccato! Ma allora almeno a cena puoi restare? Ma cos’è quella faccia? No? Neanche a cena?” aggiunse la madre con un’espressione tra l’interrogativo e l’indispettito.

Albineddu nel frattempo, questa volta totalmente incurante delle nostre conversazioni e dei nostri programmi, era sceso dal letto e aveva iniziato ad armeggiare davanti a una vecchia credenza. Lo vidi afferrare una bottiglia dal collo lungo e cominciare a mordere il tappo di sughero pressato in profondità. Nel venirmi incontro aveva ordinato qualcosa in sardo rivolto alla moglie. Pochi minuti dopo ci ritrovammo tutti nel vestibolo accanto al portone principale, pronti per gli ultimi saluti. Salutai Maria ed ebbi il triste presentimento che non l’avrei mai più vista. L’abbracciai commosso alle lacrime e le baciai le guance. La madre ci guardò sorridendo. Quando venne il suo turno mi strinse e mi trattenne a sé per dei secondi che parvero non finire mai. La lasciai fare.

Mi voltai e vidi di fronte all’uscio illuminato Albino, minuscolo e magro in controluce, così sottile che pareva un bronzetto nuragico. Mi venne incontro porgendomi un piccolo bicchiere da liquore, in cristallo. Lì in piedi versò un po’ del contenuto della bottiglia prima a me e poi a se stesso e lo fece con gesto rituale, solennemente. Sorrisi riconoscente e bevvi quel vino che mi sorprese, simile al Porto, anzi migliore di qualsiasi Porto invecchiato mai bevuto. Albineddu mi guardò con affetto e benevolenza. E continuò a farlo anche quando Maria con un guizzo mi fu accanto e non si trattenne dal dirmi: “Quando babbo tira fuori quella bottiglia significa che gli sei piaciuto, che potrai tornare. In questa casa sempre sarai un ospite gradito”.

Mi congedai. Percorsi la piazza solitaria senza voltarmi, udii il suono di una campana in lontananza e alcuni cani abbaiare. Non resistetti e all’ultimo mi voltai. Feci appena in tempo a notare la testolina scura di Maria che era rimasta a guardare dalla fessura della porta accostata. Poi la porta si chiuse.