L'anno era il 1920. La città Milano. Un giovanotto sempre elegante, occhi verdi, capelli rossi, abiti classici e immancabile foulard nel taschino, si affaccia su una metropoli di 800.000 abitanti che si avvia a diventare la capitale economica dell'Italia in trasformazione. Si chiama Adriano Pallini, professione: sarto.

La storia, però, era cominciata molto prima in un paesino abruzzese, Atri, in provincia di Teramo, dove Massimo Pallini e Dircea Orientali avevano messo al mondo tre figli, Rosina, Giuseppina e Adriano mentre gestivano una sartoria da uomo. Quando la guerra finisce l'intera famiglia Pallini fa le valigie e abbandona il paesello per stabilirsi nel cuore della capitale lombarda, in via dell'Orso. Con loro gessetti, forbici, metri e un obiettivo: confezionare su misura giacche, pantaloni e cappotti ai clienti più esigenti.

In quegli anni la voce sensuale di Anna Fougez cantava dai grammofoni Abat-jour che soffondi la luce blu..., mentre a Milano il prodigioso sviluppo industriale si univa a profonde tensioni sociali che culminavano in scontri sanguinosi. I primi tempi non furono facili per la famiglia Pallini, che lavorava in casa, cercando di aprirsi un varco nella grande città. Appena due anni dopo, Massimo, il padre, muore. È il 1922: negli stessi mesi al civico 9 di piazza San Sepolcro, non molto distante dalla sartoria, nasce il Movimento fascista. Ma Adriano, 25 anni e pochi fronzoli per la testa, non è mai stato interessato alle questioni politiche e prosegue l'attività paterna.

Piuttosto era l'Accademia di Brera e il mondo di pittori, poeti e letterati che si incontravano nei locali vicini alla scuola e alla Pinacoteca ad attirare appassionatamente il giovane Pallini. Fu così che, mentre la sartoria cresceva fino a contare venti dipendenti, mentre la sua fama di "stilista" maschile raggiungeva l'alta borghesia cittadina che gli ordinava persino 15 capi per volta, lui, da sarto gentiluomo, aiutava gli artisti con le tasche vuote a vestirsi alla moda. Pagamento rigorosamente in natura: io do un quadro a te, tu fai un vestito a me. Una giacca di tweed per Arturo Martini in cambio di una terracotta. Soprabiti e paletò a de Chirico per una serie di quadri. Massimo Campigli si offrì di fargli il ritratto nel 1934 per un abito di lana. Vincenzo Cardarelli, che odiava il freddo, gli inviò i suoi libri e anche il suo ritratto in bronzo scolpito da Barbieri in cambio di "calzoni" caldi e paletò lunghi fino ai piedi.

Pallini non disse mai di no. In fondo una grande affinità lo legava a tutti loro, perché anche lui era il maestro di un'arte, quella di far scomparire i difetti del corpo. La sua collezione cominciò così ed è finita col diventare una delle più importanti raccolte d'arte del Novecento italiano e internazionale. Opere di Manzù, Carrà, Marini, Modigliani, Funi, Marussig, Martini e di molti altri si unirono a quelle di Fontana, Campigli e de Chirico in un itinerario pittorico nato da incontri e esperienze di vita a cui si aggiunsero in continuazione acquisti e vendite.

D'altronde ormai la Sartoria Pallini, trasferita nell'attuale piazza Meda (all'epoca piazza Crispi), era un astro nel mondo della moda. Lo stile elegante degli abiti che confezionava, la perfezione del taglio, i preziosi tessuti, tutti di provenienza inglese, richiamavano ricchi clienti da ogni parte d'Italia. Se Gilberto Mazzi a ritmo di foxtrot nel 1939 cantava Se potessi avere mille lire al mese, l'anno prima il sarto arrivato dalla lontana provincia abruzzese poteva permettersi di comprare due paesaggi di Morandi al prezzo di 1500 lire l'uno. Più tardi, nel 1946, acquisterà un olio di Depero per 25.000 lire e nel 1950 contribuirà con 100.000 lire alla quarta edizione del Premio nazionale di pittura Michetti a Francavilla.

È straordinario ma quasi inverosimile, nel libro che la figlia Nicoletta Pallini Clemente ha voluto dedicargli (Atelier Pallini, Storia di una collezione italiana 1925-1955 - Editore Mazzotta), leggere di questo signore compito, timidamente riservato, elegante dentro oltre che fuori, col metro a nastro a tracolla e i gessetti nelle tasche, che si confronta quotidianamente a casa e in sartoria con i maestri dell'arte italiana. Non solo, con alcuni trascorre le vacanze, di altri ascolta le inquietudini, ad altri ancora corre in aiuto. Come Sironi, che nel suo periodo più nero, alla fine della Seconda guerra mondiale, Pallini "ospita" a Bellagio, dove aveva fatto trasferire anche la famiglia. E come de Chirico, che gli chiederà il favore di far risultare sua parente la moglie ebrea Isabella Far, che così si trasforma in Elisabetta Pallini in Vergara.

“A quei tempi non potevo certo capire né la bellezza, né il significato di tutti quei dipinti e quelle sculture disseminati ovunque nella nostra casa di Milano, in quella della nonna, in sartoria e nella villa di Ospedaletti”, scrive la figlia Nicoletta, giornalista e curatrice di mostre, nel libro dove anche studiosi e storici dell'arte hanno ripercorso l'avventura di papà Adriano. “Per me non si trattava di oggetti inanimati ma di veri e propri compagni di un gioco solitario e sempre diverso. Li vedevo come persone di casa che abitavano tutte con noi, come fossimo una grande famiglia”.

La casa di Milano che ospitava questa "grande famiglia" è quella di piazza San Babila nel cui ingresso si potevano ammirare opere di Carrà e Marie Laurencin, in cucina di Morandi e nell'anticamera di Boccioni, oltre a quelle, sparse dappertutto, di Guttuso, Borra, Campigli, Modigliani, Sironi, de Chirico... In quell'appartamento Adriano Pallini viveva con le due figlie, Adriana e Nicoletta, e la moglie Marta Stevanini, conosciuta nel 1937. Un altro anno importante, per lui, fu il 1937, perché una sera a cena al ristorante Il Soldato d'Italia, in via Fiori Chiari a Brera, incrociò negli specchi lo sguardo di una giovane. Cupìdo scoccò la sua freccia e Adriano depose le armi del dandy gentiluomo ma rubacuori. Parlami d'amore Mariù, cantava De Sica.

E fu così che all'età di 40 anni il sarto flemmatico, sicuro e imperturbabile si legò per la vita a Marta Stevanini, 22 anni, poi diventata il soggetto di molti dipinti dei suoi amici pittori. Niente, comunque, neanche la guerra, poteva scalfire la sua passione per l'arte, che non si arrestò nemmeno negli anni più bui e riprese subito dopo gli eventi bellici. E se da una parte tagliava gli abiti per il presidente della Repubblica Gronchi e per il sovrintendente della Scala Ghiringhelli e anche tailleur per la principessa Ruspoli e la contessa Borghini Baldovinetti (in passato ne aveva cuciti anche per Claretta Petacci), dall'altra apriva le porte ad astrattisti come Mauro Reggiani, Antonio Corpora e Guido Somaré. Perché lui, eternamente classico nella professione, viveva l'arte con una grande curiosità, aveva intuito e si spingeva coraggiosamente fino alle avanguardie. Al contrario dei musei italiani, che invece assistevano inerti allo sviluppo dell'arte contemporanea.

La storia finisce nel 1955, quando Adriano Pallini si ammala e muore in pochi mesi per un tumore. I jeans imperversano, i teen-ager cominciano ad essere protagonisti della moda, gli italiani cantano Buongiorno Tristezza insieme a Claudio Villa che ha appena vinto il Festival di Sanremo. Un'altra storia stava per cominciare. Solo più tardi scopriremo che è grazie alla passione e all'intuito di pochi collezionisti come Adriano Pallini se oggi molti capolavori non sono andati dispersi o ignorati. Nel bel palazzo di piazza Meda dove si trovava la sartoria ora hanno aperto caffè e pizzerie. Opere che provengono da quelle stanze sono oggi esposte nei musei del mondo.