La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle.

(Sant’Agostino)

Lorena Fornasir, psicologa clinica e psicoterapeuta, ha lavorato nel servizio pubblico, si è dedicata per anni alla formazione di docenti e ha diretto il Servizio Adozioni provinciale dell’Azienda per i Servizi Sanitari di Pordenone. Scrittrice e volontaria, è una delle protagoniste del documentario Dove bisogna stare di Daniele Gaglianone, che racconta le storie di donne che hanno deciso di non voltare la faccia, e di impegnarsi personalmente nella cura e nell’accoglienza dei rifugiati.

Il film (prodotto da ZaLab in collaborazione con MSF) è uscito nelle sale cinematografiche il 17 gennaio iniziando un tour di proiezioni “evento” organizzate in tutto il territorio nazionale accompagnate da presentazioni degli autori e delle protagoniste stesse.

Da anni sei impegnata in prima persona nella causa dei profughi. Come hai iniziato, cos’è successo?

Per caso, vedendo giungere i primi profughi dalla prima rotta balcanica. Sono arrivati in massa: venti, trenta al giorno, era il 2014. Nessuno era preparato, era un’emergenza che poi è diventata strutturale. Erano denutriti, i piedi piagati, le scarpe a brandelli, avevano attraversato a piedi l’Iran, la Turchia, la Bulgaria, la Serbia, la Croazia. Non potevo voltare la faccia dall'altra parte e dirmi "ci penserà qualcun altro", andare a casa e dormire nel mio comodo letto mentre decine di ragazzi che erano fuggiti da guerre e persecuzioni, e che avremmo dovuto accogliere, erano invece costretti a dormire per strada al gelo, sotto la pioggia.

Immagino che più di qualcuno si sia stupito a vedere un’affermata psicoterapeuta che decide di passare le sue serate in strada a fianco dei rifugiati che la città non riesce ad accogliere. È un' esperienza forte, e al contempo un messaggio forte.

Per una vita intera sono stata testimone della sofferenza e del disagio. Ho imparato molto da chi sta male ma, soprattutto, ho imparato a stare al cospetto del dolore. In quest’epoca della mia vita mi sono trovata non a curare il trauma, ma ad essere dentro al trauma, fisicamente, corpo a corpo, provando un sentimento di impotenza e chiedendomi ogni volta cosa posso fare. Oggi, la guerra che i rifugiati si portano addosso nella loro pelle e nei loro corpi, ha attraversato anche la mia pelle. E anche quella di mio marito, perché in questa esperienza siamo sempre stati assieme.

Dopo la chiusura dei confini dell’Ungheria si è aperta una seconda rotta, più a ovest, che dalla Grecia attraversa Albania, Montenegro e Bosnia-Erzegovina. Ci sono ormai tantissime testimonianze di episodi gravissimi di violenza e respingimenti illegali da parte della polizia croata, mentre migliaia di rifugiati restano bloccati al confine bosniaco-croato. Com’è iniziata la tua attività di volontariato con i rifugiati in Bosnia?

Nel 2018 ci siamo trasferiti a Trieste, città di confine dove la migrazione è l'epidermide fisica e psichica della città. Bastava guardarsi attorno, passeggiare lungo le rive di fronte al mare, per trovarsi di fronte ai profughi che arrivavano dalla seconda rotta balcanica. C'erano famiglie con bambini, ragazzi, perseguitati politici. Non posso dimenticare il giorno in cui un giovane straniero che si era nascosto tra i container del porto al terminal del molto sesto è stato travolto durante la manovra di un tir. Era una giornata di maggio, il sole illuminava di una luce radiosa la città. E su questa città era scesa la morte, inaspettata, violenta, crudele. Non potevo rimanere una spettatrice. Ho varcato i confini, sono andata al di là dei fili spinati della Slovenia e della Croazia fino a Velika Kladusa e a Bihac dove, assieme a mio marito, abbiamo trovato un disastro umanitario. Da queste esperienze non si torna più indietro, non si può più essere quelli di prima.

Ci sono due parole che tu usi in modo ricorrente quando parli della realtà dei rifugiati: confine e corpo.

I confini sono un archivio coloniale che agisce attribuendo o togliendo soggettività a partire dai corpi. Il mio primo impatto è sempre stato con la massa dei corpi dove i singoli individui spariscono nella loro singolarità. Ma prima di tutto vengono loro, i corpi: corpi feriti, denutriti, segnati da piaghe, corpi spezzati, ridotti a muscoli, occhi, braccia, gambe, pensieri. La solidarietà nasce da qui, da questo incontro con la vulnerabilità dell’Altro. L’altro sono io – dicevano le madri di Plaza de Mayo – e l’altro per me è colui che non ha quello che io ho. Se io sto male posso curarmi, se l’Altro ha un’influenza può morire. La preoccupazione per il rifugiato, la cura nel chiamarlo per nome, il tè portato nelle notti fredde dell’inverno, le coperte, i sacchi a pelo procurati con fatica, è un gesto politico perché restituisce soggettività. Ecco quindi che la solidarietà è per me, per noi due, una forma di resistenza, cioè una costruzione di socialità e di legami di cura. L’attacco alla solidarietà è invece l’espressione di un progetto negativo di società fatto di individui solitari e impauriti che s’identificano nel potere e nell’uomo forte.

Un’altra parola chiave, solidarietà. È una parola che implica un relazione fondata sul sostegno reciproco, sulla condivisione.

Il mio sguardo è quello del “testimone”, cioè di colei che in virtù di coincidenze casuali, quali ad esempio lo stare in strada, condividere il freddo o interminabili attese al pronto soccorso, diventa depositaria di un tratto di verità. In quei momenti il rifugiato mostra la sua parte vulnerabile, quella debolezza che non può confessare neppure a sé stesso, altrimenti perderebbe la speranza. È da questo incontro tra vulnerabilità, speranza e donazione di senso che sorge il piacere di una condivisione profonda, più vicina alla vita e al desiderio di trasformazione che non alla disperazione. Poter condividere con i tanti volontari come me un pensiero sulla cura, mi ha fatto sentire che la cura è ovunque e che in tante/i siamo ancora capaci di dirigere il nostro sguardo, la nostra attenzione, verso l’unicità del soggetto e verso quell’ordinario microcosmo di bisogni, desideri e legami spesso opachi e invisibili alle nostre menti.