Siamo quello che ci manca

(Carmelo Bene)

L’uscita di una nuova affascinante traduzione e di un nuovo intenso libro sul Cantico dei cantici di Salomone, opera del poeta e studioso Andrea Ponso, arricchito da una suggestiva introduzione del Prof. Marcello La Matina, rappresenta una delle poche reali novità e arricchimenti nel recente paesaggio culturale italiano, anzi direi mondiale.

Quando si parla infatti di cosa sia il tradurre e di cosa sia il Cantico dei cantici ci si immerge immediatamente naturalmente in un livello universale di ragionamento. Per la prima volta con spessore e profondità si propone un approccio nuovo e antico nel contempo al tema filosofico e direi sacrale del tradurre. Tema non differente dall’indagine sulla natura del più enigmatico poema umano mai scritto. Il tradurre, e lo dimostra Andrea Ponso, è un arte del togliere e dell’aggiungere. Un'arte musicale fatta di levare e di battere. Ponso decristallizza la Parola ricorporificandola, cioè liberandola dal testo quale scheletro, dal tradurre quale operazione ideologica di produzione di repliche di interpretazioni già date, per volgerla in una “tessitura in corso” a cui si è chiamati a prenderne parte.

La traduzione di Ponso è un nuovo Cantico. Sentiamo i colori, il movimento, il calore, i suoni. Sentiamo il corpo che è la Parola, e possiamo parteciparvi. Con umile coraggio è riuscito a sopraelevarsi dai cliché della culturalità di ricezione. Traducendo non si vuole, finalmente, “spiegare” nulla. Si ci limita all’immenso compito di presentare una voce, di presenziare allo squadernamento di una ricchezza profonda, di un discorso non concludibile ma immersivo.

Il Cantico dei cantici quale processo, quale fenomeno esso stesso traduttivo, cioè fatto di un interagire unitario di tessiture che si compenetrano. Comprendiamo allora che il tradurre sia per sua natura una forma di “filosofia della trasformazione” e della conversione. Non tanto alla ricerca di una “terza lingua” inesistente, che è semplicemente Dio o il suo Mistero, quando nell’essere visitati e compresi da ciò che non possiamo abbracciare per primi in interezza. Possiamo comprendere dentro il Cantico, ma non il Cantico. Così è per ogni sistema, che non può autofondarsi ma solo conoscere alcuni propri limiti relazionali. Ponso opera una traduzione che è nuova musica nel colorare la medesima partitura tramite un solve e un coagula sapiente. Mantiene tutte le iterazioni e i pronomi personali, segni ritmici e presenziali preziosi, co-essenziali al corpo del Canto. Evita una traduzione “pornografica” in quanto il Cantico è danza di veli.

Tradurre come lasciar spazio ad un sinolo tra significante e significato, fisicità e alterità, sensibilità e discorso, ortoprassi e sapienza. Tradurre è sia tradizione che tradimento. Consegnarsi all’immersione nell’Altro e consegnare altro. Cogliere le fiamme dentro il fuoco; ecco cosa significa tradurre quale focalizzazione, cioè non distogliere lo sguardo immerso nella sua contemplazione assimilativa. Non spiegare ma equilibrare il gioco dell’ex-plicazione con quello dell’im-plicazione. Il Volume va aperto e chiuso, aperto e chiuso, come il respiro esicastico, come il Libro occhiuto dell’Apocalisse.

Questa nuova traduzione “filosofica” supera la dicotomia fra comprensione della musica (sempre a rischio di ideologia concezionale) e comprensione delle note (a rischio di atomizzazione) volgendosi verso un approccio rivelativo-monista. Quale monismo? Quello che ci fa dire con Tommaso d’Aquino e Carmelo Bene che l’uomo* è* il suo corpo, non “ha” un corpo. L’essere umano quale unità vivente di anima e corpo. Il Cantico dei cantici quale canto del dispiegarsi della scoperta e dell’esperienza dell’unità teandrica di animacorpo. Allora il tradurre è un ascolto che opera, un'esperienza tanto spirituale quanto fisica.

Nella traduzione come nel Cantico di Salomone non c’è allegoria ma apparizione, non c’è forma ma suono, non artificio ma presenza. Nulla rinvia fuori di sé ma il mondo è dentro la presenza della Parola. Tradurre quale crisi, quale prova, quale crocefissione che distrugge ogni idolo. La coerenza simbiotica del taglialegna che entra in sistema dinamico con la resistenza e l’impronta del taglio e del legno tagliato. Tradurre quale rito di immersione e travaso, quale luogo sensibile, templare. La rivelazione è sensibile, è fatto fisico ma non può essere decodificata perché si presenta prima del cristallizzarsi del linguaggio in codice di ricezione. Si presenta nel corpo quale principale luogo ierofanico e, in quanto tale, ierofantico. La rivelazione va esposta rimuovendo resistenze, ostacoli, lenti deformanti.

Tradurre è come il Cantico: liturgia del corpo quale Tempio e di un Tempio inabitato dall’incontro fra Dio e il mondo nella loro interezza e sfuggevolezza. Le immagini salomoniche sono liquide, ignee, mobili, anti-idoliche perché processuali e relazionali. Lasciarsi visitare da un’immensità già presente. Il mormorìo che ascolta Elìa. L’identità è già presente all’inizio del Cantico e sfugge alla fine. Ma i luoghi dell’incontro sono conosciuti, pur nel desiderio e nella ricerca. L’Amata manca l’incontro notturno per oblìo dei tempi. Ma l’incontro ritornerà. Il testo è corpo, non archetipo.

Andrea Ponso ci dimostra la limitatezza del dualismo platonico con la sua mentalizzazione gerarchizzante: l’anima e il corpo sono unità teandrica. Aveva ragione Tertulliano: la fede non può fare a meno della carne. Per mezzo della carne e nella carne siamo stati salvati. La traduzione quale ri-animazione di un corpo apparentemente senza movimento. La soggettività del tradurre per essere efficace deve muoversi dimenticandosi il peso dell’ego, come nel Cantico dove abbiamo soggettività che sono luoghi e processi. Il Tempio della Parola è rito di incontro fra due totalità che si cercano. Il Cantico di Salomone, come l’anima del tradurre, è prova di Dio. Nel duplice senso di prova sul limite umano proveniente dall’Altro e prova della necessità di implicare l’Altro. Un Altro che già conosce l’uomo prima dell’uomo.

Il Cantico non sembra partire dall’umanità. Il Cantico viene da un’umanità che è già in Dio. Uno dei quattro Esseri Viventi che sostanzia il trono di Dio nei profeti biblici e nell’Apocalisse ha un apparire umano. Questo significa che l’umanità è un apparire da sempre delle profondità divine. La manifestazione di Dio ha bisogno di corpi quanto il corpo umano ha bisogno di un canto animico. Il Cantico quale prova della pre-esistenza di Dio lo si coglie in primo luogo nella sua universalità pre-culturale. Nessun uomo può scrivere a-culturalmente. Eppure il poema più sublime di Salmone nella sua musicalità rituale e templare accoglie ogni inculturazione e pure sfugge ad ogni inculturazione. Primo segno divino. Nel Cantico il Discorso è già in atto, prima del primo suono sensibile, e non si conclude. L’uomo invece abbisogna di una storia che abbia un inizio e una fine. Secondo segno divino. L’Amata che cerca già conosce e già è conosciuta. E non vi sono passioni ma una sola Passione che unisce e non divide anima e corpo. Un processo aperto e dinamico, ma pure bastante a se stesso. L’appuntamento, l’abbraccio, l’incontro già vive ed è un corpo che è Tempio. Terzo segno divino.