Le principali Banche pubbliche italiane (denominate anche “Banchi pubblici”) sorsero tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento, con il favore delle autorità municipali e governative che consideravano tali Istituti come finanziatori più affidabili rispetto ai banchieri privati nonché in grado di concedere prestiti di importo più elevato a sostegno della finanza pubblica che, spesso, necessitava di anticipazioni di cassa per far fronte alle spese correnti e al pagamento degli interessi e al correlato ripianamento del debito contratto dall’amministrazione comunale o dal governo dello Stato dominante.

Le funzioni principali dei Banchi pubblici erano essenzialmente: l’accettazione dei depositi, con impegno di custodia e restituzione al cliente su semplice richiesta, senza corresponsione di alcun interesse; rilascio ai depositanti di “ricevute” (denominate anche “fedi di credito” o “cedole”), con possibilità di “girata” ad altri e contestuale trasferimento del credito verso il Banco in esse incorporato; pagamento di somme a terzi, sulla base di ordine scritto del cliente; operazioni di “giroconto”, vale a dire trasferimento di somme dal conto di un cliente a quello di altro cliente del Banco, mediante apposite scritturazioni contabili nei registri tenuti dall’“Ufficio del giro”.

I Banchi pubblici svolgevano pertanto una fondamentale funzione monetaria, ovvero agevolavano il commercio tramite la diffusione e circolazione di strumenti di pagamento di generale accettazione (le ricevute di deposito) e il giro dei crediti iscritti nei loro libri contabili. La funzione creditizia dei Banchi era invece più limitata ed era dedicata soprattutto a finanziare le esigenze di spesa pubblica di città e governi, e in misura minore a concedere credito ai privati, che poteva essere erogato anche nella forma del prestito su pegno.

Alcuni Banchi furono costituiti su iniziativa di Enti morali (Monti di Pietà, Confraternite, Ospedali, Orfanotrofi), come i Banchi napoletani e romani, altri invece nacquero per intervento diretto dello Stato o del Comune, come i banchi genovesi, veneziani e siciliani. Altri Banchi ancora, come quelli di Siena e di Milano, sorsero come Monti profani che raccoglievano fondi mediante l’emissione di “luoghi” (titoli rappresentativi del capitale depositato), sui quali veniva pagato un interesse, e provvedevano poi a prestare ai privati e alle municipalità.

Le origini di fondazione del Banco pubblico di Siena, il Monte dei Paschi, si fanno risalire a un Monte di Pietà esistente fin dal 1472 che, tuttavia, dopo un’operatività molto limitata, venne chiuso nel secondo decennio del Cinquecento per poi essere riattivato soltanto nel 1569 sotto forma di Monte Pio, il cui capitale di costituzione fu conferito dalle amministrazioni dei Comuni e delle Opere Pie della Città e dello Stato di Siena, ex Repubblica che aveva conservato una certa autonomia all’interno del Granducato di Toscana. Successivamente, nel 1625 venne avviato un nuovo Banco denominato “Monte non vacabile de’ Paschi della Città e Stato di Siena”, la cui gestione venne affidata allo stesso Magistrato preposto al Monte Pio, Istituto che rimase operativo con una propria amministrazione separata.

Il fondo di dotazione iniziale del Monte fu stabilito in 200mila scudi, frazionabili in “luoghi di monte” da 100 scudi cadauno, titoli rappresentativi del capitale che fruttavano un tasso di interesse del 5% e potevano essere negoziati sul mercato. I “luoghi” venivano garantiti dal Granducato tramite le entrate pubbliche rivenienti dai pascoli demaniali della Maremma, i cosiddetti “Paschi”, nonché dalla “Balìa” (governo comunale) tramite i propri beni e crediti, oltre ai beni mobili e immobili dei cittadini di Siena. Ulteriori garanzie, analoghe a quelle concesse dai cittadini senesi, venivano poi prestate anche dalle altre comunità dello Stato senese che, al fine di poter compiere operazioni con il Monte, dovevano stipulare un’apposita convenzione di “capitolazione” con l’Istituto, divenendo pertanto “comunità capitolate”.

I capitali raccolti tramite i “luoghi di monte” venivano destinati alla concessione di prestiti a favore di cittadini di media condizione sociale, che fossero in grado di concedere la garanzia personale di due “mallevadori” (garanti). Il tasso di interesse percepito sui finanziamenti era di poco superiore (mediamente nell’ordine di un punto percentuale) a quello pagato ai “luogatari” (portatori dei titoli), in modo tale da poter assicurare la regolare gestione e il mantenimento del Monte, al netto degli utili che venivano elargiti in elemosine, destinate ogni cinque anni per metà ai poveri e ai Monasteri di monache di Siena e per metà ai contadini poveri.

Il Monte di Siena era definito “non vacabile” in quanto i “luoghi” erano irredimibili, nel senso che non era prevista la facoltà di rimborso e pertanto era impossibile che la Banca divenisse “vacabile”, ossia priva dei mezzi necessari per il regolare svolgimento delle operazioni tipiche dell’attività istituzionale. I luoghi potevano, invece, essere ceduti e trasferiti a terzi previo benestare del Monte, che si riservava comunque sempre il diritto di prelazione.

In seguito alla politica riformatrice del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena (1747-1792), nel 1778 vennero aboliti i pascoli demaniali della Maremma quale originaria garanzia a favore dei portatori dei “luoghi di monte” e pochi anni dopo, nel 1783, il Monte dei Paschi e il Monte Pio furono unificati in un unico Istituto, denominato “Monti Riuniti”.