Negli anni Ottanta dello scorso secolo mi ero liberato dagli impegni di “medico di famiglia” che avevo svolto dal 1954 al 1979; fu quando il medico lo era a “tutto tempo”, dal primo all’ultimo giorno dell’anno, 24 ore su 24, impelagato in decine di “casse mutue”, dall’INAM megagalattico (Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro le Malattie) all’assicurazione obbligatoria contro le “malattie per la categoria degli artigiani e per i rispettivi nuclei famigliari”, passando per INPS, INADEL, ENPAS, ecc…

Ormai dal 1980 solo “medico specialista”, ebbi modo di scatenarmi in varie associazioni, nelle quali molte volte con carica presidenziale: tante da costringere i miei cari, al fine di tenermi un po’ in casa, a creare, in occasione del Natale del 1991, il club familiare, del quale, ovviamente, fui elevato al rango presidenziale “ad amorem” con il regalo di una campana degna del miglior club rotariano.

Fra le tante, l’Associazione Medici Scrittori Italiani (AMSI) fu, da me, una della più amate e frequentate. Di questa bella esperienza ricordo il XXXI Congresso, svoltosi a Urbania Pallanza (6-9 maggio 1982) con un tema allettante per gli interventi dei soci: Il lago Maggiore nella letteratura, nella storia e nell’arte [1]. Ogni anno il luogo dell’incontro fra i soci veniva scelto con molta accuratezza e mai abbiamo avuto motivo di lagnanza ma quello sul lago Maggiore, in me, ha lasciato il segno. Intanto per la bellezza del sito; aveva scritto il von Paulus:

A Pallanza ci imbarchiamo su un battello e raggiungiamo le Isole Borromee. Due di queste, San Giovanni e l’Isola dei Pescatori, sono povere e disadorne, abitate solo da pescatori […] In forte contrasto con questa idilliaca povertà è l’imponenza della Isola Bella che affiora a terrazze sull’acqua azzurra. I giardini che l’adornano sono ancora quelli fatti progettare nel XVII secolo dal conte Vitaliano Borromeo facendo dell’isoletta rocciosa un paradiso di fresche grotte e viali fioriti. La terra in cui furono piantati gli alberi era stata portata da centinaia di battelli ed ora dopo due secoli la vegetazione è impressionante e la aspra roccia è diventata un giardino [2].

Ma non erano da meno le ville; abbiamo visitato la Villa Taranto, i suoi scenari, le figurazioni di fantasia, celate in trasparenze d’acqua o nelle distese di fiori sacri alla mitologia egizia. Dalla romantica Valletta alla distesa delle eriche, dalle serre con la “Victoria cruziana [3]” ai viali di azalee, aceri, rododendri, camelie; dai giardini delle dalie ai mille colori delle fioriture autunnali, la villa ha regalato altrettante indimenticabili immagini della sua sempre rinnovata bellezza. Né il pavone bianco ha privato la visita dall’esibizione delle sue candide penne.

Il saggio che avevo portato all’attenzione dei soci, in quel 1982, non poteva esimermi dal parlare a volo d’uccello della bellezza dei luoghi e degli spunti storici del lago che ci ospitava, ma mi premeva mettere in evidenza il personaggio del quale mi ero maggiormente innamorato nell’esaminare - vivendo ormai nella patria d’elezione, Mentana, città garibaldina - un ‘irrequieto’ della seconda metà dell’Ottocento: Felice Cavallotti, l’uomo del Lago, cioè il frequentatore assiduo, lo spasimante delle bellezze del Lago Maggiore. La passione del Poeta per questo luogo traspare ancora in tanta parte delle sue poesie, passione legata certamente alla serenità che il paesaggio riusciva a infondere al suo animo inquieto; in quell'animo nel quale il senso di giustizia era spinto sino allo spasimo, la determinazione nella sua fede politica era quasi drammatica, il senso dell’onore ne affondava il culto nella filosofica vita del Signore di Bergerac (o di questo ne era la reincarnazione?).

Mi chiesi subito, avvicinandomi al Cavallotti, il motivo per il quale il poeta, nato a Milano, morto a Roma, avesse la sua tomba a Dagnente. Mi sembra motivo probante l’accostamento caratteriale fra il Nostro e il Lago Maggiore; e direi anzi che in nessun altro posto avrebbe potuto trovar sepoltura più degna la sua materia corruttibile se non sulle rive di questo lago. Si trattava infatti di due caratteri ugualmente “belli e turbolenti”, affascinanti nei momenti di quiete, terribili nelle ore dell’ira. Conosciamo il Cavallotti ma anche il nostro lago: quando s’adira, non è da meno! Aveva scritto del Lago Maggiore infatti il de Léris:

Ora è bello e sorridente e ad un tratto diventa cupo, nero, feroce. Una nuvolaglia che gli si addensi sopra, un po’ di vento che gli venga dai monti, e il lago, un momento prima tranquillo, s’irrita, fa spavento... [4].

E pure Charles de Brosses raccontò la sua esperienza:

A Sesto ci imbarcammo sul Lago Maggiore. Oh, di grazia! Fatemi giustizia di quel poveraccio di lago, lungo non più di venti leghe e d’altra parte assai stretto, che pensa di scimmiottare l’oceano e onde e tempeste. In verità io credo abbia fatto un patto col diavolo per procurarci una concessione di venti contrari. Non avevamo fatto cinque miglia sul lago che la tramontana si mise a soffiare come una disperata; ciò malgrado noi tenemmo duro per qualche tempo e superammo Angera a destra e a sinistra Arona, patria di S. Carlo Borromeo [5].

Lago irascibile e uomo irascibile, quindi: ed ecco perché le simpatie del nostro Poeta non potevano che essergli rivolte! E qui Cavallotti trascorreva gran parte delle sue vacanze: d’estate a Ghevio, in una fresca vallata, d’inverno a Mèina, in un bel villino che domina da cinquanta metri d’altezza il paese e il lago: la vista di lassù spazia da un lato sul Varesotto, dall’altro sino a Belgirate; e che sfondo di scenario le Alpi! Innamorato di questi luoghi, era naturale che avesse desiderio di affidare a queste zolle le sue stanche membra:

Addio del Lago ridente sponda / Che i verdi colli specchi nell’onda! / Qui dalle fresche brezze baciato, / Qui vorrei l’anima stanca posare!

Era irascibile il Cavallotti ma aveva pure delle abitudini salutari; aveva l’abitudine di fare la doccia tutte le mattine; e quando era a Roma si recava tutti i giorni allo stabilimento idroterapico in via dei Crociferi; ma né a Ghevio né a Meina esisteva lo stabilimento idrotermale e aveva quindi girato non poco, di balza in balza, per cercare l’occorrente per una buona ‘docciata’. Finalmente trovò una sorgente di acqua freschissima, un po’ più su del paese di Dagnente. Celiava il Fracassa:

Un paese che per solito dà-niente - non può dare meno di una docciata.

Qui tutte le mattine, piovesse o nevicasse, fossero stati dieci gradi sopra lo zero o sotto, il Poeta veniva, col suo fido Giovanni, il fittavolo che gli portava la biancheria, a prendere la doccia: restava tre minuti primi sotto la cascata, mentre Giovanni li contava scrupolosamente secondo i canoni dell’idroterapia. E non doveva essere davvero calda quell’acqua, se scriveva:

Scroscia, giù, scroscia! che bei ricami / T’han fatto intorno le stalattiti! / Ve’ di ghiaccioli che bei fogliami! / Or da Murano sembrano usciti!

Pure, l’acqua così gelida non gli toglieva il buon umore; sentite infatti l’invettiva contro la contadinella rimasta sbigottita nel vedere, con quel freddo, un uomo in abito adamitico sotto la cascata:

Oh! quella donna! Che fate là? / O la sfacciata! Tornate indietro!

Credeva fosse rimasta ammirata, il latin lover, e io presumo invece che avesse creduto di aver le traveggole, non potendosi dar conto di un uomo nudo sotto l’acqua gelida! Ma quel buon umore durò poco: il lenzuolo che gli porgeva il contadino, per avvilupparsi dopo la doccia, gli portava alla mente l’idea del sudario. L’idea della morte, in quel 1882, deve aver bussato all'animo suo, se, rivolto al fido Giovanni, esclamò:

Ecco, or fantasma somiglio bianco / Che vada errando per la montagna / [...] / Senti Giovanni! quando il lenzuolo / Simile a questo porrammi un dì, / In qualsia trovimi lontano suolo. / Dì, la mia bara la portin qui. / Qui in faccia al Lago, povero spettro, / Qui sopra il monte dormirò bene… [6]

E ora che il Poeta lì dorme secondo i suoi desideri, vive e gioisce e s’adira col suo lago; e voglio credere che quando le onde s'agitano e si schiantano spumeggianti sulle dolci coste, vogliano esprimere i suoi turbamenti o le sue irrefrenabili ire, suscitate da altri figli di quell’Italia che Egli bramò "una” e "giusta" e che purtroppo ancora “giusta” non è, e spesso sembra tanto meno "una".

Note
[1] I saggi presentati venivano poi editi nella rivista dell’AMSI, La serpe ma curiosamente il mio, pure se parzialmente, ebbe il privilegio della pubblicazione anche su un giornale locale: “Siamo lieti di pubblicare un ampio stralcio della relazione dal titolo “Felice Cavallotti: l’uomo del Lago” (“Il Nord”, giovedì 3 giugno 1982, p. 3) presentata al XXXI Congresso dell’Associazione Medici Scrittori Italiani dal dottor Salvatore G. Vicario di Mentana (Roma). Il dottor Vicario, medico specialista in ostetricia, è poeta e storico, occupandosi in particolare di Garibaldi e dell’età risorgimentale”.
[2] Edward von Paulus, Il Lago Maggiore, in Francesco M. Lanzi (a cura), La Lombardia, Editalia ed., Roma 1977, p. 195.
[3] È la più grande delle ninfee, con foglie che possono raggiungere i tre metri di diametro e gambi di 7–8 m di lunghezza.
[4] G. de Léris, Il Lago Maggiore, in Lanzi (a cura), La Lombardia, cit., p. 195.
[5] Charles de Brosses, Il Lago Maggiore, in Lanzi (a cura), La Lombardia, cit., p. 184.
[6] Felice Cavallotti, Alla doccia perenne di Dagnente.