Secondo il poeta greco Licofrone (IV secolo a.C.), la dea Teti, preoccupata per la sorte del figlio Achille, gli avrebbe affiancato un servo specificamente incaricato di ricordargli di stare alla larga da un certo Tenes, prediletto di Apollo; un oracolo aveva, infatti, predetto che il grande eroe sarebbe a sua volta caduto, se avesse tolto la vita a qualcuno della cerchia di Apollo. Pare che il nome del servo in questione fosse Mnemon (“Colui che ricorda”), il quale tuttavia dimenticò sorprendentemente di fare ciò che gli era stato ordinato, tanto che Achille finì con l'uccidere Tenes andando inesorabilmente incontro al suo destino. Pare anche che il termine mnemon si fosse poi trasformato nel titolo riservato ad altre figure di attendenti accostate a posteriori ad altrettanti celebri guerrieri dell'epos con l'identico compito, da tutti ugualmente disatteso, di rammentare loro l'evento chiave che secondo la tradizione ne aveva decretato la fine.

Indipendentemente dalle ragioni che spinsero tanti scrittori e commentatori di epoca tarda ad arricchire di simili dettagli alcuni tra i più famosi episodi del mito, l'aspetto che più di altri s'impone all'attenzione è l'indissolubile nesso causale da tutti stabilito tra il cedimento della memoria e l'inverarsi della morte, tra il venir meno dell'una e il prevalere dell'altra. La fallimentare missione dello mnemon di Achille compare anche negli scritti di Plutarco che nelle sue Quaestiones Greciae raccontò anche come presso gli Cnidi esistesse un'assemblea di sessanta uomini che venivano scelti tra i nobili e ai quali ci si rivolgeva come ad esperti consiglieri in relazione ai più importanti interrogativi della vita; essi erano curiosamente chiamati Amnemones (“Coloro che non ricordano”) perché, data l'enorme quantità di informazioni che quotidianamente transitava nelle loro menti, non erano ritenuti responsabili di alcunché nei confronti di nessuno.

Che la morte intrattenga un legame privilegiato con uno stato di non-memoria, risultò evidente sin dagli albori della cultura occidentale. Nell'immaginario omerico, il regno di Ade si presenta come un luogo oscuro e desolato, dove i trapassati ridotti a ombre incorporee si trascinano come fantasmi, indistinguibili nel grigiore della loro incoscienza, avvolti dal silenzio, tristemente immemori della loro vita precedente per quanto gloriosa potesse essere; dalla bocca di Achille escono strazianti parole di rimpianto per quell'esistenza terrena che egli tanto vorrebbe riavere e che, anche vissuta nei panni di un umile servitore, continuerebbe ad essere più desiderabile della condizione cui è per sempre condannato (Odissea, XI vv. 488-491). Fu, dunque, in risposta all'urgenza di innalzare barriere capaci di arginare il dilagare dell'oblio - che della morte è il parente più prossimo - che tante civiltà si consacrarono interamente alla memoria. Nel corso delle loro ricerche, i coniugi Assmann (illustre egittologo lui, altrettanto illustre linguista lei) riconobbero il nucleo antropologico di ogni forma di memoria culturale proprio nelle pratiche di commemorazione dei defunti, rintracciandone l'essenza nell'esplicitarsi di due differenti dinamiche: una subordinata a quel sentimento di devozione che consente a chi non è più di continuare a sussistere grazie a quanti ne fanno memoria e l'altra che, al contrario, si concretizza in una serie di strategie di auto-eternamento che chi è ancora in vita tenta costantemente di mettere in atto; senso della pietas e ricerca della fama, dovere religioso di ricordare e necessità tutta umana di farsi ricordare.

In Grecia a dare voce a tali istanze fu soprattutto la poesia che già a partire dalla sua espressione più antica e gloriosa, quella dell'epica, si costituì come autentico baluardo di eternità contro la minaccia della dimenticanza, attività quasi liturgica che sulla memoria tutta si modellava. Nella memoria era l'origine di ogni poetare. Iliade e Odissea si aprono con un'accorata invocazione alla Musa, una delle nove divine creature che fu poi Esiodo a denominare dichiarandole nate da Mnemosyne, da quella “Memoria” significativamente fatta dea nel tempo remoto della comunicazione orale, mai espressamente citata da Omero, eppure percepibile in ogni dove attraverso l'onnipresente azione delle sue figlie. Era al consolidamento della memoria che ogni esametro tendeva. All'interno dei due poemi l'attenzione riservata al compianto degli eroi caduti non è inferiore a quella dedicata alla celebrazione delle gesta di quelli ancora viventi; pietas e fama appunto, nell'intento di abbattere ogni separazione tra mondo dei morti e mondo dei vivi, di reintegrare la morte nella vita stessa, di alimentare ininterrottamente quel flusso del ricordo che solo può garantire dell'identità di ciascuno.

Ma la memoria era soprattutto lo strumento attraverso cui tutto questo poteva realizzarsi. Discepolo e interprete della Musa che ispirava in lui il canto suggerendone i temi, il poeta era chiamato a mettere in campo tutte le sue competenze per rinforzare le facoltà che gli consentissero di accogliere e di riprodurre il sapere trasmessogli dalla dea. In un'epoca nella quale non soltanto la ricezione, ma la composizione stessa di un'opera avvenivano in assenza di scrittura, gli apprendisti cantori erano probabilmente tenuti a sostenere un lungo percorso di iniziazione all'interno di vere e proprie confraternite di professionisti, al fine di trasformarsi in quei campioni dell'improvvisazione e insieme della memorizzazione di cui la tradizione ci ha lasciato testimonianza. Il bisogno di un'adeguata disciplina mnestica non venne meno neppure quando alla figura dell'aedo andò progressivamente sostituendosi quella del rapsodo, specialista della recitazione che, seppur sulla base di testi ormai fissati per iscritto, continuava a farsi mediatore di una fruizione delle cultura per lo più ancora fondata sull'ascolto. Fu poi con l'avvento della sofistica e il conseguente potenziarsi della retorica che la mnemotecnica si trasformò a tutti gli effetti in un'arte, in un insieme rigorosamente ordinato di norme e precetti passibili di venire regolarmente insegnati.

Impartita come quarta parte dell'eloquenza (dopo l'inventio, la dispositio, l'elocutio, e prima dell'actio), la memoria nel mondo romano si caratterizzò sempre più come topica, come scienza della spazializzazione che mirava ad organizzare in una sequenza ordinata di luoghi familiari e, dunque, al bisogno facilmente percorribili nel pensiero, i singoli contenuti mnemonici opportunamente trasformati in immagini. Patrono indiscusso di tale sapere fu Cicerone che nel De oratore (II 352-353) raccontò come il poeta Simonide, incaricato da un certo Scopa di deliziare i partecipanti ad un banchetto con un'ode in suo onore, avesse ricevuto solo la metà del compenso pattuito e fosse stato invitato a riscuotere il resto della somma dai Dioscuri (i gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus) che con gran disappunto di Scopa egli aveva eccessivamente elogiato. Poco dopo, a Simonide fu riferito che due giovani all'ingresso chiedevano insistentemente di lui. Una volta uscito, non trovò nessuno ad attenderlo, ma quella fu la sua salvezza, perché nel frattempo il tetto della casa era franato uccidendo tutti i commensali. Memore della posizione che ciascuno di loro aveva nella sala, egli contribuì in maniera determinante al riconoscimento dei cadaveri consentendo ai parenti di dare loro degna sepoltura.

Difficile dire per quale aspetto un simile aneddoto, che Cicerone citò espressamente quale atto di nascita della mnemotecnica, fosse più significativo. Se per la lucidità con la quale riconosceva nell'impellenza del ricordo l'unico possibile antidoto alla minacciosa catastrofe della finitezza umana o per la scelta stessa della figura di Simonide che con i suoi versi aveva saputo rendere immortali le imprese militari e atletiche di tanti uomini salvandole per sempre dalla cancellazione dell'oblio. Fatto sta che di Simonide Cicerone raccontò anche di come una volta avesse rischiato di fare naufragio con la nave su cui avrebbe dovuto imbarcarsi, se non avesse dato retta ad un sogno premonitore che lo metteva in guardia del pericolo; lo spirito che gli era apparso era quello di uno sconosciuto disteso morto a terra in cui Simonide si era tempo prima imbattuto per caso e che aveva provveduto a seppellire (De divinatione, I, XXVII, 56).

Pietas e fama, ancora una volta.