L’ospite è un gioiello posato sul cuscino dell’ospitalità.

(Rex Stout)

Entro in un ristorante. Non mi capita così spesso di accomodarmi senza premeditazione, attratto dalla semplicità inattesa di un fascino intangibile, carpito dagli occhi e dal cuore. Ricevo un’ottima accoglienza, il personale è attento ma non invadente, si respira un’aria pulita, di casa. Sulla mia tavola c’è una tovaglia candida e ben stirata, apparecchiata a dovere con delle posate lucenti, senza ombra alcuna. Un piatto bianco piano, di bella fattura, aspetta di accoglierne un altro fondo: il tutto è ordinato ma non asettico, si percepisce chiaramente la cura, non c’è neanche quel fastidioso “menage” con le bottigliette dell’olio e dell’aceto, spesso sporche e malcurate.

Il padrone di casa mi fa sentire un ospite gradito, dandomi l’importanza che merita ogni avventore: tutto è equilibrato, il cameriere porta l’acqua dentro una bottiglia pulitissima, porgendola con cura e aprendola davanti a me, mescendola nel bicchiere e posandola subito dopo sul tavolo. L’atmosfera è piacevole, mi sento bene, sono perfettamente a mio agio. Scelgo dalla carta (che sembra fresca di stampa tanto è tenuta bene, pare quasi l’abbiano preparata apposta per me al momento).

Il cameriere mi lascia leggere tranquillamente e poi si avvicina per consigliarmi: conosce bene la cucina e gli ingredienti delle ricette, è abile nel suggerirmi alcune pietanze, ma senza mai impormi nulla, perché è un vero professionista che ha studiato prima di praticare il suo mestiere, il servizio (anch’esso un’arte!), difficile da esercitare a dovere.

Ordino un antipasto semplice (non mi interessa tanto mangiare gourmet, quanto ricevere in tavola cibi genuini) e, mentre aspetto, arriva un grazioso cestino di pane fragrante: da come è tagliato e posizionato si evince che è stato preparato con cura. Dopo che ho finito, mi portano il primo che ho chiesto, fumante nel suo piatto caldo: eccellente! Il pranzo va avanti così fino al dessert, tutto depone a favore di un locale in cui si cucina con gran senso etico, dove si trattano i clienti con molto rispetto: non fa niente se c’è un po’ di sale in più o in meno nella ricetta, è importante invece che sia stato preparato con cura, con ingredienti freschi (e lo si capisce subito dal sapore). Bene, sono proprio soddisfatto, non succede ogni giorno di ricevere un simile trattamento in un ristorante nel quale ci si è seduti per caso.

Perché ho raccontato tutto questo? Per evidenziare non solo l’impronta che un’esperienza di servizio nella ristorazione può lasciare impressa nella mente a distanza di oltre un decennio, ma anche la trasformazione di questo modus operandi in un mestiere ormai quasi in via d’estinzione, dovendosi far spazio in maniera sempre più differente passando attraverso il cunicolo della cucina veloce e delle emozioni gastronomiche istantanee.

Quando penso all’accoglienza “a pagamento” in un’attività commerciale, che si tratti di un bar o di un ristorante, la immagino così come l’ho espressa, sognando ancora di vederle prendere vita dagli sguardi vividi, dalle attenzioni utili e dall’efficiente discrezione della componente umana, dalla proprietà alla forza lavoro, capace da una parte di servire ad arte, dall’altra di portare in tavola piatti preparati sempre a dovere. Perché sempre meno spazio è lasciato nel mondo della cucina all’improvvisazione, alla creatività, o a pietanze antiche con la pretesa di suscitare in chi li assaggia le stesse emozioni di un tempo: la dea (non proprio bendata) di una ristorazione di successo è la continuità, l’impegno giornaliero nel trattare i clienti come autentici ospiti, evitando di assumere atteggiamenti di serie B, mantenendo sempre alto il proprio profilo di serie A: che in sala vi sia uno solo cliente o ve ne siano cinquanta, che si tratti di un pasto economico consumato in un uggioso lunedì o del cenone della vigilia di Natale, che si tratti di uno scontrino da cinque euro piuttosto che di uno da trecento…l’ospitalità, quella vera, non ha etichetta.

La ricetta di Fabio Campoli

Calamarata velata al curry e pecorino con gamberoni e funghi chiodini

Ingredienti per 4 persone
Pasta tipo calamarata, 400 g
Funghi chiodini, 150 g
Aglio, 1 spicchio
Brodo di pesce, 300 ml
Gamberoni sgusciati, 350 g
Pecorino romano grattugiato, 60 g
Curry, ½ cucchiaino
Pepe nero, q.b.
Sale, q.b.
Olio extravergine d’oliva, q.b.

Procedimento
Pulite i funghi, lavateli e asciugateli delicatamente, poi riponeteli in una padella con un filo d’olio extravergine e lo spicchio d’aglio in camicia schiacciato al coltello, e cuoceteli velocemente. Tagliate i gamberoni a pezzi; poi conditeli in una ciotola con sale, pepe e un filo d’olio. Mettete a cuocere la pasta in abbondante acqua bollente, non eccessivamente salata. In una casseruola capiente mettete il brodo di pesce e fate prendere il bollore. Scolate la calamarata piuttosto al dente e trasferitela nella casseruola con il brodo di pesce, quindi aggiungete i gamberoni e i funghi precotti, coprite con un coperchio e lasciate cuocere fin quando il brodo si sarà del tutto asciugato. Nel frattempo, in una ciotola riunite il pecorino grattugiato, il pepe e il curry e mescolate. Quando la pasta sarà pronta, spegnete la fiamma, cospargetela con il pecorino precedentemente preparato e coprite nuovamente per un minuto; in questo modo il pecorino si reidraterà con il vapore, disciogliendosi naturalmente sulla superficie della pasta. Infine, scoprite e saltate la pasta per amalgamare bene il pecorino. Servite in piatti fondi ben caldi.