Il Natale mi riporta sempre all’infanzia ma questo, il “novantesimo” festeggiato con la nascita della mia forse ultima monografia [1], a me ricorda il primo giorno di scuola. Quel mattino tintinnò a ddiana: con questo termine si intendeva la campanella che suonava mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni nelle scuole elementari del paese [2]; poi, nel costume locale, la parola rimase come soprannome – a ‘nciùria - alla bidella, addetta pure a quella incombenza: a gnura Rrusulia a ddiana.

L’edificio scolastico era al tempo nel palazzetto Parisi-Giallanza, all’ingresso del paese, lato Longi, oggi sede della Fondazione Sebastiano Crimi [3], all’epoca della mia infanzia dato in fitto come edificio scolastico. Con la cartella di cartone compratami da mamma, contenente il sillabario, un ‘quaderno a righe da prima elementare’, un altro a quadretti e un lapis [4], mi misi seduto per la prima volta su un banco di scuola: quanti anni, poi, dovetti restare a scaldarli, mentre avrei preferito cercare nidi per i campi o giocare a mmucciatedda.

All’inizio tutto andò bene; poi venne il freddo e la neve e nelle aule si stava veramente male. Il riscaldamento, in quel mio ancora oggi amato paese a 850 metri s.l.m., consisteva in un unico braciere, uno per aula, posto nell’apposito vano della cattedra, al calore del quale ricorrevamo, ma non molto spesso, quando le dita non riuscivano più a stringere la matita.

Per fortuna c’era il maestro, don Mario Sava [5], dalle spalle poderose e dai baffi altrettanto poderosi, che ogni tanto “ci scaldava”. Il metodo era originale e mi meraviglio che non avesse mai pensato a brevettarlo. Accanto alla cattedra aveva quattro dritte verghe di nocciolo, di misura variabile, che arrivavano ciascuna ad una fila dei banchi, dalla prima all’ultima. Guai a distrarsi! Solo stando attenti si riusciva a schivare la ‘carezza’, che altrimenti sarebbe arrivata sul cranio, precisa e non indolore.

Ovviamente tutti avevamo a nostre spese compreso che la verga poteva colpire solo sopra il livello del banco, mentre sotto lo scrittoio la sua arma era neutralizzata. A questa tecnica ricorrevamo spesso. Ma la sua inventiva non temeva le nostre piccole astuzie e un giorno aggiunse all’armamentario un altro pezzo: [u puntaloru], il punteruolo! Quando ci immergevamo, egli ci pungeva da sotto con la verga apposita sino a farci tirar su la testa, indi la tecnica tornava quella originale. Pensare: tutto questo senza spostarsi dalla cattedra! Veramente geniale...

Ma in fondo era un bonaccione e mi voleva bene, forse anche per rispetto a mio padre e fingeva di credermi quando gli chiedevo di uscire, perché avevo i rrini lenti. Le stesse gentilezze non le riceveva u Gek murtusariu, un compagno di scuola che sedeva in uno degli ultimi banchi e che un giorno ne ebbe rotte tre di verghe sulla groppa. Ad un certo punto della ‘lezione educativa’, per non perdere tempo, il maestro adoperava tutte e due le mani, una verga per parte. Povero Gek! Non ho mai saputo perché lo si chiamasse con quel nome americaneggiante. Il “soprannome” invece, il suo, come quello di tutti, aveva una sua logica spiegazione. In origine le famiglie che formavano la forza lavorativa del paese erano poche: vi erano il Principe e i Baroni, certo, con le loro corti. Ma erano i servi della gleba a fare massa e per tanti secoli il paese, appollaiato com’è sull’ultimo bastione dei Nèbrodi e senza una strada di facile accesso [6], non subì che pochi inquinamenti immigratori. I molto rari nuovi arrivati, dalla comunità locale venivano soprannominati con il ricordo del loro paese d’origine: u mirtotu, u casalotu, u luncitanu, u calabbrisi, u carrapipanu, u turturicianu

Sino agli anni Trenta del secolo XX, bisogna pur dire, l’unico mezzo per accedere al paese era il quadrupede o l’autoscarpa: si scendeva in marina lungo il costone sino alla contrada “Paratore” e quindi lungo il greto del fiume sino a Zappulla ove c’era sempre un treno “accelerato” disposto ad accogliere il viandante. La posizione del paese comunque è amena: visto da Trungale, Galati sembra un’aquila accosciata con le ali dispiegate. Boschi di pino a perdita d’occhio coprono le sue alture, a monte, mentre verso la vallata il verde diviene più domestico (ulivi, vigne, gelsi, castagni).

Ora, dicevo, questo splendido isolamento ha contribuito in modo essenziale alla salvaguardia della stirpe; i matrimoni, anche se sembravano fra soggetti con nomi e cognomi diversi, in realtà frammenti di DNA parentali più o meno lontani, non potevano non incontrarsi e a volte scontrarsi. Le conseguenze furono nel tempo quelle clinicamente prevedibili. Da una parte la notevole presenza di mini-tare cromosomiche portò quasi tutta la patologia psichiatrica ad essere presente, sì da far dire a Carmelo Jannì, mio compagno di giochi prima e vice-sindaco quasi a vita poi, che sarebbe stato necessario recingere l’abitato con mura medievali e sull’unica porta d’accesso scrivere “Manicomio”. Dall’altra il moltiplicarsi all’infinito degli stessi cognomi: se aggiungiamo a questo l’uso di dar sempre gli stessi nomi ai neonati (Giuseppe, Salvatore, Antonio, Giacomo, Maria, Concetta...), il gioco era fatto. Si trovavano - e si trovano - a convivere nello stesso paese dieci o venti persone con lo stesso nome e cognome.

Mi viene a proposito in mente qui una curiosità di “raffinata” burocrazia. Nel 1954, posto in congedo dal servizio di leva, completato da ufficiale medico ed espletato in una caserma romana, nella liquidazione finale l’addetto alla contabilità errò, accreditandomi ben 25 lire in più del dovuto. Il mio ‘Vicario Salvatore’ nell’elenco telefonico romano era ripetuto per ben sei volte: fu così che i miei omonimi si videro recapitare una lettera-raccomandata al fine di recuperare il malloppo. Ma quei sei erano tre falegnami, un impresario edile e due ristoratori: si chiamarono al telefono e ciascuno riferì di avere ricevuto l’ingiunzione. Il più colto, l’impresario, per tutti, si presentò con la lettera in mano al Distretto militare e sentendosi dare del “dottore”, capì l’equivoco: specificò che con quel nome e cognome ma preceduto da quel titolo di studio ve ne era uno a Mentana, alle porte di Roma e ne fornì l’indirizzo. Ancora una raccomandata consentì il recupero alle casse dello Stato italiano di ben lire 25. Quanto erano costate tutte quelle raccomandate?

In alcuni paesi della Sicilia, ove ogni comune aveva problemi simili, si era ovviato acquisendo, accanto al cognome, a ‘nciuria, poiché in genere si trattava di un “difetto” singolo o della schiatta. Queste erano - e sono - delle più colorite: qualche esempio è di prammatica: u ‘ntiu, u ‘ntau, u ttic tta, u ‘mprenazzucca, u paureddu, u peddiniura, u musulinu, u sipiu, u prisidenti, u mannacitu, u pani e piciuni, u bonfigghiu, u bonsurdatu, a setticannola, u scattiolu, l’anchi ’i merra, u stagnu ...

Piccolo mondo, millenni testimoni di un’evoluzione lenta e stabilizzata divenuta storia, volatilizzata in quest’ultimo settantennio, convulso e tuttavia meraviglioso.

Note:
[1] Colle del Forno. Una necropoli tutta maschile, Bonanno ed, Roma 2017.
[2] Giangiacomo Martines, Galati Mamertino, “Storia dell’arte italiana”, Inchieste sui centri minori, vol. 8, Einaudi, Torino 1980, pp. 365-404.
[3] Sebastiano Crimi nacque a Galati Mamertino (ME) il 31 Ottobre del 1928 da una famiglia di farmacisti/speziali cresciuta all’ombra di un antenato eroe risorgimentale: l’Abate Giovanni Crimi. Sebastiano, insieme con i suoi fratelli Rocco e i gemelli Peppino e Paolo, passò la sua prima giovinezza dietro un bancone di farmacia aiutando la madre e lo zio nella preparazione di “cartine” e sciroppi. La ricerca, lo studio e la storia della ‘Farmacia in Sicilia’ sono gli obiettivi della ‘Fondazione Sebastiano Crimi’, creata dai figli, grati al padre, e localizzata nel palazzetto che era stato la casa della loro infanzia. Con Rocco fummo compagni inseparabili e confidenti negli anni della nostra giovinezza; questa però per lui durò poco e per me fu il primo grande trauma della vita: universitario a Bari, quando ancora non era iniziata l’era antibiotica, contrasse una infezione tifoide che lo portò via.
[4] La penna e il calamaio erano dotazione scolastica del banco: al mattino la bidella provvedeva a mettere una penna nella scanalatura dello scrittoio e a riempire di inchiostro il calamaio.
[5] Il don in Sicilia non indica il prete ma era - e resta nell’uso comune, pure se poi si è esteso alla borghesia - un titolo nobiliare. Il maestro Sava adoperava il sistema educativo del tempo, che poi era stato da sempre usato nell’antichità, quello della punizione corporale: era prassi comune.
[6] La strada carrozzabile, solo dal lato Tortorici, collegò il paese alla viabilità nazionale nel 1937. Pensarono le truppe tedesche in ritirata nel 1943 a demolire un ponte di alta architettura all’uscita di Tortorici: il paese tornò al quadrupede ancora per circa tre lustri.