Sul grande tavolo con la spianata di marmo, si compiva il sacro rito della sfoglia, che, come ogni rito degno di questo nome, si ripeteva sempre uguale a se stesso.

Persino le parole che aleggiavano attorno alla sfoglia venivano pronunciate secondo una sorta di copione: il colore delle uova era uno dei temi ricorrenti. Se alla rottura dei gusci apparivano gialle si percepiva immediatamente la soddisfazione, direi quasi una lieve e non sempre celata felicità: la sfoglia sarebbe “venuta bene”, la pasta sarebbe stata bella.

Pareva quasi un dono celeste tanto che mia nonna guardando i bei tuorli giallo oro pronunciava sempre la frase “Grazie a Dio sono gialle” che suonava come una preghiera di gratitudine. Quando invece si rivelavano pallide ecco che una rassegnata insoddisfazione, lo sconforto pervadevano tutta la cucina: un capriccio del destino al quale ci si doveva sottomettere senza possibilità alcuna di aggiustare le cose.

Quando ciò accadeva veniva sempre citata l’ormai leggendaria e quasi eretica storia di quella bisnonna Teodolinda, madre di mia nonna, che pare aggiungesse un po’ di zafferano alla sfoglia per averla sempre bella dorata, pronta da offrire ai convitati del suo famoso “Ristorante del Teatro”.

“Bisognerebbe fare come la Teodolinda” diceva allora mia nonna chiamandola confidenzialmente per nome, ma era come ricordare un peccato che non era più consentito commettere.

Se il colore delle uova dipendeva dalla fortuna, impastare e tirare la sfoglia era invece un’arte affidata unicamente all’abilità dell’arzdora [1] e in quest’arte mia nonna era maestra. Dodici, sedici e finanche venti uova potevano essere aperte e fatte cadere con assoluta padronanza dentro la montagna di “fiore”, la candida farina di prima qualità preparata con cura sull’asse di legno che serviva per impastare e poi tagliare la sfoglia.

Con mano lieve ma decisa e ritmici tocchi di forchetta mischiava gli ingredienti fino ad ottenere l’impasto. L’abilità stava nel non far debordare le uova dal cumulo di farina e questo richiedeva grande velocità e attenzione totale. Ricordo che questa fase della preparazione si svolgeva in un silenzio sospeso, subito interrotto da considerazioni sulla consistenza ottenuta una volta che l’amalgama era stato compiuto.

Adesso la sfoglia era pronta per essere “lavorata”: le mani e i polsi si muovevano in armonia con tutto il corpo in una gestualità che, come accadeva negli antichi misteri, non può essere detta. Solo chi è ammesso al rito, l’iniziato, può sapere che cosa accade veramente e certo quello dell’impasto è un grande mistero, una cerimonia di creazione e trasformazione della materia, l’esito di una segreta alchimia.

Una volta raggiunta la giusta consistenza la sfoglia veniva fatta riposare per una mezz’ora così da prepararla alla seconda fase altrettanto importante ed impegnativa: la tiratura. L’impasto veniva messo sotto una terrina bianca ed anche in questo caso ce n’era una apposita che si usava solo per quella funzione. Aveva delle lievi incrinature quasi fosse segnata dalle rughe dell’età, ma veniva conservata con grande cura, proprio come uno strumento rituale, perché lì, sotto la sua protezione, la sfoglia raggiungeva la necessaria elasticità.

Quanto più la sfoglia era grande tanto maggiore era l’abilità richiesta per “tirarla” sottile ed uniforme. C’era chi la divideva in due parti per riuscire a lavorarla con più facilità, ma per la nonna era un punto d’onore riuscire a far scorrere il matterello sulla spianata di legno, ben ripulita dai residui dell’impasto, fino ad ottenere una sorta di lenzuolo, sottile come una tovaglia di lino e senza nessuna trasparenza che avrebbe indicato una non perfetta tenuta della pasta.

Osservavo sempre con meraviglia come quel grumo giallo si trasformasse pian piano in quel grande e duttile tessuto sul quale il matterello veniva fatto scivolare mentre le mani lo percorrevano in una danza di movenze tutte femminili che alternavano forza e leggerezza. E bisognava anche procedere con rapidità perché la sfoglia non doveva asciugare troppo altrimenti non avrebbe potuto essere tagliata nelle più diverse fogge.

Si trattava di un’abilità acquisita attraverso la memoria, trasmessa di madre in figlia, un’abilità coltivata con cura fin da bambine. Del resto quella dell’impasto è un’arte antica profondamente legata alla gestualità femminile.

Già gli Etruschi nel IV secolo a.C. conoscevano la sfoglia: negli affreschi di una tomba nella Necropoli di Cerveteri si vedono figure e attrezzi per impastare simili a quelli odierni. Nell’Egitto faraonico ogni squadra di operai impegnata nelle grandi opere della Valle dei Re riceveva, accanto al salario individuale, alcune schiave per fare la farina, impastare, tirare la sfoglia e preparare le focacce.

Un antenato della pasta ripiena viene menzionato dal commediografo greco Aristofane che, nel V secolo a.C., parla di un piccolo sacco di sfoglia che racchiude altro cibo. I Romani riceveranno anche l’arte della sfoglia, come molte altre abitudini alimentari, dai Greci grazie soprattutto al tramite delle città meridionali. Orazio nelle Satire parla di una zuppa di porri e ceci con strisce di pasta chiamate lagana, le antenate delle lasagne.

Catone nel suo trattato Sull’agricoltura del II secolo a.C. consiglia alla massaia di impastare bene la sfoglia, di pigiarla con le mani, di spianarla e lisciarla per poi farla asciugare su un graticcio. Il ricco Trimalcione, nel Satyricon di Petronio, fa servire durante il suo pretenzioso banchetto, una sfoglia a strati condita con il gaurum, una salsa di pesce fermentato mista a spezie. Apicio, famosissimo gastronomo della Roma imperiale, autore del più antico ricettario dal titolo De re coquinaria, parla dell’artolaganus, una sorta di piadina romagnola composta di farina, vino, latte, olio, grasso e pepe che, dopo essere stata spianata, veniva cotta rapidamente su una piastra rovente.

Questa liscia e vellutata pelle dal grande passato era indispensabile per accogliere il corpo dolce e speziato che costituiva il ripieno dei cappellacci di zucca la cui preparazione celebrava ogni anno il giorno dedicato a san Martino, l’11 di Novembre.

Erano i primi della stagione e inauguravano l’assaggio della scorta di zucche “violine” acquistate in estate e conservate in un luogo asciutto della casa, solitamente il granaio-dispensa, nel quale si teneva continuamente sotto controllo lo stato di maturazione.

Le ragioni di questo rituale culinario che, implacabilmente, come una legge di natura, accompagnava questa ricorrenza si perdevano nella notte dei secoli e le domande rivolte in proposito alle donne della famiglia ricevevano la stessa, sbrigativa risposta: “è sempre stato così”; il che presupponeva l’esistenza di un “prima” ancestrale sul quale non era dato interloquire. Nel menù non mancavano le prime castagne e il vino nuovo.

Se la sfoglia costituiva l’indispensabile, prezioso contenitore era la zucca che offriva il suo antico lignaggio per far da contenuto a quei prelibati tortelli che avevano avuto la loro consacrazione sulle sontuose tavole della Corte di Ferrara pur se con una primogenitura disputata in singolar tenzone con i Duchi di Mantova.

L’amalgama di zucca cotta al forno, grana stagionato e noce moscata dentro la pasta sfoglia rimanda infatti a quel connubio tra dolce e salato così gradito al gusto rinascimentale. Giovan Battista Rossetti, scalco alla Corte di Alfonso II d’Este, espertissimo “ad ordinare banchetti all’italiana e all’alemanna” dedica ai “tortelli di zucca con butirro” un intero capitolo del suo trattato Sullo scalco edito nel 1584.

La via delle spezie aperta dalle scoperte geografiche aveva portato nuovi ingredienti e stimolato la creatività dei cuochi che, come l’uomo del Rinascimento, erano desiderosi di novità e invenzioni. Ecco allora che nei tortelli proposti nel Trattato troviamo, oltre alla noce moscata, anche zenzero e cannella per stuzzicare i palati aristocratici con gusti esotici, curiosi e pungenti.

I cappellacci di zucca sono protagonisti indiscussi dei banchetti estensi nei quali i convitati sono al tempo stesso attori e spettatori di un evento teatrale che permette al Signore di dimostrare il proprio potere e la propria ricchezza. La presentazione dei cibi era una vera e propria messa in scena e lo scalco doveva anche tener conto delle disposizioni mediche e culturali che importanti studiosi e uomini di scienza inviavano ai prìncipi per armonizzare i cibi con la natura di chi li consumava. Dell’equilibrio fra “iocundo vivere” e sano mangiare alla Corte Estense si occupava Giovanni Michele Savonarola, dottore illustre dell’Università di Padova.

In questa atmosfera di Corte non stupirebbe che la forma del cappellaccio di zucca fosse davvero un rimando al cappello del Duca. Non esiste una documentazione storica che lo comprovi, ma, con quelle affettuose licenze che il lontano passato concede, non sembra impossibile immaginare un omaggio dello scalco al proprio committente in una sorta di gioco scherzoso che si inseriva nella ricerca continua di originali diversivi per “schifar la noia”.

Antica è la storia della sfoglia, ma sono nobili i natali della zucca: è davvero un incontro fra due regine quello che dà vita ai cappellacci. Ripiena di molti semi, fu considerata sin dall’antichità, in Occidente come in Oriente, un simbolo di fecondità e di rinascita, di prosperità e abbondanza. Alfredo Cattabiani nel suo Erbario la pone tra le piante “che contengono sublimi misteri” .

La velocità con cui cresce e le dimensioni che può raggiungere in breve tempo l’hanno associata ad una sorta di magia che trova la sua espressione più famosa nella favola di Cenerentola. Svuotata e trasformata in una splendida carrozza dalla bacchetta della fata, è l’allegoria del passaggio ad una nuova condizione di vita: dall’oscurità alla luce, dalla tristezza alla felicità.

Il valore simbolico della trasformazione e della rinascita si ritrova anche nelle zucche che oggi caratterizzano la festa di Halloween che si celebra nella notte fra il 31 di ottobre e l’1 di novembre. Questa è in realtà la data che fra i Celti segnava il capodanno ossia il passaggio per eccellenza da una vecchia ad una nuova condizione.

I Cinesi la chiamavano “l’imperatore dei vegetali” tanto che il loro antenato mitico anziché sull’arca come Noè si salvò dal diluvio grazie ad una zucca.

Il legame della zucca con i miti della fertilità è presente in India nella storia della regina Sumati alla quale erano stati promessi sessantamila figli che davvero uscirono dalla zucca che lei aveva partorito. In tutto l’Estremo Oriente fioriscono miti riguardanti la zucca primordiale che contiene tutte le popolazioni e i testi sacri.

Ateneo, grammatico e sofista del III secolo d.C. riferisce che nella città greca di Sicione si adorava una Dea delle zucche il cui nome era associato alla Luna, la Grande Madre, e ancora una volta ritorna il legame con la fecondità, l’abbondanza e la buona salute. La zucca è fonte di vita e nutrimento d’immortalità, simbolo di rigenerazione come la melagrana di Persefone.

Pare che Maria Antonietta di Francia spruzzasse i suoi abiti di raso bianco con polvere di zucca per farli risplendere come oro.

Le svariate sfumature dei suoi splendidi colori ne hanno fatto una protagonista dell’arte: immancabile presenza nelle rappresentazioni di nature morte e tavole apparecchiate, amata dai pittori fiamminghi, spagnoli, francesi, viene considerata dal Tiepolo “il più bel frutto da vedere e da assaggiare”.

Davvero una Divina Signora che non disdegnava un ruolo più popolare: aveva infatti i suoi venditori ambulanti che la proponevano cotta al forno, tagliata a pezzi su padelle di zinco o alluminio. In una delle tante lettere scritte al fratello da Parigi, Giovanni Boldini ripensa con nostalgia alle fette di zucca vendute per strada e si informa se ancora esistano nella sua Ferrara questi venditori dei quali ricorda la voce.

Le rotelle di zucca fritte erano spesso di accompagnamento a cibi salati o venivano spolverate di zucchero per improvvisare un economico dessert.

Sono molte le espressioni che prendono a prestito la zucca per farne sinonimo della testa umana come nella filastrocca che faceva da preludio alla conta nei giochi dei bimbi

Zucca pelata dai sette capelli
Tutta la notte ti cantano i grilli
I grilli cantano la serenata
Zucca pelata zucca pelata

E anche la poesia di Gabriele D’Annunzio è toccata da questa somiglianza

Sulle tegole brune riposano
Zucche gialle e verdastre,
sembianti a de’ crani pelati
e sbadiglian da qualche fessura
uno stupido riso al meriggio

Modi di dire quali “aver sale in zucca” rimandano all’usanza delle famiglie d’un tempo di conservare il sale nelle zucche svuotate.

A lei è dedicato un curioso libello intitolato appunto La zucca, dato alle stampe alla metà del Cinquecento ad opera di Anton Francesco Doni nel quale si trovano originali riferimenti agli usi linguistici in cui la zucca si fa metafora di “chiacchiere, cicalamenti, chimere, gofferie, arguzie, filastrocche, castelli in aria, aggiramenti e lambiccamenti del cervello”

Con una tale ricchezza di storia alle spalle vale la pena cimentarsi nella realizzazione del nobile piatto che festeggia San Martino e allora ecco la ricetta accuratamente trascritta dal quaderno appartenuto a mia mamma ed a mia nonna prima di lei: un invito a gustare i cappellacci sentendosi partecipi di un lunga, lunghissima storia.

Ingredienti per il ripieno
Zucca “violina” cotta al forno, parmigiano reggiano, noce moscata, pan grattato alla bisogna.

Preparazione
Tagliare a metà nel senso della lunghezza una zucca matura, mondarla di semi e filamenti e cuocerla al forno il tempo necessario. Lasciarla raffreddare. Togliere la polpa con un cucchiaio e, in una terrina, mescolarla con il parmigiano e un grattato di noce moscata. Lavorare fino ad ottenere un impasto morbido ma ben sodo. Se dovesse risultare troppo umido aggiungere un po’ di pan grattato per asciugarlo. Lasciare riposare il ripieno per almeno un’ora, poi posarlo sui riquadri di sfoglia e procedere alla chiusura in forma di cappellaccio.

Se non si è vegetariani si condiscono con un ragù molto sostanzioso fatto di carni miste come vuole la tradizione, ma sono ottimi anche con il burro fuso e le foglie di salvia.

A cura di Save the Words®

[1] Troppo riduttivo sarebbe tradurre questo termine con ‘massaia’: è piuttosto colei che amministra e si prende cura delle cose di famiglia.