Ogni volta che parliamo di estetica, diciamoci la verità, utilizziamo questo termine per indicare qualcosa di superficiale, di frivolo, di futile. L'apparenza in netto contrasto con l'essenza. Forma, essenzialmente senza sostanza. La nostra contemporaneità ci ha veicolato questo messaggio.

Non era così, per esempio, per gli antichi. L'ideale greco era infatti “bello e buono” (kalòs kai agathòs). Etica ed estetica erano sullo stesso piano, avevano lo stesso valore, erano la base della virtù, addirittura della filosofia. “L'uomo che, almeno una volta nella vita, non ha sentito dentro di sé la pura, piena bellezza, quando le forze del suo essere si intrecciavano l'un l'altra come i colori dell'iride, che non ha mai conosciuto come solo nelle ore dell'entusiasmo tutto si accordi intimamente, quell'uomo non diventerà mai un uomo che dubita filosoficamente, il suo spirito non è fatto per demolire, e tanto meno per costruire. Perché, credetemi, chi dubita trova contraddizioni e difetti in tutto quello che è stato pensato solo perché egli conosce l'armonia della bellezza compiuta che non è mai pensata” (Johann Christian Friedrich Holderlin, Iperione).

Non è un caso che il termine etica sia compreso nella parola est-etica. È quindi la nostra cultura, così abituata a dividere, che ci fa percepire una scissione, un'esclusione anche laddove ci sarebbe un'armonia, un'unione. E questo è un momento particolare della storia dell'uomo dove, soprattutto in Occidente, il bello, la bellezza è ovunque. «Oggi il mondo è straordinariamente bello. Sono belli i prodotti confezionati, i vestiti di marca con i loro loghi stilizzati, i corpi palestrati, ricostruiti e ringiovaniti dalla chirurgia plastica, i visi truccati, le rughe stirate, i piercing e i tatuaggi, l’ambiente naturale protetto, gli interni arredati con le creazioni del design, gli equipaggiamenti militari ispirati al cubo futurismo, le uniformi dallo stile costruttivista o ninja, le pietanze con decorazioni artistiche, o più semplicemente confezionate nei supermercati con buste colorate, come i leccalecca. Persino i cadaveri possono essere belli se accuratamente imballati con fodere di plastica e ben allineati ai piedi delle ambulanze. Se una cosa non è bella, bisogna cercare di renderla tale. La bellezza regna. È diventata un imperativo: o sei bello oppure, almeno, risparmiaci la tua bruttezza» (Yves Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica).

Premesso tutto ciò, credo che la pratica artistica di Alessandro Moreschini sia a tale proposito piuttosto emblematica. Classe '66, Moreschini raggiunge una notorietà nazionale grazie all'interesse del critico Renato Barilli che nel 1997 lo invita a partecipare a Officina Italia e poi a seguire lo sostiene e lo propone in molte altre occasioni, la più recente nel 2016/17 in Bologna Dopo Morandi, 1945-2015. Probabilmente a livello internazionale la notorietà quantomeno nell'ambito degli addetti al lavoro del settore, la raggiunge partecipando nel 2003 alla sesta edizione della Sharjah Biennial, negli Emirati Arabi, invitato da Hoor Al-Qasimi e Peter Lewis.

Le opere di Alessandro Moreschini sono espressione di una straordinaria vivacità creativa che mediante minuziosi pattern decorativi ricopre la superficie di tele ma anche di oggetti, uscendo quindi fuori dalla bidimensionalità tipica della pittura per diventare tridimensionale, per diventare oggetto, per certi aspetti vita quotidiana. Il virtuosismo di Moreschini gli permette di rivaleggiare con le possibilità offerte dal computer, dalla tecnologia. I suoi preziosi pattern ricoprono le superfici di oggetti trovati come pneumatici di auto, mobilio o chiavi inglesi, rivitalizzandoli, conferendogli una valenza spirituale ed estetica, trasformandoli in opere d'arte, quindi al di là del tempo e dello spazio. Non dimentichiamoci infatti che la bellezza ci fa sentire più vicini a Dio, ci fa meditare, ci rende riflessivi.

L'uso di texture vicine alla tradizione medio-orientale sono un'apertura al dialogo tra popoli e culture, alla contaminazione di saperi e storie differenti, all'essere così e anche altrimenti, al mettere in discussione le regole del canone artistico occidentale, al mettere in discussione noi stessi. Ecco forse non ce ne accorgiamo ma la bellezza stimola questo nostro interrogarci, la meditazione, la riflessione. Il bello non necessariamente deve essere vuoto. L'estetica non necessariamente deve essere priva di etica. È tutto sempre più complesso di quello che appare. Semplificare significa perdere qualcosa, perdere forse un aspetto che concorre a pieno titolo alla complessità del tutto.