Per qualche anno ho suonato la chitarra in una band heavy metal. Mi ero appassionato al genere intorno ai quindici sedici anni. Passavo gran parte del tempo in camera mia, a studiare il modo di suonare il maggior numero di note possibile. Sempre più veloce. Arpeggi e scale a centottanta duecento battiti di metronomo. A venticinque anni ho messo su una band. Abbiamo inciso un disco. Un bel disco originale, e l’abbiamo portato in giro per un po’.

Una sera abbiamo suonato a un compleanno. Non avevo idea di chi fosse il festeggiato o la festeggiata. Era inverno. Faceva un freddo da battere i denti anche in casa. Caricare gli strumenti sul furgone era stato molto doloroso. Le dita quasi si congelavano sulle maniglie delle custodie e delle casse. Il pensiero di potersele schiacciare inavvertitamente, così congelate, aumentava i brividi lungo la schiena. Il posto faceva schifo. Era un buco claustrofobico al terzo piano di un vecchio palazzo. L’unica finestra si apriva su un balcone che dava dritto sulla via Emilia. Il palco era costituito da cinque o sei bancali di legno uniti tra loro e rivestiti da un tappeto. Una volta montata la batteria, non c’era quasi più spazio. La stanza era cucita di tavolini per il buffet. C’era un sacco di gente. L’acustica era terribile. E tutta la gente ammassata complicava le cose. Ma avevamo suonato molto bene. I nostri brani originali piacevano. Intorno a metà concerto ho cominciato a farmi portare una birra media dopo ogni pezzo. E mentre il cantante diceva le sue stupidaggini e salutava qualcuno, io scolavo il bicchiere. Un gran bel concerto.

Quando sono sceso dal palco ero sbronzo e sudato fradicio. Avevo una gran voglia di fumare. Sul balcone non c’era nessuno. Mi sono seduto per terra appoggiando la schiena al parapetto metallico ricoperto da un sottile strato di ghiaccio. Ho chiuso gli occhi e fatto un paio di tirate, aspirando profondamente. Mi sentivo come protetto da una bolla. Protetto da quella gente, dalla confusione e dal caldo e dal sudore. Il freddo li teneva dentro, li sigillava nel buco. Il balcone era solo mio. Ho fumato la sigaretta e ne ho accesa un’altra. La portafinestra si è aperta e un tizio è ruzzolato fuori, inciampando sul telaio. Aveva una bottiglia, e l’ha salvata tenendola stretta per il collo e battendo forte il mento sul pavimento. Temevo si fosse spaccato i denti. “Tutto bene, vecchio”? Ho detto. Il tizio era ancora carponi. Guardava il pavimento e mi ha fatto un cenno. Poi si è avvicinato e mi ha allungato la bottiglia. “Grazie”, ho detto. È venuto a sedersi accanto a me.

La luna era alta in cielo. La notte era luminosa e piena di stelle. Una notte rara, in Emilia. Quando il tizio si è appoggiato al parapetto e la luce gli ha illuminato il viso, l’ho riconosciuto. Era Pigi. “Cazzo”, ho detto, “Ma sei Pigi!” “Cazzo, sì”, ha risposto. Mi ero ritrovato quel tipo in classe, in seconda superiore. Veniva da un’altra scuola. Non ha mai detto quale. È rimasto in classe, composto e silenzioso, da settembre a dicembre più o meno. Poi, da un giorno all’altro, era sparito. “E tu sei Nathan, eh?”, ha detto. Non era cambiato di una virgola. Sempre basso e molto magro, con i capelli neri rinsecchiti dal gel. “Sono circa dieci anni che non ci vediamo, ma che cazzo di fine avevi fatto”? Ho detto. Lui ha acceso una sigaretta, e ha fatto una tirata. “Mi sono tolto di mezzo per un po’. Sai com’è, cazzate che si fanno”.
“Ma che hai combinato”?
“Niente di che. Ti ricordi alle superiori? Eravamo vicino alle vacanze di Natale. Un paio di conoscenti si erano imbucati a una festa. Ero andato con loro. Una cosa così, come ogni tanto si fanno. Una cosa semplice per passare il tempo. C’era questa ragazza. L’ho vista subito. O almeno credo. Non ho altri ricordi di quando sono arrivato. Non ricordo la casa, non ricordo l’ingresso o altro. Il primo ricordo che ho, è lei. Aveva un vestito giallo lungo, tutto aderente. Aveva questi occhi verdeblu e i capelli castano chiaro. È andata a finire che ci siamo conosciuti e abbiamo bevuto un bel po’ di birra. Poi l’abbiamo fatto in una stanza, sul letto di non so chi”.
“Va bene. E fin qua niente di eccezionale”.
“No, infatti”, dice Pigi. Prende una lunga sorsata di birra, si accende una sigaretta e continua. “Questa tizia era siciliana. Di Palermo. Viene fuori che ha dei parenti qui ed è venuta a trovarli per le vacanze di Natale. Insomma, cerco di vederla il più possibile. Ma non è facile. Suo padre la tiene praticamente segregata in casa. Cazzo, vecchio, mi dovevo arrampicare in cima a un albero e saltare sul tetto. Poi fare il giro della casa e bussare alla sua finestra. Tutto questo per farci una scopata, chiacchierare un po’ e fumare una sigaretta o due. Sai quanto può essere difficile muoversi silenziosamente su un tetto in piena notte? Il padre sarebbe stato capace di spararmi”.
“Merda”, dico, “doveva proprio meritare, questa signorina”.
“Ah, meritava eccome. Ad ogni modo, riparte per Palermo due giorni prima dell’inizio della scuola. E mi lascia il suo indirizzo”.
“E tu sei partito con lei”.
“Più o meno. A Palermo vive un mio zio, un fratello di mia madre. Ha una ditta di costruzioni. Mia madre mi ha detto che non poteva pagarmi il viaggio, e che se andavo ero un bastardo di figlio. Le ho risposto che non era un problema. Insomma, per farla breve, ho raccolto i quattro spiccioli che avevo e ho fatto l’autostop fino a Palermo”.
“Merda, amico, tu sei fuori di testa”.
“Siamo andati avanti due anni. Due anni di arrampicate alla sua finestra”. Pigi abbassa lo sguardo e scuote le testa. “Vado a prendere altre due birre”, dico, “festeggiamo in tuo ritorno”.

Quando torno sul balcone, Pigi è in piedi e guarda oltre il parapetto. “C’è una prostituta, qui sotto”, dice. Gli passo una birra e mi affaccio. Accendiamo una sigaretta. La prostituta fa avanti e indietro sotto a un lampione. Ha un reggiseno, un filo invisibile come gonna e un copri spalle di pelliccia. Fuma una sigaretta dopo l’altra, tenendola in bocca mentre si sfrega le braccia e le spalle. “Secondo te quanti anni ha”?, dice Pigi. “Non saprei, non si vede bene”. Dalla strada buia sbucano due tizi e le si affiancano. Lei prende una banconota e indica il fosso sul ciglio della strada. Il tizio più alto l’aiuta a scendere nel fosso e l’appoggia contro l’erba congelata nella rugiada. Poi le solleva il filo e comincia a darci dentro. Il secondo tizio si guarda intorno. Il tizio più alto colpisce forte, e finisce. Si tira su i pantaloni ed esce dal fosso. Da il cinque al suo amico e spariscono nel buio, ridendo. La prostituta non si muove. Resta lì, sembra immobile. Poi dalla piccola borsa prende un paio di fazzoletti, e si pulisce tra le gambe. Quando ha finito si toglie i tacchi alti ed esce a piedi nudi dal fosso. Si rimette le scarpe e comincia a saltellare e soffiarsi calore nelle mani.

“Senti”, dice Pigi, “qui fuori fa un freddo del cazzo. Rientriamo”.
“Ok”, rispondo. “Ma poi com’è finita con la siciliana”?
“Ah, ecco, la novità è che sono sposato. Mi sono sposato l’anno scorso”. Pigi sorride. Alziamo le bottiglie e brindiamo.