Fra il 1845 e il 1851, a cavallo dei celebri moti di rivoluzione borghese che interessarono tutta Europa con la fervente primavera dei popoli, Arthur Schopenhauer viveva nella sua abitazione a Francoforte sul Meno. Lì, nel cuore dell’odierna Germania, il filosofo si dedicò alla stesura di un’opera in due volumi intitolata Parerga e paralipomena.

In quel periodo, Schopenhauer era solito condurre una vita piuttosto solitaria. Eppure, nel corso di quei mesi – anche se consuetamente ritratto con sguardo arcigno, piglio burbero e avvolto nel su cappotto nero – il filosofo creò una delle chiavi di lettura più rappresentative ed emblematiche delle relazioni umane. La metafora è nota come il dilemma dei porcospini e infatti, studiando il comportamento dei curiosi animali ricoperti di aculei, è possibile cogliere la dinamica alla base di tutti i rapporti umani. Il testo al capitolo XXI recita: “Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinse vicina, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, essi sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”.

Paragonandolo al porcospino, il filosofo tedesco descrive l’uomo come un essere – per bisogno – poco incline alla solitudine, ma al contempo altrettanto timoroso di soffrire a causa della vicinanza altrui. Già agli albori della civiltà, i nostri antenati erano mossi da un pressante spirito di aggregazione e, ancora oggi, siamo inseriti in una fitta trama di rapporti sociali. Il dilemma dei porcospini può evidentemente valere tanto per le relazioni amorose, quanto per i rapporti di amicizia e, forse, anche di lavoro.

Alla luce del racconto e rivisitando un celebre aforisma di Schopenhauer, si potrebbe dire che la vita umana sia come un pendolo che oscilla incessantemente fra la solitudine e la ricerca dell’altro. Come il porcospino, rifuggiamo dal freddo dell’isolamento per acquietarci col calore altrui. Tuttavia, il contatto nasconde anche il rischio della sofferenza. Come gli aculei graffiano e lacerano il corpo dei ricci, procurando inevitabile dolore fisico, così l’eccessiva intimità delle relazioni umane provoca lesioni interne, generando il male dell’animo. La vicinanza è capace di causare profonde sofferenze che possono scaturire da errate aspettative e inaspettate delusioni o da eventi e dispiaceri che, affliggendo l’altro e tramite il sentire comune, portano a stare male insieme. Dunque, conviene optare per il freddo o scegliere il dolore delle spine? Schopenhauer prova a risolvere il delicato quesito ripercorrendo le orme di Aristotele, che nella sua Etica Nicomachea scriveva “μέσον τε καὶ ἄριστον”, ossia “il mezzo è la cosa migliore”. Infatti, mantenendo una giusta distanza si potrebbe ricevere una certa quantità di calore che, seppur minima, eviterebbe le ferite.

Percorrendo le numerose strade dei rapporti umani, ognuno di noi finisce col ritrovarsi dinnanzi a un bivio e sa che, imboccando uno dei due sentieri, raggiungerà la solitudine. Ma conosce con altrettanta certezza la destinazione dell’altra via? Converrete che in amore e in amicizia nessuna relazione sia scritta o assicurata: anzi, ogni rapporto è una scommessa. Occorre tuttavia scoprire l’esatto punto in cui fermarsi, bisogna capire a cosa alluda Schopenhauer parlando di giusta distanza. Ebbene, quel punto potrebbe consistere nell’equilibrio fra empatia e dicotomia. Comunemente, si suole etichettare il dolore in negativo, cercando innumerevoli strategie e blandi palliativi per evitare il dolore e aggirarlo o minimizzarlo. Invece, si trascura il grande potenziale delle ferite. Scrive Nietzsche in Ecce homo: “ciò che non mi uccide, mi fortifica” ed è proprio questa la rivoluzionaria chiave di lettura che, applicata al dilemma dei porcospini, stravolge il valore della sofferenza nelle relazioni umane. L’altro (amante o amico) potrebbe fendere e ferire, ma il colpo significherebbe un vitale impulso verso il corroboramento personale, perciò qualcosa di costruttivo e non apparentemente nocivo.

E come affrontare il malessere provocato dal dolore altrui? Quanto più ci si avvicina, tanto più l’empatia gioca un ruolo cruciale. La distanza è inversamente proporzionale al sentire comune e, quindi, si finisce col compatire, inteso come sympáskhō, soffrire insieme. A tal proposito, Carl Rogers – padre del counseling – afferma che “quando l’altro è ferito, confuso, turbato, ansioso, alienato, terrorizzato o quando ha poca stima di sé o è dubbioso circa la propria identità, è richiesta la comprensione. È richiesta la delicata e sensibile compagnia di una persona empatica. In certe situazioni, la profonda comprensione è il dono più prezioso che si possa fare”. Di conseguenza, il soffrire insieme evolve in un miglioramento valevole per entrambi, si traduce in un rafforzamento comune e dunque, anche in questo caso, genera miglioramento. Inoltre, va ribadito che i rapporti umani sono sempre segnati da una certa aleatorietà, ragione per cui possono causare dolore, ma anche piacere. Un piacere che, condiviso, si amplifica. Non a caso Friedrich Nietzsche scrive: “il piacere che deriva dai rapporti umani rende in genere l’uomo migliore; la gioia comune, il piacere goduto insieme, si moltiplicano, danno all’individuo sicurezza, lo rendono affabile, sciolgono la diffidenza, l’invidia: perché ci si sente bene e si vede che l’altro si sente bene allo stesso modo”.

Pertanto, delineato il profilo dell’empatia, si giunge all’elemento della dicotomia. Esiste, infatti, il rischio che un eccessivo avvicinamento fra due soggetti determini vero caos identitario fra l’io e l’altro. Ad esempio, in amore – nonostante il noto romanticismo del mito degli androgini di Platone – il “farsi uno” si rivela tutt’altro che positivo. Esiste un insuperabile confine tra i due soggetti: ognuno custodisce il proprio essere. Ciascuno è portatore dei propri elementi di identità, fondamenta irrinunciabili per costruire il concetto di alterità. Rinunciando all’io, si annulla se stessi e si perde lo stimolo verso la ricerca di connessione con la diversità.

Concludendo, potremmo affermare che la giusta distanza individuata da Schopenhauer nel dilemma dei porcospini sia data dall’equilibrio fra solitudine e dolore, dall’armonia tra alterità e compassione. L’uomo raggiungerà l’ottima posizione di ogni rapporto umano ponderando al millesimo questi due elementi: conservando la sua entità, amplificando i piaceri comuni e rinascendo con l’altro, come una fenice, dalle compatite sofferenze.