Il deserto è bellissimo. Rifulge di una bellezza eterea e rarefatta, che sia lucente di ossidi o fosfati, di porfidi o di graniti, il paesaggio sempre muta con l'angolo di incidenza dei raggi solari e assume tutte le possibili sfumature cromatiche che la luce di questo mondo consente.

La sua austera bellezza mostra le estreme ossature della terra che sono la trama e l’ordito che le forze colossali e pazienti del tempo intessono con gli elementi sulla matrice minerale del pianeta. Esso ci colpisce col fascino di una forza immane pietrificata come i giganteschi scheletri fossili dei mostri giurassici che il vento, talvolta, riporta alla luce dalle sue sabbie immemori. Ma soprattutto ci induce una quiete profonda perché sappiamo che il suo splendore è eterno come eterna è la morte che vi regna sovrana e soltanto ciò che è morto non può più morire. Perché sono morte le pietraie, morte le cime violacee che si stagliano nella caligine del tramonto, morte le sabbie sterminate dove riposano misteriose vestigia di città dimenticate. Ma una cosa è la composta eleganza del deserto compiuto, altro è vivere il tormento della desertificazione, l’agonia, l’arsura di un mondo verde che muore.

In questi anni aleggia sulle nostre terre mediterranee questa minaccia della desertificazione e l'anno in corso, il 2017 dell' era Cristiana è stato il più caldo e il più secco degli ultimi centocinquanta anni. Per chi, come me, vive in stretta connessione con la verde energia del mondo vegetale la tensione è insopportabile. Ci si trova a spiare ogni possibile segno nel cielo che prometta la pioggia e che sia tempesta o uragano, purché scenda l’acqua a nutrire la terra come sembrava stabilito dalla notte dei tempi. Stranamente i campi e le foreste sembrano resistere nella loro verde baldanza anche se non si vede una pioggia consistente da mesi. Ma allora da dove attingono acqua le loro radici? A quale profondità si spingono nella terra riarsa per trovarla? Che esistano le "acque inferiori", i misteriosi bacini dell'abisso, bui laghi sotterranei di frescura e di cristallo liquido? Perché anche la sola minaccia della perdita dell' elemento liquido incute una ansia così pervasiva che arriva fino allo sgomento quando tale minaccia si concretizza?

Jung considerava l'acqua simbolo per eccellenza dell'inconscio, della fertilità e della femminilità. Essa è presente in tutte le mitologie del mondo antico quale Grande Madre generatrice, origine e fine di ogni ciclo vitale che in lei trae origine e in lei si dissolve: il carro stesso di Febo, dio del Sole fiammeggiante , da Oceano nasce e in Oceano muore ogni sera per rinascere nel giorno venturo. Questi miti universali rivelano un aspetto di profondo radicamento nella psiche umana e divengono ciò che la psicologia analitica di Jung chiama archetipi, vale a dire i costituenti fondamentali dell'inconscio collettivo stratificatisi in millenni di storia e che si manifestano alla coscienza attraverso immagini archetipiche come, appunto, la pioggia che disseta e nutre il mondo. Ma i miti e i simboli contengono in essi anche il loro opposto, e se l'acqua è l’immagine archetipica della vita il suo opposto, la sua assenza, è l' immagine stessa della morte, ecco da dove scaturiscono l' angoscia e lo sgomento che tale mancanza incute in me, come in ogni essere umano di qualunque razza e al di là del tempo.

Il Pianeta Azzurro: così appare la nostra terra agli occhi di chi la ha vede dallo spazio, ma è l’idrosfera, l'acqua allo stato liquido che la rende tale e che, unica tra i mondi, vi consente la vita. Il Fuoco, l'Aria e la Terra, gli altri elementi, sono ovunque nello universo ma è l’Elemento Acquoreo l'eccezionale circostanza grazie alla quale esiste la vita. E allora riaffiorano alla mente le cosmogonie mitologiche dalle quali si evince chiaramente come sia attraverso l'acqua che l'elemento numinoso irrompe sulla scena della storia dando origine al dono della Vita all'apice della quale si trova l’Uomo.

Come si vede in tutto ciò non vi è nulla di razionale o almeno non c’è spazio per quel razionalismo scientifico che pretende di interpretare il cosmo attraverso leggi empiriche perché un dono non si spiega con la scienza. Un dono presuppone un donatore e tanto più grande è il dono tanto più grande sarà Colui dal quale esso proviene e quale dono può essere più grande della Vita stessa? Ecco perché mi trovo nell’era cibernetica a scrutare il cielo come un contadino del Messico precolombiano. Ma allora, cosa o chi interrogo io quando cerco un segno nel cielo? Di cosa ho paura? Un dono può essere revocato?

Recitano i Veda:
È quegli che dà il respiro, la forza è il suo dono...
I sommi dei obbediscono ai suoi voleri.
La sua ombra è vita, la sua ombra è morte, Chi è Colui al quale offriremo il nostro sacrificio? La sua potenza l'ha reso signore del vivo e rutilante mondo,
Ha sottomesso alle sue leggi gli uomini e gli animali.
Chi è Colui...
Ha fatto il cielo e la terra, fissandone il luogo,
ma essi lo guardano e tremano,
Il sole levato continua a splendere su di lui
Chi è Colui... Ha scrutato le acque che custodivano il suo potere e generarono il sacrificio È il dio di tutti gli dei.
Chi è Colui...

Non ci colpirà un giorno chi fece la terra e il cielo e il mare splendente?
Chi è colui al quale offriremo il nostro sacrificio?