Mentre a Roma il Diritto è quadrato, in Grecia è circolare. A Roma tutto è Rito e tutto è Nome. In Grecia, nonostante la grande litigiosità processuale degli Ateniesi, domina una sorta di “anarchia religiosa” cioè un estremo policentrismo di funzioni sacrali, agli antipodi della totalizzante, trasparente e perfetta ritualizzazione romana che prevede classi sacerdotali maschili per qualsiasi dimensione etica e sociale, fatto che si riverbera nel processo quale rito sacro dove c’è una formula certa per ogni situazione.

Non a caso a Roma il diritto è maschile, monopolizzato dalle figure di Iupiter, Saturno, Giano; mentre in Grecia trova la sua radice in figure arcaiche sempre femminili, antecedenti e superiori allo stesso Zeus. Roma è Mito a se stessa, non possiede un Racconto prima della storia, parallelo alla storia e le sue donne più di rilievo sono le Vestali, che si identificano nel Fuoco quale archetipo imperiale, quindi al servizio di Roma stessa. La Grecia invece è per sua natura la terra del Mito che presenta due poli: i Misteri e i cicli ricorrenti e ossessivi dei racconti eroici e fondativi delle stirpi e delle città.

Nel Mito tutto è doppio e molteplice e i nomi si stratificano. Diciamo Grecia ma in realtà si tratta di molti popoli che si incrociano, confondono, susseguono, accumulano: pelasgi e dori, indoeuropei e troiani, micenei e cretesi, fenici e arcadi, tessali e macedoni del nord, popoli delle isole. Non a caso l’archetipo della Giustizia manifesta molti nomi, spesso dall’etimo incerto, non greco. Molti nomi ma una medesima natura-ruolo-funzione. Siamo al livello più arcaico del Mito dove ancora non c’è racconto ma solo immagini estremamente vaste, senza ancora un volto, prive di gesta. Nomi, immagini e alcuni rari attributi.

Ci raccontano che il Diritto è cerchio, abbraccio, necessità, fato, ineludibilità, punizione contro l’ybris, cioè contro l’eccesso umano quando sconfina nel divino. Il confine tra eroe e sconfitto, fra divinizzato e maledetto è molto labile e fluido. Dike, sorella di Tyke, figlie di Hermes (e poi “normalizzate” in figlie di Zeus) sono allegorie filosofiche tarde. L’Origine è in una Forza inarrestabile che non lascia impunita la colpa e che viene chiamata Ananke, o Moira, o Nemesi. Ananke indica un senso multiplo: parentela, abbraccio, ciò a cui non si può sfuggire. Possiamo rinnegare il nostro sangue? Ananke è uno stringere che non lascia scampo. Un altro suo nome è Adrastea, colei “a cui non si può sfuggire”, Ninfa dei frassini che alleva Zeus infante a Creta, nata dal sangue di Urano evirato da Krono, come Afrodite, come le Erinni.

Dalla stessa Forza, chiamata anche Nemesi, la Vendetta invincibile, nasce l’Uovo che custodisce Leda da cui usciranno due coppie di gemelli “fatali”: Elena e Clitemnestra, entrambe distruttive per i Micenei e per i figli di Ilio, e Kastore e Polideuce. Neppure Zeus può sfuggire ai decreti della Moira, una e trina, che ha deciso che debba finire l’età degli eroi e che Troia debba essere distrutta. Zeus parteggia per i troiani e con lui Apollo ma non potrà far nulla contro la Legge della Moira. Altro suo nome è Temi, nome connesso con il verbo tithemi, indicante il porre, l’ordinare, l’offrire. Alla titanide Temi appartenne per prima l’oracolo di Delfi, ben prima di Apollo e Dioniso. Temi che quasi si confonde con sua madre: Gea. Afrodite è bella, Hera dagli occhi bovini, Atena austera, Artemide selvaggia e vendicativa, Apollo imprevedibile.

Le divinità greche olimpiche hanno carismi che sono “posture dell’animo”, e, quindi, appaiono visualizzabili, corporizzabili, distinguibili. Giustizia non è rappresentabile. Non riusciamo a immaginarne il volto e domina su tutti gli dei e su tutti gli eroi, essa stessa matrice di eroicità e nel contempo giudizio severo per gli eroi stessi. Quali attributi hanno tutte queste forme femminili della Giustizia? Pochi ma significativi: ali e torce, a indicare riti misterici notturni, la frusta, segno di sovranità e purificazione/propiziazione che allude a origini mitiche egizie, le corna di cervo, segno della muta ciclica del tempo, la mela, il frutto delle Esperidi, dei Campi Elisi, e infine la ruota, segno del sole ma pure della punizione.

La Moira è la divisione, la parte, immagine sacrificale. Il sacrificio è divisione, è “fare bene le parti” della vittima, operazione che è il più antico giudizio. Non a caso Moira si articola successivamente, come accadde per la Musa/Muse, in tre persone: le Parche, il cui gesto del filare è lo stesso di Penelope e di Elena. Un gesto così semplice, ordinario, femminile è nel Mito il gesto del tessere il destino, il più alto giudizio sull’umano. Graves tenta di spiegare questa triplicazione della “Dea Fato” con la ritualità naturale delle tre fasi/colori della luna: nera, bianca e rossa, per cui Ecate/Diana è l’equivalente infero/astrale di Ananke/Nemesi/Temi, colei che induce Teti fatalmente a sposare Peleo. In ogni caso la comune natura d’origine di queste figura si riverbera nella similitudine della loro varia progenie: Dike/Tyke, le Erinni, le Ore, le Graie, le Ninfe Stigie, custodi della soglia e del fatidico falcetto. Stige la custode del Tartaro e dei suoi più pericolosi prigionieri come i giganti Aloidi. Stige l’acqua che giudica gli dei, che prova e garantisce i loro giuramenti. La Giustizia-Donna greca a noi contemporanei sembra eccessivamente tragica e spietata. A loro rivelava una sapienza perfetta nell’armonia del contrappasso che ammiriamo facilmente nell’avvoltoio, segno egizio e femminile, che divora di giorno non a caso il fegato del coraggioso Prometeo incatenato con il ferro (sider/aster) alla roccia di Scizia.

Per capire il Mito e i suoi vari cambi di paradigma va sempre scrutato il Cielo. Non a caso la fine di Troia venne dagli antichi connessa con lo scomparire in cielo di una pleiade: Elettra, da cui veniva la legittimità spirituale della stirpe di Dardano. Il Cielo ci mostra due figure che diventeranno tra le più persistenti icone e allegorie della storia umana e della Giustizia: la Vergine e la Bilancia. La prima è Astrea, la stellata, nume delle messi e della vendemmia, custode e regìa dei tempi. La seconda fa valorizzata da Roma. Per i Greci la Bilancia, detto “il giogo” in lingua greca, erano solo le chele dello Scorpione. Fu Giulio Cesare nel 46 a.c. a elevare la Bilancia a segno astrale autonomo e importante, l’unica casa zodiacale identificata in un oggetto. Hermes l’ha portata dall’Egitto, segno di psicostasia, il giudizio sulle anime.

Perché questo strumento si eleva quale segno di giustizia superiore? Semplice. Perché la costellazione della Bilancia è posta all’opposto del sorgere dell’Ariete e indica i due equinozi. La Bilancia si pone a cavallo dell’incrocio dell’ellittica con l’orizzonte zodiacale. Una necessità astrale che diviene naturalmente segno vivente di Equilibrio assoluto, ricorrente, certo. Archetipo e icona del retto e impassibile giudicare. Come in cielo così in terra. Il Mito genera immaginari anche quando l’icona è acefala, non visiva. E così la Giusitizia-Donna senza volto diventa la donna con la bilancia, la spada e la benda sopra gli occhi. Questa benda da emblema sapienziale di un’imperscrutabilità sovrana, di un’impassibile imparzialità, nel disincanto del decorso della storia per uno scherzo bizzarro di “permutazione semantica” si inverte nell’allegoria dell’arbitrio, della cecità, della Giustizia che nega se stessa! Anche la sua fatale ruota, che lega nell’incanto d’amore con Ynx ma pure punisce, infuocata, Issione, segno di una Giustizia sui tempi, immagine di una Forza saggia, superiore, ineluttabile che prevale sugli eccessi umani annichilendoli, livellandoli, ribaltandoli in perfetto contrappasso, assume nel tempo l’opposto senso della “Ruota della Fortuna” dei tarocchi e di tante miniature e raffigurazioni d’arte. Saturno divora se stesso, oltre che i suoi figli!