La notte di gennaio del 1967 in cui Nicola venne al mondo regalò al piccolo una combinazione planetaria che a detta di Silvia, esperta in oroscopi, avrebbe fatto del neonato un uomo affascinante e interessato a molte cose, con una spiccata propensione per l’arte.

Laura, la madre di Nicola, aveva subito pensato a Valerio e al suo interesse per il disegno, poi però ricordò che anche Guido collezionava libri d’arte, d’architettura soprattutto. “Sai che ti dico Silvia”- aveva detto all’amica fidata - “chi se ne importa da chi dei due viene il mio Nicola. Io lo amo già”. Silvia l’aveva guardata sbalordita e aveva risposto: “Tuo marito ha i capelli chiari e un grosso naso. Valerio è scuro con gli occhi verdi. Assomiglierà a uno dei due, te ne rendi conto?”

Nicola nacque biondo ma poi, crescendo si scurì. Gli occhi erano di un nocciola compromesso e il naso uguale a quello di Laura. Nicola e i suoi occhi nocciola il giorno in cui suo padre Guido morì in un incidente stradale, non si chiusero neanche un momento. Nemmeno di notte. Le ore insonni a casa dei nonni materni che ospitarono per un paio di giorni lui, la madre e il fratellino Gabriele, passarono lente come se ci fosse bisogno di tutti quei minuti in fila per trovare una collocazione a quel dolore nuovo, un posto nell’anima dove andare in pellegrinaggio quando era possibile, quando nessuno vedeva.

Guido era stato un padre sbrigativo e simpatico. Nicola non aveva ricordi di conversazioni illuminanti come quelle si vedono nei film americani, quelle in cui il padre, tra un discorso sulla pesca a mosca e uno sul football, svela al figlio adolescente il segreto della vita, dell’amore, delle donne. E non ricordava nemmeno lotte rivoluzionarie a sancire l’inizio dell’indipendenza. Guido era quasi sempre via per lavoro e quando tornava aveva solo voglia di sentirsi rispondere “Tutto bene papà. La scuola occhei. Sì, siamo bravi con la mamma”.

Si volevano questo bene qui, sbrigativo, sintetico, genetico. Quasi. Nicola non aveva mai sentito il peso dell’assenza del padre dalla sua vita, ma quando la polizia aveva suonato alla porta e dato la notizia a sua madre, un buco improvviso e sconosciuto gli si era formato nel petto e nella pancia. Un buco profondo, un specie di pozzo pieno di echi. Non pianse, corse in camera sua. Nessuno lo vide mai piangere. Aveva quindici anni e suo padre era morto in un incidente stradale tornando a Napoli. Era successo a pochi chilometri da casa, in una strada secondaria.

Dopo quella morte d’Aprile Nicola, Laura e il piccolo Gabriele erano soliti andare al cimitero tutti insieme, la domenica. La cosa andò avanti per alcuni mesi, poi questo rito si spense, con glaciale gradualità. Laura continuò a visitare la tomba di Guido da sola, i ragazzi aspettavano a casa. La foto di Guido che sorrideva pieno di vita, ingialliva al sole. Nicola mise tutto quello che lo legava a suo padre in una scatola di metallo che custodì dentro l’armadio. La scatola conteneva qualche foto, due biglietti di un cinema d’estate, un Vangelo con la copertina nera e i fogli bordati di rosso, un portachiavi e un anello.

Nicola a quindici anni aveva la certezza che tra suo padre e sua madre tutto andasse bene, anzi normale. “Normale” era l’aggettivo che più spesso Nicola usava per descrivere le cose di casa. Laura era la mamma normale. La mamma si muoveva agile tra le stanze portando la cesta della biancheria, oppure un caffè, o un libro che poi leggeva seduta insieme ai bambini. Con Guido era dolce e affettuosa, ma di certo Nicola non avrebbe usato questa aggettivazione per descriverla. Avrebbe detto solo che la mamma col papà era “normale”.

La gradazione del fenomeno “mamma” ha poche sfumature agli occhi implacabili e rigidi di un figlio. Una mamma è un dato di fatto, una condizione perenne, un teorema sempre dimostrabile, che ha come naturale corollario l’essere “moglie di papà”. "Mamma" è sinonimo di donna organizzata, parsimoniosa, apprensiva, indulgente e dotata di un corredo di azioni che non sono connotate umanamente né sessualmente. “Sesso”, uguale urgenza devastante, richiamo cannibale da domare al più presto e “mamma” uguale presenza sempre presente, vertice massimo del normale svolgersi delle cose, sarebbero stati sempre, per Nicola, due concetti inavvicinabili.

Nella formidabile attrazione che Nicola sentiva verso la vita, il sesso e la conquista del mondo, era certo di essere un combattente eletto e solitario, chiamato ad andare avanti nonostante tutto. E infatti anche la notte della morte di suo padre, benché i pensieri non trovassero pace e il dolore e lo smarrimento gli stringessero il cuore, Nicola sentiva il richiamo del mondo. Era come se un grandioso esercito in roboante assedio alla sua stanza urlasse forte: “Nicolaaaaaaa vieniiiiiiiiiii!”. E la sua stanza, quella in fondo al corridoio, quella con il poster degli Smiths attaccato alla porta, era l’avamposto della modernità della casa, la prua svettante verso la conquista del mondo. Mamma e papà, mezzi busti seduti sul divano di pelle erano agli occhi di Nicola una specie di ancora arrugginita da levare senza indugi né rancori. Un giorno lui e la sua smania sarebbero salpati via. E fazzoletti bianchi a sventolare lacrime di addio.

Ecco, pensava Nicola, era senz’altro questa smania galoppante la responsabile dei pensieri indecenti che gli si accavallarono nella mente persino in quel momento lì, in quella lunga notte di Aprile a casa dei nonni dopo che Guido era morto in un incidente. In mezzo a cavalloni di angoscia, di fronte a quel pozzo affamato delle sue lacrime, Nicola continuava a vedere immagini acide e sudate: concerti, birre, amici, tette, fumo, moto, bikini con i lacci, Inghilterra, Giappone, anfibi, tette, culi, fianchi, fianchi da aggrapparcisi.

Con gli occhi sbarrati sulla notte, nella sequenza di immagini che si presentavano a rotazione continua nella sua mente, Nicola rivedeva il viso stravolto della madre, le sue mani sulla faccia. Rivedeva Gabriele che singhiozzava e si stringeva a lei. E avvertiva la morsa di quel dolore sbandato serrargli la pancia e farlo sentire vuoto e solo ma poi, invariabilmente, la sequenza continuava e c’erano altre immagini. A colori.

Fu questo turbine, questo andare e venire di vita e di morte a fargli capire la sua verità, quella che non lo avrebbe mai abbandonato: la vita è più forte, la vita è un’aquila che ti afferra per il bavero con un artiglio d’acciaio e ti fa sorvolare sopra tutto, il bene, il male, il dolore, il disorientamento.

Continua il 29 Luglio.