Visto da qui, l’albergo è gigantesco,
un immenso e scintillante castello incantato.

(Arthur Schnitzler – La Signorina Else)

Lo sguardo rivolto in alto. Il cielo è onnipresente, tanto che spesso sembra essere il protagonista. Se fossimo dentro i quadri di Marco Martelli e girassimo un po’ lo sguardo, dovremmo appoggiare la mano alla fronte e concedere agli occhi una cortina d’ombra, tanta è la luce. Prospettiva. Fotografia. Sono due elementi tecnici fondamentali di questa pittura. E correlati. La prospettiva come necessità di riproduzione tridimensionale la ricordiamo già con Giotto, poi geometrica e brunelleschiana, moderna, nel Rinascimento (e solo con il Cubismo e Futurismo, nel XX secolo, viene negata). I primi tentativi di “scrittura della luce” risalgono anch’essi al Rinascimento: con la camera oscura già studiata da Leonardo, usata nel secolo dei lumi dai vedutisti veneziani; poi è la volta della lanterna magica, la scatola delle meraviglie proiettate come fantasmagoriche apparizioni nel buio. Fino alla “nuova” macchina fotografica, quella che permetteva lo sguardo discreto sul mondo: noi nascosti sotto un telo nero dietro a una scatoletta di legno contenente specchi e lenti; a guardare cosa c’era dall’altra parte, oltre un piccolo foro attraverso il quale la luce entrava, signora indiscussa e poderosa, per posarsi su una speciale gelatina magica. Da allora la fotografia è stata alternativamente amata-usata e odiata-snobbata dagli artisti. Abbiamo assistito alla sua sepoltura con l’informale e alla sua riesumazione, soprattutto oltreoceano, con l’iperrealismo, passando per il realismo poetico di Edward Hopper.

Marco Martelli viaggia con la macchina fotografica al collo, registra panorami, persone, architetture, o crea nuove composizioni assemblando lui stesso elementi diversi da fotografare. Prima di passare alla fase-pittura. I cieli, le nuvole, sulle tele si contornano di bagliori che sembrano andare addirittura al di là del vero, sembrano voler esasperare la bellezza attraverso lo sconfinamento nel digitale. Tutto ciò è reale? È surreale? O forse, come scriveva un tempo Magritte, è semplicemente la realtà in cui viviamo a non essere osservata nella sua verità? Forse il mondo è meno logico di quel che sembri, più magico delle fiabe. Camminare guardando in basso è sintomo di introversione, di piegamento su se stessi sotto il peso di una grande cappa gassosa. Camminare guardando verso l’alto (tenendo i muri a debita distanza!) non è sintomo di atteggiamento diametralmente opposto, non è semplicemente simbolo di apertura al cosmo (camminare con la testa “fra le nuvole” è ben lontano dall’essere comunicativi), ma desiderio di conoscenza di questo, andando anche oltre – non è un caso che l’atto della preghiera avvenga alzando gli occhi al cielo. La prospettiva che si riconosce nei quadri di Martelli è quella del sottinsù: tra le più celebri dell’arte italiana è la volta della Camera degli Sposi del Mantegna a Mantova, dove la vicinanza tra l’osservatore e gli elementi prospettici è evidenziata da una posizione perpendicolare di chi osserva rispetto al punto di fuga; in quella di Martelli, invece, si avverte una distanza, una propensione verso qualcosa di irraggiungibile. Non è la paura dell’horror vacui, non quella dello sguardo rivolto ad un precipizio, non sono le vertigini che risucchiano verso il basso, quanto piuttosto la proiezione di se stessi oltre gli oggetti e le architetture. Un che di mistico e spirituale, soprattutto se si pensa al valore simbolico dello sguardo al cielo – nella scrittura sacra, sette sono i cieli che bisogna attraversare per giungere alla presenza di Dio. L’elemento concreto diventa un’unità di misura per calcolare una distanza con l’astratto. Marco Martelli nella sua pittura segue un itinerario che tocca quattro temi diversi: Nature in bilico, Le pietre del tempo, Isole, Le stanze.

Le pietre del tempo e le Isole sono generalmente dettagli o intere architetture che attraggono l’artista durante i suoi viaggi. Grandi totem di epoche diverse (dai castelli ai palazzi moderni), testimoni di storie comunitarie e custodi di storie private: da una Londra curiosamente vivace (e non fuligginosa come nell’immaginario “meridionale”) alla calda Sicilia – dove all’arsura dorata su un intonaco mangiato dal tempo si affianca un cielo azzurro e fresco; dal palazzo liberty torinese di Corso Vittorio Emanuele fino alle maioliche di una casa azzurra immersa in un’atmosfera lunare e un po’ gotica. Una sorta di ready-made dell’equilibrio sull’asse verticale, fotografato e dipinto come trovato: forse l’artista può intervenire con un preciso taglio dell’inquadratura, restituendo al cielo la sua importanza; forse sceglie di rappresentare un dettaglio evitando l’insieme, perché simbolo di un equilibrio tanto perfetto quanto fragile se esasperato.

E l’equilibrio torna nelle sue nature in bilico, questa volta ricreato attraverso la composizione per assemblaggio più che per sottrazione. Non sono nature morte, non sono nemmeno nature vive. Sono nature in bilico, posizionate in punti improbabili: su tetti, appese a fili di nylon o a nastri colorati annodati, su assi di legno. Spaventapasseri dal mondo dei rigattieri o dai ricordi della nonna? Nient’affatto, essi stessi saranno i ricordi del tempo odierno, tracce volutamente disseminate come da un funambolo, tracce di un mondo assurdo moderno che diventerà obsoleto. Bicchieri di vetro colorato – che profumano l’aria del loro vecchio contenuto? o piccole campane al vento?, frutti, ciotole, imbuti e sedie. Rotoli di carta si dispiegano tra l’accenno decorativo e quello simbolista: sono pagine bianche su cui scrivere o progettare il futuro, non ancora romanzi o diari di viaggio. Questo sembra essere il corredo di un uomo, di una vita… Metafisica. C’è forse chi vive sui tetti? L’assurdo spesso spiega l’evidente, suggerisce la soluzione del rebus.

Anche nelle Stanze, nelle atmosfere vagamente crepuscolari degli interni, c’è una vena di malinconia per il tempo perduto e poi ritrovato (la macchina da scrivere di Martelli, ormai demodé, è come la madeleine di Proust, evocazione di un mondo di ricordi e di un passato che si fa presente). Si può parlare quindi di una sensibilità moderna alla storia, nella scelta dei soggetti ma anche nella tecnica pittorica, ben ancorata al costume attuale ma risultato di insegnamenti plurisecolari, dalla storia dell’arte italiana del Seicento fino a quella americana più recente. Un albero è un’opera di perfezione della natura, fatto di mille filigrane nervose che sprigionano molecole d’aria e disegnano arabeschi su una grande volta cangiante, e che in ogni fase del giorno, delle stagioni e degli anni modificano il suo disegno. E come gli alberi, qualsiasi elemento ha un’anima, che emerge sommessamente sotto uno sguardo particolarmente sensibile. Martelli suggerisce di guardare il mondo in maniera diversa, con una rinnovata sorpresa per la meraviglia dell’ordinario.

Una sedia in bilico su un tetto non è poi così diversa da una sfinge o da un buddha su una colonnina scanalata d’arredamento, o rispetto ai fogli, libri e vasi su una scrivania appena riordinata nella luce incisa in un tardo pomeriggio, e non è nemmeno più paradossale di un fiume, cimitero di macchine. Martelli illustra i dettagli del rebus con una estrema nitidezza, senza lasciare nulla alla sfocatura atmosferica, perché quasi sempre si svolge tutto in un primo piano, su un palco estremamente luminoso allestito a punta di pennello (nelle sue opere non è mai mostrata la fonte luminosa).

Dal Romanticismo di Caspar David Friedrich e William Turner alle nuvole di René Magritte, fino al celeberrimo film di Wim Wenders (dedicato agli angeli sopra Berlino) il cielo avvolge isole, città, montagne, mari e oceani, e si comporta come camaleontico ombrello: il cielo su Torino (composto e fermo) non è il cielo su Palermo (catarifrangente di uno spettro dorato e bollente), che sarà invece quasi gemello al cielo delle isole greche, dove si getta addirittura nel mare per trovare un po’ di fredda eternità. Il cielo è blu, è sempre blu oltre le nuvole. Sulla terra è blu quando vuole svelare apertamente i misteri. Nei quadri di Martelli è la base di qualunque cosa, fondale disseminato di tracce: tecnicamente, tutto è costruito per velature pazienti che qua e là diventano più corpose, ma la presenza del blu – secondo la conoscenza della “comunicazione” fra toni diversi – si percepisce ovunque, anche sui muri che trasudano calore, sui panni stesi, sui vasi smaltati e sui rotoli di carta, fino ai volti umani, rarissime apparizioni in un contesto in cui l’uomo si avverte soltanto come presenza astratta – l’inquadratura non tocca mai il livello del suolo –, artefice e fruitore di un mondo affascinante che, nonostante l’inflazione di studi e teorie, mantiene il suo mistero.

Testo di Sabatino Cersosimo
A cura di Marco Martelli