Il ricordo del Cingalio, dopo tre secoli, fu ridestato da una tesi, purtroppo inedita, di Antonio Drago [1], poi solo riassunta in un capitolo, inserito in una monografia sul paese nebroideo [2]. Mi fa piacere ricordare di nuovo questa figura di letterato del Cinquecento siciliano perché, dopo quel 1958, la polvere dell'oblio è tornata impietosa sulla memoria e sulle opere di questo interessante poeta [3].

Nel secolo XV la Sicilia si trovò in presenza di una realtà politica irreversibile. Causa ne fu la mancanza di una borghesia attiva e fattiva, essendo stata, l'Isola, ridotta a vicereame a opera del regno spagnolo. Il vicereame peraltro fu quasi tutto infeudato, mentre i baroni più bellicosi furono snidati dai loro castelli. L’insieme di queste traversie politiche condussero la nobiltà siciliana alla piatta cortigianeria: i baroni si insediarono così stabilmente in Palermo, mentre il parlamento, da loro espresso, divenne organismo feudale, ligio ai voleri vicereali. A un approdo politico così tristo non poté quindi succedere altro che un'epoca di avvilente inerzia e di una grande povertà morale, ammantata di lusso e di frivolezza.

L'insediamento dei baroni nella capitale però ebbe, come logico contrappeso, il risultato di allontanarli dai feudi, che furono consegnati nelle mani di rapaci campieri [4]. Questi mostravano di curare gli interessi dei padroni, ma senza disdegnare di trattenere per sé un certa quota "fuori quota": il risultato di tale politica non poteva essere, a lungo andare, che l'indebitamento dei feudatari, a frenare il quale nulla poté, spesso, neppure la legge della primogenitura, il maggiorascato, studiato per salvaguardare l'integrità dei patrimoni.

Questa fu l'organizzazione sociale nella quale approdò nel XVI secolo la nobiltà siciliana, nella quale si dovettero muovere i plebei, sempre più miseri, gli addetti alle arti e ai mestieri, e pure i letterati: ciò spiega quanto difficile fosse stato emergere socialmente, anche per uomini dotati ma di umili origini. Una delle strade maestre per giungere ad esprimere il talento fu, in quel secolo, l'appartenenza a un ordine religioso: ed è probabile che questa via percorse Antonio Cingalio per arrivare a Palermo, dove soggiornò certamente dal 1584 sino alla fine dei suoi giorni. Vi rimase sotto la protezione di uno dei massimi personaggi del tempo, Francesco II Moncada e Luna, principe di Paternò [5] e figlio di Cesare e Aloisia de Luna e Vega. L'approdo del poeta in casa Moncada fu propiziato da Sebastiano Anzalone [6] dei baroni di Pettineo e Castelluccio con molta probabilità dietro suggerimento di Ferdinando Lanza, barone di Galati.

Antonio Cingalio si era formato certamente presso i Frati Minori Conventuali; questi frati, che furono fucina di cultura per Galati, curavano infatti l'officiatura della chiesa della SS. Annunziata, ancora prima che ne fosse stato edificato il convento [7]. Non si conoscono i dati anagrafici del poeta, specialmente per l'impossibilità di consultare gli archivi parrocchiali e comunali, ove ancora esistano e ai quali le autorità preposte - religiose e civili - non pare abbiano dato, nei secoli, particolare importanza. Tuttavia un condivisibile parere di Antonino Drago colloca le date di nascita e di morte del poeta fra il 1515 e il 1592.

Francesco II Moncada e Luna, principe di Paternò, fu filosofo, pittore, scultore, avvocato dei poveri che ascoltava e aiutava, fondatore dell'ospedale dei Fatebenefratelli di Caltanissetta e grande mecenate. Morì giovanissimo e a quella precoce morte non riuscì a sopravvivere il Cingalio. Filippo Paruta tramandò la drammatica fine dei due con un epigramma latino che, tradotto, così recitava:
Ai raggi del tuo sole viveva il Cingalio, o Moncada; / venuto meno il sole, venne in lui meno la vita. / Tu tramontasti, o Principe, e teco tramontava il Cingalio: / l'ombra di lui segue ora e canta la tua ombra.

Il genere letterario che prevalse nelle opere di Antonio Cingalio fu quello del tempo, fatto di imitazioni studiate o artificiose, con la ricerca di preziosismi che preludevano al barocco; ma soprattutto fu il culto per la lingua latina che dominò nella letteratura del secolo XVI: e il Nostro, figlio del suo tempo, non se ne distaccò. “Naturalmente – scrisse Gaetano Drago - il Cingalio fu uomo e poeta del suo tempo, di quel benedetto tempo in cui il culto dell’antico e della mitologia pervadeva anche i soggetti religiosi, perfino le prediche morali degli oratori sacri. Certe espressioni, certi raffronti o paragoni suonano stranamente ai nostri orecchi in componimenti d’indole religiosa, ma allora piacevano e denotavano buon gusto, il gusto del tempo. Fu un virgiliano appassionato, virgiliano nella forma fino ad assimilarla e a farla sua, virgiliano nell’anima per il carattere mite e religioso, per il gusto della natura e delle cose semplici e belle, per il culto verso il suo Mecenate [8]”.

Il Cingalio giunse a Palermo già con la fama di ottimo letterato, ma delle opere, precedenti la permanenza in casa Moncada, non si riesce ancora ad averne nozione. Personalmente mi sono avventurato nel mondo delle biblioteche e, com'era ovvio, all’inizio del terzo millennio, ho consultato pure la Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma. In catalogo, sotto Antonini Cingalii siculi, veniva segnalato un Epithalamium in nuptias Francisci Moncatae Paternionis principis et D. Mariae Aragoniae Montalti ducis, Panormi, apud Iohannem Franciscus Carraram, 1584. Fatta la richiesta di consultazione, con disappunto del bibliotecario, si scoprì che l'incunabolo, chissà in quale epoca, si era dileguato! A quella catalogazione rispondeva, infatti, un'opera diversa, del Settecento [9].

Della “poesia”, il Cingalio ebbe un’altissima idea; lo spiegò al suo Principe nella lettera di presentazione premessa alla traduzione italiana del Ratto di Proserpina di Claudiano, fatta dal Bevilacqua. Pure questo testo pare non sia più consultabile (asportato?), ma fu studiato presso la Biblioteca di Palermo e riportato nella sua tesi da Antonio Drago. Dell’esistenza di quest’opera ne abbiamo conferma indiretta da un’altra tesi, discussa presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II [11], ove leggiamo:
Le lezioni di partenza a cui è stato possibile […] risalire hanno in ultimo decretato lo stretto legame di Faría con la tradizione a stampa quattrocentesca e primo-cinquecentesca, culminata nell’edizione del Parrasio, che conosce e predilige. La ricostruzione della figura di Francisco de Faría e la sua attiva partecipazione all’Accademia di Granada ha poi preceduto l’esame del ricco apparato paratestuale della traduzione. Le interpretazioni evemerista, naturale ed allegorico-morale, che aprono ciascuno dei tre libri di cui si compone la traduzione, si presentano come custodi del suo autentico valore e messaggio edificante. Anch’esse tradotte, come avverte l’autore stesso, si è scoperta la loro fonte nelle allegorie a corredo de “Il Ratto di Proserpina” di Claudiano da Giovan Domenico Bevilacqua in ottava rima tradotto, confezionate da Antonino Cingale, nel 1586.

Mi piace chiudere questo ricordo del Cingalio con le parole tramandate da Gaetano Drago [12], che fu l’unico che abbia potuto leggere la tesi del fratello. Scrisse il Cingalio:
La Poesia è Teologia o scienza divina; difatti la prima poesia umana fu religiosa; non è un’arte liberale, ma contiene in sé ed abbraccia non solamente quelle ma quante altre sono scienze divine e umane. Ha la Poesia un suo linguaggio particolare, per cui Platone affermò che i Poeti parlano una lingua soprannaturale.

Questo il succo del solo componimento italiano che ci era rimasto del Cingalio [13] e che può dirsi un trattatello d’arte poetica.

Note:
[1] Antonio Drago, Antonio Cingalio, gloria letteraria di Galati Mamertino, Università di Palermo, ottobre 1921.
[2] Gaetano Drago, Galati Mamertino e la Calacte di Ducezio, Roma 1958, pp. 137-152.
[3] Cenni successivi in monografie o articoli su quotidiani hanno preso spunto dalle due opere citate.
[4] Il campiere, in Sicilia, era una guardia privata di una tenuta agricola; rispondeva del suo operato al gabellotto in primis e indirettamente al proprietario latifondista. Erano cioè uomini di fiducia del proprietario, del mezzadro o dell'affittuario, perlopiù disarmati; controllavano, in ronda o da postazioni sopraelevate, le coltivazioni nel periodo prossimo alla raccolta, per prevenire furti, danneggiamenti o incendi dolosi delle messi mature.
[5] Il titolo di ‘principe’ gli fu conferito il 13 febbraio 1572.
[6] L’Anzalone era stato il maestro di Francesco.
[7] Chiesa e convento furono costruiti prossimi al centro abitato sul colle Scalì, oggi spazio occupato dal camposanto dopo una improvvida demolizione dell’antico convento (cfr. Salvatore G. Vicario, Galati Mamertino nel Parco dei Nebrodi, p. 96, 42n).
[8] G. Drago, cit., p. 141.
[9] Feci la ricerca bibliografica dell'intera opera del Cingale e trovai che, al tempo (a. D. 2000), si disponeva solo di tre scritti a stampa e, di questi, ve n’erano in tutto otto esemplari e precisamente: l'Epithalamium sopraccitato, due esemplari: CT 02 e PA 04; il De Morte Christi, libri duo., Panormi, apud Iohannem Franciscus Carraram, 1588, tre esemplari: CT 02, PA 04, RM 23; Panormi lacrymae in obitum Fabricii Valguarneri, Panormi, apud Io. Antonium de Franciscis, 1590, tre esemplari: Città del Vaticano 01, PA 04 e PG 01. Ma c’è da dire che Antonino Drago, nel 1920, al momento della stesura della sua tesi, nella Biblioteca di Palermo, del nostro umanista aveva consultato pure il Mimianus seu descriptio et laudes ... (1589) e il componimento Niobe seu Anticleopatra (1591).
[10] Claudio Claudiano, Il Ratto di Proserpina, tradotto da Gio. Doni. Bevilacqua con argomenti e allegorie di Ant. Cingali., Pai. 1580 in-4°.
[11] Dottorato di ricerca in Filologia moderna, Coordinatore: Prof. Costanzo Di Girolamo, Napoli 2013, Ciclo XXV, «De flores despojando el verde llano». Claudiano nella poesia barocca, da Faría a Góngora. Candidato: Dott. Daria Castaldo; Tutore: Prof. Antonio Gargano.
[12] G. Drago, cit., p. 140.
[13] Questo è il danno del trafugamento di un unicum di un testo antico.