Ecco cosa scrive nel 1896 Susan B. Anthony: "Lasciate che vi dica cosa penso dell'andare in bicicletta. Penso che la bicicletta abbia fatto l'emancipazione delle donne più di ogni cosa al mondo. Dà alle donne la sensazione di libertà, di completa autonomia e a volte di ribellione. Gioisco ogni volta che vedo in giro una donna pedalare... ".

Quasi 150 anni dopo la bicicletta non ha esaurito nei confronti delle donne la propria forza rivoluzionaria e le parole dell'Anthony sono ancora cariche di significato. Ne è la dimostrazione La bicicletta verde di Haifaa al-Mansour, prima e unica regista dell'Arabia Saudita. La protagonista di questo film è Wadjda, una bambina che ha una grande passione: possedere una bicicletta. E questo in un paese dove alle donne è vietato circolare a viso scoperto, guidare l'auto, rimanere sole con un uomo che non sia della famiglia e inoltre considera la bicicletta un pericolo per la virtù della ragazze.

A volte capita alle donne di nascere con un coraggio da leonesse, il coraggio di interrompere tradizioni secolari tramandate dalle madri alle figlie e dalla società intera. È difficile usare un altro sguardo, soprattutto se dobbiamo andare contro le regole del mondo che ci circonda. Ci sono eventi di cui siamo testimoni e altri che sono accaduti prima di noi. Tali sono l'infanzia e l'adolescenza. Sono proprio loro che bisogna ascoltare. La storia delle nostre verità è nella mente, nei desideri e nelle azioni di questa piccola protagonista.

La maestra a scuola dice a Wadjva e alle sue amiche che la voce delle donne non deve uscire dalla porta di casa. Insegna loro i comandamenti di un dio maschile e invadente. Ma lei, con il coraggio della preveggenza non la segue, vuole una bicicletta come ce l'ha il suo amico Abdullah e poco le importa che il suo desiderio passi per indecente. Procede determinata, senza incertezze e si fa guida esemplare anche di sua madre. Nel finale del film infatti Wadjva riceve in dono da sua madre la bicicletta verde. La bicicletta così ritorna a essere un simbolo della ribellione delle donne come diceva Susan B. Anthony nel 1896.

Nella realtà questo film ha creato una piccola rivoluzione. L'autorità religiosa dell'Arabia Saudita ha dato alle donne il permesso di andare in bicicletta nei parchi e nelle zone ricreative. Dovranno però essere coperte dalla testa ai piedi e dovrà essere presente un guardiano in caso di incidenti o di cadute. Ora vorrei tanto vedere un uomo saudita o ancor meglio l'autorità religiosa di quel paese andare in bicicletta con una tunica lunga fino ai piedi con solo due piccoli buchi per gli occhi - l'abaya. Provare per comprendere quanto sia difficile, per una donna, vivere nella loro società classista e maschilista. Sarebbe sufficiente calarsi nella vita dell'altra e sentire quanta sofferenza gratuita percuote la sua vita. E dire che da qualche parte, nel Corano, ci sarà pur scritto come nel Vangelo "Non fare agli altri, e dico io - alle altre - quello che non vorresti fosse fatto a te". Perché è così difficile calarsi nello sguardo altrui? Perché è impossibile vedere il modo di essere dell'esistente e lasciare così spazio all'irrompere del male? Ovunque.

Oggi è martedì 31 maggio 2016 e ieri ho iniziato a scrivere pensando di raccontare quanto scandalo può provocare nel mondo islamico una donne che va in bicicletta, sia in paesi lontani sia qui vicino, ad esempio, a Milano.

Nel passaggio tra l'Arabia Saudita e Milano ecco che accade un urto che tutto sconvolge e lascia me più che viva, superstite. E non dico: "mai più" perché so che tra tre giorni - questa è la media - un'altra donna verrà uccisa perché ha detto, sta dicendo e dirà "basta" al suo ragazzo o al suo compagno o a suo marito, come è accaduto domenica notte a Sara. Due mesi fa ha detto basta a Vincenzo. E Vincenzo non sopportando che la loro storia fosse finita, ha "finito" Sara per sempre. Forse prima l'ha tramortita poi le ha dato fuoco. Ma le donne rispondono.

Come dice Natalia Aspesi "È successa una cosa terribile negli ultimi decenni: in Occidente le donne sono diventate, o meglio si sentono alla pari, non hanno bisogno di un uomo per sopravvivere, sono libere di scegliere come impostare, nei limiti di quello che oggi si può ottenere, la loro vita e i loro amori, senza chiedere il permesso a nessuno". Allora molte cose non tornano. Oriente e Occidente così diversi tra di loro, l'uno governato da un potere religioso fuori dal tempo e dalla storia e l'altro laico e democratico hanno, per vie diverse, una meta che li accomuna. Faccio due esempi.

In un'intervista Ali Abu Shwaima, presidente del centro islamico di Milano considera la donna un diamante, una cosa sacra, una cosa di valore che va protetta e non va messa in mostra. Per questo motivo non può andare in bicicletta, può andare invece in Cadillac o in Mercedes. Sempre nella stessa intervista quasi tutti i mariti musulmani dichiarano che le loro mogli stanno in casa e uno sottolinea che anche l'unghia del piede della donna è una parte intima del suo corpo e quindi non va mostrata. Quando leggo o ascolto questi discorsi vengo travolta da una rabbia profonda che invade tutto il mio corpo: parte, appunto, dall'unghia del piede e arriva alla radice dei capelli.

Il divieto di andare in bicicletta, per tutti, è una questione di pudore per la donna stessa. Purtroppo le donne italiane, anche le milanesi, continuano ad andare in bicicletta e questi poveri musulmani rimangono allibiti da tanta sfacciataggine e impudicizia. Non solo. Le donne rispondono. A Milano l'Istituto "Luigi Cadorna" grazie all'impegno di "Mamme a scuola" ha organizzato un corso di biciclette per donne di tutte le età e di tutti i Paesi. Condivido il desiderio che viene da più parti di dare il premio Nobel per la pace alla bicicletta. Sono ritornata alla bicicletta ora l'appoggio al muro per poi, dopo, riprenderla.

Ecco il versetto del Corano (2:223): "Le vostre donne sono come un campo per voi, venite dunque al vostro campo a vostro piacere". Per Maometto siamo un campo, per il presidente del centro islamico di Milano noi donne siamo un diamante, una cosa sacra che va protetta e non va messa in mostra. Insomma, una cosa preziosa, ma pur sempre una cosa. Qui da noi, in Italia, nel momento in cui una donna decide autonomamente e si fa grande nella consapevolezza della propria libertà, viene eliminata perché gli uomini - non tutti - non accettano che l'oggetto - la cosa - di loro proprietà possa rifiutare il loro potere di decisione. In questi primi cinque mesi dell'anno 58 uomini hanno ucciso la loro compagna - la cosa di loro proprietà, appunto.

Quindi Paesi Musulmani e Occidentali tra di loro così diversi hanno in comune la disperata e disperante volontà di controllare "la cosa" che cosa non è perché siamo noi donne. E le donne da sempre rispondono. Ecco cosa dice a Torino Shirin Ebadi, l'avvocata premio Nobel per la pace: "Se uscissi così per le strade di Teheran sarei arrestata e condannata alla galera: non portare il velo da noi è reato... Io vorrei chiedere alla signora Mogherini di non portare il velo quando andrà in Iran... " .

Sara Kan ha fondato un piccolo e geniale movimento che ha contribuito a portare avanti una idea giusta: non si può combattere il fondamentalismo di matrice islamista se le donne dell'islam non condanneranno all'unanimità la condizione di schiavitù in cui, tra lapidazioni, infibulazioni, stupri, matrimoni infantili, torture, frustate, spesso vive una donna musulmana. Nella società arabo-musulmana la violenza praticata sulla "cosa" è istituzionalizzata, da noi invece ci sono le leggi che dovrebbero proteggerla, ma "ancora una volta ci si mobilita... perché governo e Parlamento considerino il femminicidio non un fatto emergenziale ma strutturale, che avvelena la nostra società e i rapporti tra i sessi e che va affrontato in modo non episodico".

In Italia, di uomini come Vincenzo Paduano ce ne sono a migliaia; il femminicidio è il loro gesto estremo, è loro abitudine picchiare e violentare anche se mogli o compagne accettano, (sempre in numero minore) "di essere sottomesse, vuoi perché non corrispondono comunque alle loro aspettative di uomini padroni, vuoi perché fare violenza a una donna è per loro un modo di affermarsi come maschi... ). E apparentemente sono uomini normali. Per parenti, amici, conoscenti sono persone gentili, educate. Oggi è martedì e un po' in anticipo rispetto alla media dei femminicidi un uomo ha ammesso di aver avvelenato la compagna, incinta, con soda caustica diluita in una bibita in bottiglia. E anche qui chi li ha frequentati parla di una coppia innamoratissima, molto unita e tranquilla.

Come sempre la realtà è molto più complessa delle mie parole. Ci sono moltissimi aspetti da indagare e quando accadono femminicidi come quello di Sara dove compare anche "l'atrocità della violenza sterminatrice del fuoco" si alzano voci autorevoli come quelle di Natalia Aspesi, di Massimo Recalcati, di Michela Marzano, di Michela Murgia, giusto per citare chi ha scritto gli articoli che ho letto. Ci si indigna poi che si fa?

Sono un'artista e nel mio lavoro non ho mai perso di vista il mio essere una donna e nel campo dell'arte, seguo un processo creativo che tiene insieme femminismo e coscienza ecologica, anche se termini come femminismo ed ecologia sono stati abilmente svuotati di senso. Nell'inverno scorso ho realizzato un concerto a più corpi dal titolo Ritratti di donne in bicicletta. In questo tempo di notte fonda mi sono identificata nella vita di donne ravennati del passato e del presente per riportare alla luce una storia fatta di materia vivente. Il concerto inizia con la voce di Gian Luigi Tartaull che dice: "Io sono Silvana e vengo da Novi Ligure. La prima volta che sono venuta a Ravenna ciò che più mi ha colpita è vedere tutte queste donne andare in bicicletta... ".

Il concerto prosegue con azioni di più corpi, suoni e la voce di Tartaull che contemporaneamente esalta la vita di grandi donne. "Io sono Argia, io sono Isotta, io sono Giorgina, io sono Cordula, io sono Augusta... ". Un uomo, con la sua voce, s'immedesima nella vita dell'altra e ne riconosce l' irripetibile unicità. Questa mi sembra una gran bella risposta a tutti quelli che si sentono padroni della "cosa" che in realtà siamo noi donne e la nostra vita.

Riprendo la bicicletta che avevo appoggiata al muro e me ne ritorno a casa, apro l'armadio, prendo il vestito rosso e lo appendo alla finestra. Mi chiama una vicina di casa e mi dice di ritirare il vestito rosso perché sta piovendo (Nell'articolo Le donne stanno male racconto le ragioni culturali che conducono all'incapacità del pensiero umano di conoscersi nella dualità di uomo/donna).