La modernizzazione avviata prepotentemente nell’ultimo quarto del secolo XIX ebbe come conseguenza, oltre al rapido sviluppo urbano, pure la domanda crescente di oggetti che avessero una qualificazione artistica da parte di un pubblico sempre più vasto e ansioso di una promozione sociale. Gli oggetti per l’arredamento e la decorazione, da tempo immemorabile frutto di perizia e di amori artigianali, con l’avvento dell’industrializzazione corsero il rischio della serialità e della ripetizione. Il modernismo, in tutte le sue declinazioni nazionali, volle dare una risposta a queste esigenze, creando, nei vari ambiti artistici, uno stile nuovo [1].

L’Associazione degli artisti figurativi dell’Austria, costituitasi il 3 aprile 1897, passata alla storia dell’arte con il nome Secessione di Vienna, caratterizzò gli episodi più affascinanti e fecondi della storia della cultura austriaca. Una corrente di pensiero, poi, non poteva certo non avere il proprio organo di stampa. Sembra che gli artisti, nella ricerca di un nome, abbiano voluto mutuare l’uso storico di alcune popolazioni che consacravano i nati nella primavera alla divinità e venivano così destinati, “una volta adulti, a lasciare la patria per fondare, con le proprie forze e con propri obiettivi, una colonia, una nuova comunità” [2]: pensarono così, con l’acume di chi apre un percorso, di proiettare nel futuro dell’arte l’antico costume. Quel nome: Ver Sacrum, già delineato al principio del 1897, fu vagheggiato e accettato nel ricordo della “Primavera sacra”. Il modernismo ebbe da subito un afflato invasivo e, forse per tale motivo, fu al suo apparire presentato “dagli studiosi che trovano sempre una risposta ad ogni domanda”, come stile frivolo e non degno di uno spazio nel contesto della storia dell’arte: conseguente fu, appena passato il suo tempo artistico, la distruzione degli oggetti che quello stile tramandavano.

In Italia questa nuova corrente, sul piano stilistico, si indirizzò verso l’adozione di una linea dall’andamento flessuoso, ondulato (anche se, in fase secessionista, le linee si irrigidirono) e verso la predilezione per i temi naturalistici, derivati dal mondo vegetale (il giglio, per esempio) e animale (i rettili, i molluschi, gli insetti) [3]. Qui il gusto modernista, che viene comunemente chiamato floreale o liberty, ricevette la sua consacrazione e visse il suo momento di maggiore successo nel 1902. In quell’anno a Torino si aprì una grande esposizione internazionale di arte decorativa: proprio grazie alle importazioni della ditta londinese di A. Lasemby Liberty, il giapponismo trovò il suo spazio di diffusione e conquistò rapidamen¬te il pubblico, entrando a far parte dell’arredamento obbligato di ogni salotto chic.

Ovviamente l’esposizione torinese, che presentava molti oggetti realizzati secondo il nuovo stile, oltretutto in padiglioni di imprevedibile audacia avanguardista, fu il punto di arrivo; il lavoro di preparazione si era svolto negli anni precedenti. Già nel 1895 il critico d’arte Vittorio Pica aveva fondato la rivista Emporium, con intenti simili all’inglese The Studio, ugualmente attenta a quanto di nuovo stava accadendo in campo artistico; e già nel 1890 Alfredo Melani, uno dei più competenti teorici del nuovo stile, aveva pubblicato Arte utile, dal titolo così significativo e negli anni successivi aveva collaborato a riviste molto seguite come L’Arte italiana decorativa e industriale e L’Arte decorativa moderna [4].

Il modernismo nostrano però, nonostante alcune buone realizzazioni, fallì nei suoi propositi iniziali, quelli di mettere a disposizione di tutti oggetti artistici e di salvaguardare, nelle varie arti, la purezza stilistica. Infatti il liberty divenne ben presto un fenomeno d’élite e le contaminazioni del nuovo stile con il classicismo non tardarono a riportare le arti a una situazione di generale eclettismo. La disponibilità al compromesso, cioè alla contaminazione stilistica propria del liberty, ne fece un movimento moderato, che ben si prestò a esprimere “l’inconsapevole ottimismo dì una società che si scopriva in felice progresso”.

Di questo fenomeno, che si appannò quasi con la stessa rapidità con la quale si era imposto, ne diede una corretta interpretazione Federico Zeri che scrisse:
Vi sono dei casi, e sono i più numerosi, in cui la distruzione delle produzioni figurative avviene perché giunge un momento in cui esse non sono percepite più come moderne, né ancora come antiche: sembrano semplicemente vecchie. Quindi sono considerate di cattivo gusto e sembra naturale liberarsene. Questo accade anche per gli oggetti. Tutti abbiamo avuto in casa oggetti «art nouveau» e «art déco», di cui ci siamo liberati con soddisfazione perché li consideravamo un vecchiume che non volevamo più vederci intorno. Ci siamo liberati di mobili, vasi di vetro, servizi di piatti considerati rifiuti di un’epoca sorpassata. Oggi che l’art nouveau viene rivalutata, e la si considera una produzione artisticamente valida, molti di noi rimpiangono le cose bellissime vendute ai robivecchi o, addirittura, gettate via senza nessuno scrupolo e nessuna esitazione [5].

Il modernismo, nella corrente austriaca Sezessionstil, intesa come Flachenkunst, letteralmente arte di superficie - “concetto chiave di tutte le aspirazioni dell’avanguardia viennese [che] rinvia a una produzione imperniata su una resa bidimensionale dell’immagine” [6] e la sua rivista, Ver Sacrum - hanno ora una vasta bibliografia e la giusta collocazione nella storia dell’arte; mi limito qui a ricordare la fonte ove ritrovare le note biografiche degli artisti che la crearono [7] e come le loro opere comunichino in “modo immediato il linguaggio dei simboli [8] ”. Già nell’immagine di copertina del primo numero della rivista Ver Sacrum campeggia il “celebre motivo di Alfred Roller […], un alberello fiorito sul cui fogliame posano tre scudi simboleggianti l’architettura, la pittura e la scultura; le radici dell’alberello spezzano le doghe del vaso di legno diventato troppo stretto” [9].

La Secessione fu, insomma, una ventata gioiosa ma di breve durata, solo cinque anni, iniziata nel suo primo momento con Emil Orlik che “comparve a Vienna come un apostolo errante della moderna xilografia” [10].
Il periodo nel quale fu data alle stampe la rivista coincise con il primo momento della diffusione a livello mondiale della cartolina illustrata. Pure grandi artisti in questo “rettangolino” spaziarono in tutti i settori; anzi si può dire che ne ispirarono alcuni specifici ad uso delle cartoline, dalle immagini esotiche di paesi lontani, alle riproduzioni d'arte, alle vignette umoristiche, dalle fotografie di modelle a quelle di monumenti e alle chiese.

I redattori della rivista Ver Sacrum non si fecero sfuggire la possibilità di tale divulgazione: in molti fascicoli ne inserirono una, sempre diversa e di autori diversi. Nel mondo del collezionismo, oggi, queste cartoline hanno un posto davvero privilegiato. Quante ne siano state diffuse non pare si conosca con certezza; la casa del Ver Sacrum, fra i suoi oggetti in vetrina, vende ai turisti un busta con dodici esemplari, tutti ripresi dalle originali. Queste, però, erano state emesse con “numerazione” all’angolo alto di destra di chi le osserva; nelle riproduzioni invece è stata cancellata la numerazione, creando un motivo in più di incertezza. Infatti negli anni Novanta del secolo XX fu pubblicata a puntate una serie di fascicoli, Il mondo delle cartoline [11], poi rilegata in tre volumi; nel testo, a proposito delle cartoline emesse con la rivista Ver Sacrum, si legge:
Nel 1898, in occasione della prima mostra importante della Secessione, la sua rivista Ver Sacrum pubblicò una serie di 12 cartoline, riproducenti con originale impaginazione vari disegni della rivista. Dal catalogo internazionale Neudin risulta che nemmeno i collezionisti più avanzati e specializzati posseggano più di sei pezzi. E’ quindi assolutamente eccezionale l’insieme fotografato in Il mondo delle cartoline, nel quale viene presentato il collezionista […] con sette esemplari [12].

Non è il vero motivo di interessamento quello che consente, qui, di presentare una raccolta con otto esemplari; la curiosità sta nel fatto che una cartolina di questa serie non è nota neppure alla casa del Ver Sacrum: è quella con la numerazione in angolo “11”, che però non è contenuto fra i dodici esemplari ufficiali. Pertanto il loro numero ormai sale, certamente, almeno a 13 e viene il dubbio che questo “numero 11” possa essere un unicum. Credo doveroso aggiungere questo piccolo tassello alla storia del Ver Sacrum e mi fa piacere presentare questa nuova immagine, in calce alla quale è evidente la sigla dell’autore, salvo conferma degli specialisti, Adolf Böhm.

Note:
[1] Aa. Vv., Storia dell’arte italiana, vol. IV, Electa-Bruno Mondadori, Milano 1986, p. 203.
[2] Aa. Vv., La “Primavera sacra” della Secessione viennese, una prima ricostruzione, Gustav Klimt e le origini della Secessione viennese, Fondazione Antonio Mazzotta, Milano 1999, p. 11.
[3] G. Briganti et al., Continuità e fratture nell’Italia del decollo industriale, Storia dell’arte italiana, cit., p. 202.
[4] Giorgio Gaggero, Sensibilità liberty nella poesia italiana, Il primo Novecento in Italia, 1900-1925, Istituto Italiano di Cultura, Barcellona 1986.
[5] Federico Zeri, Dietro l’immagine, Longanesi ed., Milano 1987, p. 105.
[6] Aa. Vv., La “Primavera sacra” della Secessione viennese, cit., p. 9.
[7] Id., pp. 226-231; I principali fautori di questo movimento furono Gustav Klimt, Egon Schiele, Koloman Moser, Otto Wagner, Joseph Maria Olbrich e Joseph Hoffmann, morti quasi tutti nel 1918 a causa della pandemia di influenza spagnola (Wikipedia).
[8] (De) Hans-Ulrich Simon, Sezessionismus. Kunstgewerbe in literarischer und bildender Kunst, Stoccarda, J. B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1976; Otto Wagner, Giuseppe Simonà, Architettura moderna e altri scritti (Moderne Arkitektur, Wien, 1896-98-1902), Bologna, Zanichelli [1980], 1990; Rossana Bossaglia e Christian Benedik, Ver Sacrum. Rivista d'arte della secessione viennese 1898-1903, a cura di Marina Bressan e Marino De Grassi, Mariano del Friuli (GO), Edizioni della Laguna, 2003; Marian Bisanz-Prakken, Carlo Mainoldi e Licia Fabiani, Gustav Klimt e le origini della Secessione Viennese, Milano, Mazzotta, 1999; Eva Di Stefano, Secessione viennese. Da Klimt a Wagner, Dossier d’art, Firenze, Giunti, 1998; Alfred Weidinger, Agnes Husslein-Arco e Arianna Ghilardotti, Klimt nel segno di Hoffmann e della secessione. Catalogo della mostra (Venezia, 24 marzo-8 luglio 2012), Milano, Il Sole 24 ORE, 2012.
[9] Aa. Vv., La “Primavera sacra” della Secessione viennese, cit., p. 16.
[10] Id., p. 145.
[11] Il mondo delle cartoline : storia, arte, costume, collezionismo. – Novara, De Agostini, ©1995-1996.
[12] Era riportata la foto del collezionista con in mano il ventaglio delle sue sette cartoline.