Il dominio degli elementi naturali è stato il territorio incontrastato delle antiche dee. Queste si sono fatte portatrici di una dottrina rivelata alle donne fin dai tempi più lontani, quando un’organizzazione spontanea della società ha assegnato al maschio le funzioni proprie della protezione del gruppo, della caccia, della guerra, e alle donne i compiti interni al villaggio, la raccolta delle erbe, la manipolazione delle materie prime, la cura dei bambini, dei vecchi, degli ammalati. E proprio la dimensione circoscritta, intima, dello spazio d’azione femminile, sarebbe diventata il tratto fondamentale del contributo culturale delle donne, destinato a dare migliore espressione di sé nell’esperienza “claustrale”.

Le competenze legate alla cura e alla medicina hanno rappresentato, nella storia della cultura femminile, una sorta di anomalia, una concessione accordata con il beneplacito maschile: un’arma che nei secoli si è rivelata ambivalente per le conseguenze prodotte: da un lato, una fortezza della sapienza muliebre, dall’altro, fonte di discriminazione e di pregiudizio. Alle donne era accordato il diritto di detenere la conoscenza quando questa fosse di natura informale, tramandata nei termini dell’oralità, attraverso un’esperienza fortificata dall’osservazione, dalla ripetizione e dal consolidamento dei saperi. Una modalità assai diversa da quella della cultura maschile, che era invece di stampo dottrinale, fondata sui libri e sulle accademie. Gli uomini avevano assegnato a se stessi il mondo delle parole, lasciando alle donne quello delle cose.

L’acquisizione di sapere scientifico permetteva alle curatrici di agire in campo terapeutico proponendo una visione dell’essere umano che potremmo definire “di genere”, più integrata al cosmo, mediata dall’approccio tipicamente femminile di umiltà e rispetto, del tutto diverso dall’intervento maschile di controllo e dominio sulla natura. E non è un caso se straordinarie figure di donna medico siano fiorite, in ogni epoca, all’interno della dimensione della scelta religiosa: le pizie, le sacerdotesse, le vestali, poi le monache e le badesse, vivificavano attraverso il ruolo di curatrici le antiche prerogative delle dee taumaturgiche.

Lo spazio del tempio (in seguito del monastero) in tutte le civiltà è stato il luogo dell’accoglienza e della cura: allo stesso tempo ha rappresentato per molte donne, attraverso la rinuncia alle prerogative del ruolo di sposa e madre, il privilegio di una condizione di parità sociale con il mondo maschile unica e straordinaria. Nel Medioevo cristiano, poi, l’applicazione ai mestieri della medicina configurò il coronamento dell’attitudine femminile alla dedizione alle cose del corpo e dell’anima, approfondita da curiosità botanica e spirito indagatore. Accostarsi al corpo malato del paziente, percepirne la sofferenza, toccarne le piaghe, oltre a farsi atto di umiltà ed espiazione rappresentava uno strumento di sublimazione e affermazione della superiorità dello spirito. Intorno all’anno Mille, la figura eccezionale di santa Ildegarda di Bingen sarebbe diventata il simbolo della capacità femminile di costruire attorno al tema della cura non solo sapere scientifico bensì una vera e propria filosofia della salute.

Già in epoca classica un intero immaginario cosmologico e mitico faceva da supporto alla medicina femminile. Un immaginario che riportava alle più antiche divinità femminili dell’area mediterranea, dee potenti padrone dei cicli vegetativi, sciamane, dominatrici delle fiere e protettrici delle piante magiche e curative. Ed erano soprattutto conoscitrici dei vasti misteri della generazione della vita, così come del suo risvolto oscuro: la morte. Gli archetipi della donna guaritrice che hanno popolato le mitologie antiche hanno forgiato un immaginario della medichessa che è soprattutto maga, ben presto strega. La confidenza con la vis terapeutica delle erbe era considerata parte integrante di un sapere esoterico, dai risvolti talora oscuri, di cui sapevano appropriarsi donne sagge e misteriose, potenti ma anche temibili per la femminilità selvaggia e per la troppa vicinanza con figure arcaiche e temibili. Il percorso che porta da una visione della sacerdotessa guaritrice verso il prototipo della strega destinata ai roghi dell’Inquisizione ha avuto un’incubazione remota, che affonda le sue radici in una misoginia ben precedente all’avvento della cristianità.

Al decadere di un’era arcaica ancora aperta alla dimensione del femminile si impose l’avvento di una nuova visione del mondo, quella androcentrica portata dai popoli indoeuropei in un lasso di tempo dilatato fino alle soglie del I millennio a.C. e dilagata ben presto in tutto il mondo mediterraneo, foriera di un nuovo assetto patriarcale e guerriero che destabilizzò l’autorità delle antiche dee madri. Un moderno universo concettuale, guidato dalla dominanza della ragione, che scalzava l’antica percezione magica e mistica dell’esistenza, più vicina alle donne. Fu quello un momento cruciale per il sapere medico muliebre, il quale, se era stato per lungo tempo accettato come parte naturale della polarità femminile, entrava ora in collisione con il nuovo ordine: fu tacciato di alimentarsi di dottrine occulte, esoteriche, capaci di sovvertire l’assetto naturale del creato. La medicina femminile cominciò a spostarsi verso un cono d’ombra che la portò gradualmente a scivolare nella clandestinità.

Le donne tuttavia si abituarono ben presto ad agire nel mondo come antagoniste e a lottare per non vedere sopraffatti i propri talenti. L’universo della conoscenza medica femminile si è mantenuto variegato e ricchissimo. L’applicazione di tali saperi ha rappresentato il recipiente dove riversare intuito, sapienza empirica, ispirazione, spiritualità. Ne sono scaturiti approcci assai diversi, e all’interno di questi si sono imposte figure di grande spessore.

A discapito di ogni difficoltà l’evidenza storica ci racconta che la professione femminile rimase sempre vitale e attiva. Le donne medico operavano soprattutto come curatrici di altre donne, in campo ginecologico e ostetrico, ma erano spesso versate nella medicina generale o in altre specialità. Il loro esempio fornisce uno squarcio imprevedibile di indipendenza professionale, coronata dalla sopravvivenza di opere scritte che, proprio perché sappiamo prodotte da mano muliebre, suscitano l’entusiasmo dell’eccezionalità, costituendo un’inaspettata incursione nel mondo maschile dei libri e delle parole.

Così è avvenuto per la medichessa e ostetrica bizantina Metrodora, che tra il V e il VI secolo scrisse il trattato ginecologico Sulle malattie delle donne. La sua opera presenta tutte le peculiarità che ritroveremo intatte alcuni secoli più tardi nella trattatistica ginecologica di Trotula de Ruggiero, a dimostrazione che la staffetta dei saperi non si era interrotta nei secoli, sebbene la nostra frammentaria conoscenza poggi sui fortunosi frammenti rimasti. Trotula, che ha operato nel vivace ambiente culturale della Salerno dell’XI secolo, all’interno di una rinomatissima scuola medica incredibilmente aperta alle donne, ci ha regalato un trittico di sapienza tutto al femminile, espresso nei trattati Libro sulle malattie delle donne, I trattamenti per le donne e La cosmetica delle donne. Secondo gli schemi tipici, vengono elencate le principali problematiche dell’apparato riproduttivo femminile, le malattie peculiari, i disturbi della gravidanza e del parto, nozioni di puericultura e ampie concessioni all’arte cosmetica. Il tutto fondato sui principi della medicina di Ippocrate, ma abbondantemente condito di sapienza popolare e di residui di superstizioni consolidate attraverso le generazioni.

I nomi noti dell’antica medicina femminile sono soltanto lo strato visibile di un mondo sommerso fatto di numerosissime donne che hanno messo le loro competenze al servizio della comunità. Il loro intervento, variegato per tipologia e caratterizzazione, comprende il contributo della medichessa dotta, ma anche dell’ostetrica di campagna, dell’erbaria, dell’esperta di incantamenti. Si è trattato spesso di esistenze umbratili, al confine tra l'applicazione di una medicina lecita e saperi più oscuri, quelli delle pratiche proibite della contraccezione e dell'aborto, o quelli legati alla magia degli incantamenti amorosi e della fertilità.

La dea, la pizia, la maga; la levatrice, l’erbaria, la medichessa; la sacerdotessa, la vestale, la badessa, la santa. Infine l’alchimista e la strega. Queste figure, riflessi vividi dell’universo culturale femminile, non hanno rappresentato che profili diversi di uno stesso volto. Definizioni alle quali le donne stesse saranno debitrici del giudizio della storia.

In collaborazione con: www.abocamuseum.it