Era l’età mia della primissima giovinezza e potrebbe sembrare una narrazione del XIX o forse del XVIII secolo; era invece l’età della mia primissima giovinezza, con esperienze di appena ottant’anni addietro. Sono momenti di vita vissuta sia nella preparazione al lavoro che nell’ingresso nella vita sentimentale. Un campo arduo, quest’ultimo, poiché nella costumanza del piccolo paese il rapporto con l’altra metà del cielo era tabù. Reso ancora più complicato dal fatto che, malgrado mi reputassi un brutto anatroccolo e per di più modesto e squattrinato (provengo da famiglia contadina [1]), avessi invece lineamenti fisici non sgradevoli: e tuttavia dei “messaggi criptici” che mi pervenivano non ne capivo il senso. Il mio è stato un salto nella vita senza la pedana.

In uno degli ultimi giorni di ottobre di quel 1945, in viaggio verso Palermo, alla stazione ferroviaria di Zappulla montai su un oggetto, mobile perché trainato, sbuffando, da una vaporiera tutta nera che ornava del nero del fumo che soffiava verso il cielo tutto quanto incontrava lungo il suo tragitto. Lo chiamavano pomposamente “treno”, anche se il suo giusto posto sarebbe dovuto essere un capannone per la rottamazione, ma, finito da qualche mese il quinquennio bellico, … quello passava il governo. Era una sequela di carri, con classe unica, dotati di sedili in legno, sei posti a sedere in ogni scompartimento, ma nel quale in ogni sua corsa sostavamo da dieci a dodici viaggiatori. In ogni stazione il convoglio faceva una lunga fermata con nuovi arrivi e partenze, queste ultime sempre in numero maggiore rispetto ai primi. Ovviamente non si badava al sesso dei viaggiatori e gli ultimi arrivati non potevano avere che posti in piedi. Mi capitò la fortuna che dallo scompartimento nel quale entrai, a Zappulla, scese un’intera famiglia di cinque persone: uno di quei posti fu mio.

Alla successiva stazione di S. Agata di Militello vi fu un assalto: fra i nuovi arrivati vi fu una donna circa venticinquenne che, come me, doveva recarsi a Palermo. Seppi durante il lungo percorso, avendo intavolato una conversazione a bassa voce e quasi confidenziale per quel poco che consentiva la ressa, che andava a completare le pratiche per l’espatrio verso il Venezuela. Dopo un paio di stazioni le offrii il mio posto che decidemmo di scambiarci ogni mezzora. Ma mi accorgevo che sia se era in piedi che quando si poneva a sedere si metteva in modo che le sue contattassero le mie gambe: e così per tutto il viaggio che non si concluse con l’arrivo a Palermo perché pure lei aveva come meta Piazza Marina. Con una carrozzella che volle pagare lei, dopo essersi scritto il mio indirizzo, arrivammo a destinazione; mi abbracciò calorosamente e si congedò dicendomi che ci saremmo visti il giorno dopo, allo stesso posto, se non avesse avuto imprevisti ma che comunque mi avrebbe scritto.

Non la vidi più. Prossimo ormai alla laurea, in un momento di sincerità, mia madre mi disse che l’anno precedente era pervenuta a casa una lettera di una donna: Chidda pazza era! Ti scriveva che lei ti pensava sempre, che ora era sistemata bene, che in Venezuela c’era lavoro pure per te e che, se la pensavi ancora, ti avrebbe pagato il viaggio per raggiungerla: Chidda pazza era, a strazzai dda littira [2] , mi disse.

Il mio primo impatto con l’Università, a Palermo, non fu dei più semplici. Intanto mi ritrovai immatricolato a Medicina per sbaglio: l’amico di famiglia giustificò l’operato a suo modo, ma gli sono stato grato con il senno di poi. All'epoca abitavo con la mia famiglia a Galati Mamertino, in Sicilia, e dopo l'esame dì maturità, nel 1945, avevo programmato l’iscrizione alla facoltà di Lettere. Ma eravamo appena usciti dalla guerra e non era facile raggiungere Palermo. Così mio padre consegnò tutti i documenti prescritti a un nostro compaesano che sarebbe tornato nel capoluogo siciliano, dove abitava da tempo, da lì a pochi giorni e che aveva assicurato di avere ottime amicizie nella segreteria dell’Università: peccato che invece di trovarmi iscritto a Lettere mi trovai immatricolato a Medicina! Non mi persi d'animo, anche perché qualche giorno dopo, entrato nell'Istituto di Anatomia Umana Normale del Policlinico di Palermo, non sapendo dov'era la segreteria, mi infilai nella prima sala che mi capitò e finii nella sala settòria dove c'erano distesi sei cadaveri per il “corso di pratica” degli studenti; mi resi conto che non facevano tanta impressione e che in fondo potevo continuare.

Ma, quel mattino, ancora gli imprevisti non erano finiti. All’inizio di ogni anno accademico, al tempo, imperava la “goliardia” con regole grezze [3]; vi erano sempre in agguato i fuori-corso e i scarafuna che, avvistata la “matricola”, cercavano di festeggiare a modo loro il nuovo arrivato. La prassi era quella di farsi pagare la consumazione a volontà in un bar o in una pasticceria. Una frotta di questi scapestrati - in un momento di difficoltà economica come quella che affliggeva le famiglie nel 1945 - metteva in seria difficoltà il malcapitato: si arrivava a prendergli il portafogli e a spendere tutto quanto in esso contenuto. Quel mattino dovendomi recare all’Università, ancora non edotto del regolamento della Casa dello studente, avevo creduto opportuno non lasciare incustodito quel “quantum” che la famiglia mi aveva potuto dare per sopravvivere a Palermo sino a Natale; per fortuna da uno dei dirigenti ero stato messo in allerta sul fenomeno della goliardia e quindi stavo con le antenne alzate.

Mi accorsi in tempo nell’androne delle segreterie del segnale di adunata per “preda” avvistata, riuscii a prendere le scale e, abituato alle mie montagne, me la diedi a gambe. Imboccai via Maqueda in direzione dei Quattro Canti, inseguito da una canea che diventava sempre più folta; non tutti reggevano la mia corsa ma alcuni cominciavano a essermi da presso e sarebbe bastato che uno mi avesse afferrato per divenire preda di quei – a loro modo – buontemponi. Visto il pericolo di essere alfine raggiunto, ormai davvero spaurito, mi infilai nella porta di un negozietto. La canea non osò invadere il locale ma ne ostruì l’uscita. Evidentemente il proprietario aveva visto già qualche altro episodio simile: mi chiese che accadeva e gli raccontai che se fossi stato raggiunto da quella marmaglia mi avrebbero consumato quanto avevo in tasca e non mi sarebbe rimasto – ormai senza un soldo - che tornare in paese. Andò sull’uscio e intimò chiaramente che nessuno avesse osato di entrare poiché avrebbe chiamato la polizia. Risposero che loro non avevano fretta e che avrebbero presidiato l’ingresso senza fare entrare neppure i compratori.

Quel signore doveva essere un duro se, chiusa la porta, volle conoscere le mie vicende; gli mostrai il documento universitario appena ricevuto in segreteria, gli raccontai del mio stato sociale: il denaro che avevo in tasca era tutto quanto, in contanti, la famiglia possedeva e mi aveva dato alla partenza. Comprese perfettamente e mi disse che si voleva divertire a sondare la resistenza di quegli sfaticati. Non ho avuto la possibilità di sapere come fosse finita: la bottega aveva una finestra che dava nel cortile del palazzo; me la indicò e, attraversata l’uscita, mi ritrovai tra la folla che transitava su via Vittorio Emanuele. A Piazza Marina [4], grazie all’amicizia con Paolo [5], per il primo anno dell’università riuscimmo ad accedere alla graduatoria per una stanza della “Casa dello studente”. Era appena terminata la guerra e l’arte di arrangiarsi per sopravvivere era la norma. Nella “casa dello studente” si pagava una cifra simbolica nella quale era compreso pure l’uso della corrente elettrica solo per l’illuminazione. Noi due avevamo ideato un marchingegno che ci consentì di inserire su uno dei fili una presa sulla quale attivare una piastra elettrica con la quale cuocere nella stanza un piatto di pasta. Forse non fummo i soli: la bolletta elettrica lievitò e per l’anno successivo molti non rientrammo nella lista dei beneficiari. Nota curiosa era stata per me, in quell’anno accademico 1945-46, assistere, davanti al vicino Tribunale, alle file litigiose (a causa della limitatezza del numero dei posti d’accesso) dei fanatici frequentatori dello svolgimento dei processi penali, particolarmente di quelli “d’onore” o di quei reati ingigantiti dall’interesse della stampa.

Eravamo entrambi matricole di Medicina e Paolo, per aiutare il nostro studio dell’Anatomia umana normale, si era premurato di comprare uno scheletro che l’anno successivo – avendo cambiato facoltà - portò nella sua casa di Frazzanò, frastornando la nonna Rosina. Infatti non avendo più interesse di studio per quel reperto, Paolo si divertì a spaventare la nonna riempiendone il torace con stoppa e lupini che, opportunamente bagnati, germogliarono: a volte faceva trovare sul tavolo il trofeo, provocando l’ira della nonna, accompagnata ovviamente dalla sua giovanile ilarità.

E finalmente fu primavera, giunsero le belle giornate, si studiava certo ma si gironzolava pure e poteva capitare, come capitò, che si incontrasse per via qualche musetto accattivante. A Palermo, città della Sicilia occidentale, abbondavano biotipi femminili magrebini, spesso affascinanti: e poi “lei” aveva una chioma corvina lunga e addomesticata in due trecce che scendevano sino al punto vita, una per ogni lato, e si concludevano ciascuna con un boccolo. Come non gratificarla di un sorriso e non chiederle di ricambiarlo? Infatti lo ricambiò. Lo zio, sott’ufficiale dell’Arma, aveva ritenuto corretto non abbandonare la sorella, vedova con due figlie, e le aveva trovato, nei limiti consentiti dalle disponibilità del tempo, in una città uscita dalla guerra [6], una sistemazione sotto un tetto: due stanzette con servizi approssimativi al pianoterra di uno degli stabili ritenuti abitabili, affacciati sull’ampia piazza Marina.

Il rapporto fu di simpatia ‘pulita’ soprattutto perché lo studio, nella faticosa facoltà, non consentiva eccessive distrazioni e in quel primo anno di frequenza su quattro materie di esame, tre le superai, inorgogliendo mio padre e mia madre: in paese si ricordava l’esperienza di un altro figlio di contadino che, andato in città, non aveva dato buon esempio; era tornato ai campi in malo modo e nella memoria paesana era rimasto proverbiale. Rientrato a Palermo all’inizio del secondo anno di corso trovai una novità non fattami conoscere per lettera dalla ragazza: lo zio sottufficiale aveva trovato modo di collocare la sorella in un appartamentino al quarto piano di un altro edificio prospiciente piazza Marina, prossimo al porto commerciale. La lontananza estiva tra il primo e il secondo anno non solo aveva rinfocolato la simpatia per i boccoli e aveva attutita la primitiva spinta allo studio, ma accaddero due imprevisti. Mese dopo mese, mentre si avvicinava la primavera, sentivo sempre più pressante la vicinanza della sorella, di qualche anno più grande; inoltre ogni volta che salivo o scendevo le scale, dalla porta d’ingresso dell’appartamento accanto, posto sul pianerottolo, faceva capolino una biondina sempre in vestaglia distrattamente discinta.

Questa intrusione non era sfuggita alle due sorelline che mi misero subito in guardia: “Attento, quella è la pupa di… ”. E il “padrone” della pupa – è chiaro il concetto - aveva pure lui alzate le antenne e, una volta che lo incontrai per le scale, mi fece una brutta impressione; soggetto oltre la quarantina, mi ricordò la caricatura del cavallerizzo, gambe arcuate e affrontate a parentesi curva e torace da rachitico pentito: ma quei tipi non si misurano a palmi bensì dalla pericolosità. Questo secondo caso, successivamente al detto fortuito incontro, andò a soluzione qualche settimana dopo: da quella porta non s’affacciò più la pupa e l’appartamento fu occupato subito da altri inquilini. Tuttavia la pupa ricomparve sulla mia strada per un attimo, pericolosamente. Dalla segreteria universitaria, allora posta nel Palazzo dell’Università su via Maqueda, per andare a piazza Marina - a piedi ovviamente - avevo imboccata la Discesa dei Giudici; questa corre subito lateralmente al Palazzo Pretorio, dopo il primo tratto con una curva si avvicina alla chiesa di S. Caterina e infine riprende in rettilineo. Proprio all’inizio di questo, sul lato destro, vi era una palazzina per la quale la guerra sembrava non fosse mai passata e l’appartamento del primo piano aveva pure un terrazzino che affacciava sulla via. Mentre la imboccavo sentivo un insistente psssssssssss, psssssssssssss: alzai la testa e dal parapetto si sbracciava lei, la pupa che mi invitava a salire. Realizzai subito di essere a Palermo e… alzai i tacchi.

All’inizio del secondo anno non entrai fra i beneficiari della Casa dello studente e trovai una camera in un appartamento su via Oreto, più vicina al Policlinico, dove frequentavo il duro corso di Anatomia umana normale tenuto da uno dei docenti più in vista del tempo: Emerigo Luna [7]. Il Maestro aveva, come tanti cattedratici del tempo, l’abitudine di svegliarsi con il gallo e già alle 7 del mattino montava in cattedra per l’ora di lezione. Quindi, pur abitando vicino, dovevo saltare dal letto alle 6 e, senza aver potuto soddisfare il palato, correre a prender posto nell’emiciclo. Per conquistare la prima fila, sì da essere notato dal Maestro, bisognava non indugiare: fare notare la propria presenza in aula era una delle metodiche per una migliore riuscita al momento dell’esame. Conclusa la lezione era rituale, a seguito di ordine perentorio dei succhi gastrici, la fuga verso il cancello del Policlinico, accanto al quale – fornace di carbone già ardente – attendeva il ‘panellaro’. La “ricetta” pane e panelle era – ed è ancora - uno dei più classici e antichi esempi del mangiare da strada dei palermitani. In Sicilia, ma in particolare a Palermo, questo semplice e prelibato panino imbottito si può trovare facilmente in ogni angolo di strada. È qui il caso di ricordare che i cosiddetti ‘panellari’ sono i veri precursori dei moderni fast food: ma che si vuol mettere un panino con la salsiccia o con un hamburger servito da questi con gusto globalizzato, con un trofeo di pane e panelle?

La mia iscrizione alla Facoltà era avvenuta nel corso del primo anno successivo all’armistizio: gli studenti del primo corso eravamo circa 51 e tutti avevamo seguito le lezioni, ma al secondo eravamo iscritti e frequentanti solo in 45. Curiosità che stupì i docenti fu che anche al secondo anno le nove ragazze iscritte al primo erano tutte lì, presenti: i ritirati erano stati solo maschi e uno di questi era stato il mio amico Paolo. Il Maestro aveva subìto un intervento alle corde vocali e le lezioni le dava servendosi di un microfono. Esordì con una battuta, che ricordo come ‘ritratto di un’epoca’ che sembrerebbe lontana secoli e invece ho vissuta; tutt’oggi non mi meraviglia perché tipizza un tempo e un costume in gran parte già superato in Occidente ma che caratterizza ancora alcune civiltà ben prossime alle coste di Sicilia: la donna trattata solo da ‘oggetto femmina’ che si può barattare con venti o cento cammelli a seconda dell’avvenenza. Cito a memoria l’episodio ma senza modificare una virgola del senso di quell’incipit della nostra prima lezione del prof. Luna: Oggi inizieremo a parlare del Sistema nervoso centrale; è quella parte del sistema nervoso degli animali che sovrintende alle principali funzioni di controllo ed elaborazione, contrapposto al sistema nervoso periferico a funzione trasmissiva di stimoli e risposte. Quindi è l’argomento più importante del corso di Anatomia umana normale e richiede da parte vostra la massima attenzione: Chiedo che pongano la massima attenzione pure le signorine studentesse, anche… se penso che nessuna di loro raggiungerà la meta. Nell’aula rimanemmo muti, schiacciati da quell’uscita magistrale che faceva presagire difficoltà impensate per le ragazze. Deve aver percepito lo sgomento provocato, l’oratore; volse intorno uno sguardo, lento ma panoramico all’intero emiciclo, poi si riprese scandendo le parole e con pause studiate si corresse: Ma che dico, che dico… sono tutte delle belle signorine… tutte arriveranno alla meta… Tanto la loro meta… è il matrimonio…. Costernati noi, ma lui, come se nulla fosse accaduto, iniziò la lezione, puntuale e comprensibile pure all’incolto, al punto che alla fine eravamo tutti affascinati e, dimentichi di quell’incipit, come d’uso allora, tutti, pure le ragazze, abbiamo applaudito con vera convinzione.

Scrivevo sopra che mese dopo mese, mentre si avvicinava la primavera, sentivo sempre più pressante la vicinanza della sorella della fanciulla con i boccoli. Era di quattro anni più grande e, evidentemente, più stimolata dagli ormoni; un giorno, un sabato pomeriggio in cui ero libero dalle lezioni, si fece trovare sul mio percorso verso il porto ove avevo l’abitudine di passare un’ora da solo con i miei progetti e le mie fantasie. A pensare a quelle ore, a proposito di porto, con il senno di poi ancora mi vengono i brividi. Il porto di Palermo è sedimentato nel centro storico e, come ha scritto Marc Augé, “non è un anonimo ‘non-luogo’ ma mantiene un forte carisma di identità e di centralità”. E’ la vera porta della città: consentiva quindi, fra le tante altre attività, la fruizione degli sport legati al piccolo diporto dilettantistico. Fra le varie possibilità vi era quella di poter prendere a noleggio una barca a remi, vogare - da solo - fra quelle acque e farsi cullare dal movimento tranquillo delle onde: era uno svago consentitomi dal costo modestissimo. Mi allontanavo di qualche centinaio di metri, muovevo lentamente i remi e tra una fantasia e l’altra, poi scaduta l’ora del nolo, rientravo rappacificato con il mondo. Tutto bene con… incoscienza: non sapevo e non so ancora nuotare.

Ciò è stato sempre un cruccio per mia moglie. Provai da grande, per amore, a togliermi l’handicap. E mal me ne incolse. Accadde che, iscritto a un corso di nuoto presso una piscina della Capitale, avessi seguito una lezione dopo l’altra, imparando gli elementi fondamentali dello sport del nuoto e avevo fatto i primi lanci; ma, malgrado la ginnastica fuori dell’acqua per acquisire la sequenza dell’alternanza delle braccia e delle gambe, quando arrivavo in acqua gli arti superiori non riuscivano a mettersi nella dovuta serialità con gli inferiori. Certo, avevo un senso di rabbia con me stesso; vedevo nei film e nella vita che gatti, cani, cavalli e pure le bufale scese in acqua nuotavano tranquillamente. Mi sentivo una nullità. E quando l’istruttore mi disse: Tuffo!, mi tuffai con bello stile ma di tornare a galla non c’era verso. Arrivai al fondo, nessuno mi veniva in aiuto: con l’istinto di salvezza diedi una spinta disperata verso l’alto e solo quando emerse la mia chioma disfatta l’istruttore, ipnotizzato dal fascino di una ninfa mozzafiato, si accorse del pericolo. Uscii dall’acqua, gli diedi una stretta di mano e gli dissi che con quel tuffo il mio apprendimento dello sport del nuoto era giunto al capolinea. Vi furono altri tentativi, affrontati per fare contenta la mia dolce “mezzamela”. In vacanza a Capo d’Orlando fui accompagnato in un negozio a comprare pinne, fucile, occhiali e boccaglio, fui bardato di tutto punto e quando mia moglie mi disse: Tuffo!, mi tuffai però… mentre le pinne svolazzavano in aria e si godevano i raggi del sole, il boccaglio rimaneva disperatamente immerso. Prima che la situazione fosse precipitata fui portato a riva, spogliato degli ornamenti balneari e graziato. Da allora entro in acqua sin dove “ho piede”, poi coraggiosamente faccio dietro front e mi pongo a sedere in ‘bella’ vista: questa, è lo spettacolo di mia moglie, felice nel suo stile di nuoto pinnato, offerente al sole la sua chioma sempre in ordine protetta dalla immancabile cuffia, che ogni tanto mi guarda e mi inonda con il suo sorriso.

Quel giorno la sorellina della ragazza dai boccoli, che diceva di avermi incontrato per un puro caso peraltro piacevole, mi esternò la sua passione che non voleva essere un affronto per la sua germana. Lei infatti si rendeva conto che io non avrei potuto sopportare a lungo le caste grazie della sorellina; si ‘offriva’ per piccoli incontri non pericolosi… “Tu non conosci Palermo”, mi disse, “c’è la Favorita, te la faccio conoscere io”. Il parco della Favorita è situato ai piedi del monte Pellegrino; fu creato nel 1799 da Ferdinando III di Borbone, transfuga da Napoli, ove regnava col nome di Ferdinando IV, a seguito della Rivoluzione Partenopea. A Palermo pare che il Re avesse voluto ricomporre le bellezze perdute della reggia di Portici. Espropriò tante terre, quanto necessarie a creare un parco di circa 400 ettari: nacque così la Reale Tenuta della Favorita, nello stesso tempo parco, luogo per esperimenti agricoli e riserva di caccia. In tanto spazio, nella selva, c’era sempre modo per trovare l’angolo idoneo per un po’ di privacy: seduti sull’erba secca la giovane espose, unica concessione, le sue turgide grazie. Tornammo forse tre volte a svolgere lo stesso rito ma non riuscivo a stare sereno; sentivo intorno fruscii e mi ‘sentivo’ osservato: evidentemente la stagione ormai estiva faceva pullulare il luogo pure di guardoni.

Tante distrazioni si riverberarono inevitabilmente sullo studio, che non poteva che andare a rilento; a giugno del 1947 mi presentati per l’esame di chimica, ultimo esame del primo anno: fu un fiasco ma ad agosto non tornai in paese proprio a mani vuote. Nel mese di luglio infatti sostenni un altro esame con esito positivo: quel fiasco però mi bruciava dentro. Era stata la prima bocciatura della mia vita. Mi auto-esiliai nella tenutella del giardino dove, ormai vedovo, sostava per l’intera stagione estiva nonno Lapinta e in quella solitudine per tre mesi studiai chimica: l’esame a ottobre lo superai brillantemente.

La permanenza bucolica estiva la ricordo come una delle esperienze più belle della mia vita di studente e mi è piaciuto ricordarla in un capitolo del mio Un paese in montagna [8]: il richiamo della capretta al mattino perché l’avessi liberata dal peso del latte che le congestionava le mammelle; la conseguente scorpacciata di latte caldo, da me appena munto; i piatti di pastasciutta con la salsa del pomodoro appena colto dalla pianta; il frinire dei grilli che accompagnava il melanconico calare delle sera; il fedele topolino, curioso e seduto sulle zampe posteriori sul traliccio per il ricovero notturno delle cannizze con i fichi da tenere al sole a essiccare, intento a cercare di capire il senso di quel mio sostare per ore davanti a un libro; i racconti di nonno Peppi Bbonfigghiu che variavano dalle avventure de I Paladini di Francia alle sue traversie, fortunosamente superate, nel suo ultimo ritorno dalla Merica.

La modesta casa che mi ospitò in quell’agosto del ‘47 era - ed è ancora - posta con il cancello sulla strada comunale interpoderale; oggi quella irta rampa è abbandonata perché sostituita dal collegamento diretto Galati-mare; allora invece, era posta a metà percorso del tragitto che si arrampicava dal livello del fiume, in verticale, sino agli ottocentocinquanta metri sul livello del mare del centro abitato. Quanti affrontavano la salita, assetati, si fermavano a riposare sul muretto di fronte e, di norma, chiedevano il refrigerio di un bicchiere d’acqua e intanto scambiavano qualche frase con il nonno. La mia presenza per una intera stagione estiva in quel luogo fu, nelle conversazioni paesane, argomento di ammirata considerazione e, negli anni dopo la mia laurea, divenne un mito, elaborato in ogni racconto e impreziosito da elementi di fantasia. Del secondo anno però rimaneva inevaso l’impegno più duro, l’Anatomia umana normale.

Il 1947 iniziava con l’ardore di chi, buttate alle spalle gran parte delle sventure sofferte in cinque anni di conflitto, ambiva a ritornare a vivere in un mondo migliore. Veniva approvata la Costituzione italiana; l’ONU dava vita allo stato di Israele; veniva pubblicato il diario di Anna Frank; a Milano veniva inaugurato il primo teatro stabile. La nazione ritornava a essere un grande cantiere e chi aveva iniziativa trovava spazio per nuove avventure. A Galati Mamertino il collegamento viario, pur se irrimediabilmente compromesso sul versante di Tortorici, fu rabberciato sul versante Longi; fu ricostituito un tracciato con passo sufficiente per il transito di un automezzo nel luogo minato dai tedeschi in ritirata e riattivato lo stradale in terra battuta che era stato già approntato prima dello scoppio della guerra da Galati a Longi: era un varco più che uno stradale che poteva essere usato a tempo clemente; la pioggia intensa creava una fanghiglia che in un punto lo rendeva impraticabile. La ditta Urso fece del suo meglio per facilitare la mobilità dei galatesi addirittura ottenendo la concessione di una linea automobilistica Galati-Messina: pionieristica certo, ma preziosa. Iniziò con partenza dal capolinea montano alle ore 2 per potere raggiungere Messina intorno alle 8 del mattino: sei ore di viaggio per coprire la distanza di circa 120 km! Lunga fermata in ogni paese e, a tempo inclemente, trasbordo tra Galati e Longi necessario per superare, a piedi, il guado.

Chi legge oggi avrà un senso di compassione; per noi studenti, invece, fu una meta! Quella linea avventurosa era un cordone ombelicale tra le montagne nebroidee e la città universitaria. Era soprattutto un risparmio considerevole per le spese di mantenimento in città: al mattino partivano derrate alimentari, scatoli con la biancheria pulita… Si ricomponeva insomma il collegamento stabile con la famiglia. Questo fatto nuovo mi consentì di tornare a Palermo per sostenere l’esame di chimica nel mese di ottobre e per ottenere il trasferimento all’Ateneo messinese.

Si esaurì, per lontananza, il capitolo con la fanciulla dai boccoli; molti anni dopo – ero già coniugato con prole - la mia cara mamma mi confessò che aveva ricevuto una lettera, che ovviamente aveva aperta, nella quale mi scriveva che si era trasferita in Svizzera, che era sposata ma che se fossi capitato nella sua nuova patria avrebbe avuto piacere di incontrarmi: Tinciùta, puru maritata era! A strazzai dda lìttira.

Note:
[1] Mi conforta un primato assoluto di tutti i tempi per Galati Mamertino: sono stato il primo studente di estrazione “contadina” ad avere conseguito una laurea e, per di più, in Medicina e Chirurgia.
[2] Quella doveva essere pazza. La lettera la strappai.
[3] Il concetto di “goliardia”, associazione di studenti universitari, sorti poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ha trovato una sua regolamentazione solo di recente con la Sacra Goliae Conphraternita (cfr. internet, ad vocem): “Gli ordini goliardici moderni, sono caratterizzati da una gerarchia ben precisa e definita che ne costituisce lo scheletro portante […]. Contrariamente alle altre, è contraddistinta dalla scarsa fantasia dei suoi aderenti. Così, mentre gli studenti comunisti cercano di trasformare l’Italia in una repubblica socialista, mentre gli studenti cattolici cercano l'ascesi suprema tramite preghiere e fustigazioni, mentre gli studenti di destra perseguano la nascita del quarto reich, i “goliardi” evitano di dire tante “minchiate” e perseguono apertamente gli obiettivi che tutti tengono rigorosamente nascosti dietro le rispettive ideologie: magnare, imbriagarsi e rimorchiare figa”. Nel 1945, epoca alla quale si riferisce l’episodio qui da me narrato, la goliardia non era ancora riunita in confraternita e il suo fine ultimo e più sbrigativo era “magnare e imbriagarsi” sino a quanto consentito dal portafogli del malcapitato.
[4] La piazza Marina è nel centro storico di Palermo situata nel quartiere della kalsa o Mandamento Tribunali; qui al tempo dell’Inquisizione avvenivano le esecuzioni capitali che si svolgevano con un rituale tramandato da Luigi Natoli (alias William Galt) ne I Beati Paoli (Palermo 1984, v. I, pp. 6-7), sempre uguale per ogni tipo di pubblica manifestazione, lieta o funesta. Al centro della piazza vi era - e vi è ancora - Villa Garibaldi, il giardino realizzato all’inizio degli anni Sessanta del secolo XIX, per celebrare la recentissima nascita della nazione italiana. Tra le tante piante esotiche che si trovano all'interno il ficus è sicuramente l'attrazione principale essendo considerato uno dei più vecchi e grandi d'Italia.
[5] Paolo Zingales fu il mio amico per la vita; da liceali il nostro rapporto amicale fu così sincero che lo mantenemmo sempre immutato e ancora oggi continua con la famiglia, dopo la sua dipartita; fu così tenace che, essendoci, casi della vita, innamorati della stessa ragazza, invece di litigare fra di noi… decidemmo di lasciarla tutti e due.
[6] In piazza Marina il 22 marzo 1943, in pieno giorno, avveniva un bombardamento lungo la fascia del porto che causava danni alla Chiesa di S. Maria di Porto Salvo; il 9 maggio fu danneggiata la Chiesa di S. Maria dei Miracoli; ma non vi erano edifici nella piazza che non avessero avuto almeno un segno da quella serie brutale di aggressioni aeree alla città che portava – e oggi porta ancora quanto rimasto e restaurato – i segni di una civiltà millenaria.
[7] Emerigo Luna nel 1919-20 fu incaricato dell'insegnamento ufficiale dell'Anatomia umana normale e della direzione dell'istituto presso l’Università di Palermo, dove aveva studiato, si era laureato e percorso la sua carriera scientifica. Nel 1922, infine, superato il relativo concorso, divenne Professore ordinario. Il Luna fu un valente didatta: alla sua scuola si formarono numerosi allievi, alcuni dei quali emersero brillanti ricercatori, quali I. Fazzari, A. Monroy, A. Pasqualino. Fornito anche di un'eccellente formazione clinica, fu il primo a introdurre in Italia l'insegnamento dell'anatomia radiologica nel vivente. Di non minore rilievo fu la sua attività scientifica, che lo vide impegnato in una nutrita serie di ricerche. Al termine del suo insegnamento, il Luna ebbe il titolo di Professore emerito dell'Università di Palermo. Appartenne a varie società e accademie scientifiche e fu fondatore e segretario, per tutta la vita, della Società italiana di anatomia. Morì a Palermo il 4 dic. 1963 (Enc. Ital. Treccani, ad vocem).
[8] Vicario, cit., I ed., Roma 1973, pp. 93-95.
[9] Alcuni anni dopo, intorno al 1947, vi furono vari tentativi di ripristino di quel bypass minato dai tedeschi e di rendere agibile il tracciato Galati-Longi, particolarmente impervio pure a causa di frane per cattiva manutenzione dei fossi delle acque piovane; tuttavia per alcuni anni si viaggiò da Galati a Longi e viceversa in corriera diretta a strada asciutta, altrimenti con trasbordo. Per quelli che non volevano fare l’alzataccia e la scarpinata mattutina vi era l’alternativa del riposo notturno dda donna Ciccia, una anziana signora che si era inventato il ruolo di albergatrice in una casetta che, di buono aveva il tetto, il resto decisamente … tutto da buon amici.
[10] Sfrontata, era pure sposata. La strappai quella lettera.