Io da piccola leggevo sempre al contrario e adesso sono un po' così... Contraria
(Francesca Woodman)

Un volo al contrario. In fondo, precipitare non è che questo. È come perdere le ali. È come chiuderle per sempre. Scegliendo il punto più alto da cui guardare il mondo per l’ultima volta. Francesca lo ha fatto che aveva poco più di vent’anni. Il mondo da lassù era il fondo di un imbuto. O forse, semplicemente, era troppo. Troppo vasto. Troppo rumoroso. Troppo inenarrabile. Troppo, per potergli appartenere ancora. E così lanciarsi, tuffarsi nel vuoto del tutto e del niente, ha rappresentato per lei il solo antidoto al dolore. L’alternativa a quell'impossibilità di dire che in qualche modo la sua breve, ma infaticabile ricerca fotografica, aveva tentato di risolvere. Era il 19 gennaio del 1981 quando Francesca Woodman decise di lasciarsi cadere dall’ultimo piano di un grattacielo di New York. Non aveva che 22 anni. E un’inquietudine di vivere che non le ha dato scampo.

Francesca era nata a Denver, in Colorado, nel 1958, e aveva respirato arte sin dal primo vagito. Suo padre era un pittore, sua madre un’insegnante d’arte e ceramista. La fotografia la conquistò che era appena un’adolescente. Fu suo padre a regalarle la prima macchina fotografica e fornirle insegnamenti di base sul suo utilizzo. Ma per lei quello strumento non serviva a documentare la realtà. Serviva piuttosto a sondarla per rivelarne anfratti introspettivi; serviva come veicolo di esplorazione e presentificazione dell’interiorità. Un’interiorità narrata dal corpo e dai luoghi in cui appariva. Ogni luogo scelto era allora un pretesto per “dire” simbolicamente dell’anima, dei suoi slanci e dei suoi nodi. E perché l’anima respirasse, perché l’anima potesse aver spazio nell’immagine, bisognava che le scenografie fossero essenziali, quasi vuote. Scevre di inutili orpelli. Evocative. Bisognava che i luoghi fossero semplici ma vissuti. Dimenticati e poi rivisitati. Bisognava che somigliassero a memorie.

E vi fu un luogo in particolare che sin da subito apparve come idoneo alla sua necessità estetica: la casa in campagna che i suoi genitori avevano acquistato in Toscana, nei pressi di Firenze, precisamente ad Antella. Qui, fin da piccola, Francesca aveva trascorso le vacanze estive e una volta cresciuta vi tornò per realizzare i primi significativi scatti del suo percorso artistico. Alcune stanze di quella casa divennero ambientazioni ideali per il suo lavoro. La sua formazione, però, avvenne altrove, nel Massachusetts, dove studiò alla Abbot Academy di Andover. Nel 1975 si spostò invece a Providence, per frequentare la Rhode Island School of Design. Qui, dopo il biennio, vinse una borsa di studio che la riportò in Italia per un anno, a seguire i corsi nella sede romana del RISD. Tra il 1977 e il 1978 soggiornò quindi a Roma, dove conobbe tra gli altri Achille Bonito Oliva, colui che nel 2000 curerà una retrospettiva a lei dedicata e dal titolo Francesca Woodman: Providence – Roma – New York, presso Palazzo delle Esposizioni. Nella Urbis Aeterna Francesca realizzò la sua prima mostra personale, che venne inaugurata nel mese di marzo del 1978 presso la libreria Maldoros. Nello stesso anno, però, decise di lasciare l’Italia per completare i suoi studi negli Stati Uniti. Si trasferì poi a New York, in un appartamento dell’East Village, e questa fu la sua ultima tappa. Due anni dopo si suicidò.

Achille Bonito Oliva, all’interno del testo scritto per il catalogo della mostra a Palazzo delle Esposizioni, ha descritto la ricerca della Woodman come un tentativo di autoanalisi e automedicazione. Francesca fotografava e si fotografava per guarirsi, o quantomeno salvarsi, da un male di vivere che ha invece avuto la meglio su tutto. "L’autoritratto in questo caso è un lapsus iconografico che denuncia la paura di cancellazione che il soggetto, Francesca Woodman, percepisce confrontandosi quotidianamente con la realtà circostante, animata o inanimata, organica o inorganica, fauna o flora, serpente o fiore. Qualsiasi presenza entra in conflitto col campo esistenziale dell’io."

Secondo Bonito Oliva la ricerca fotografica della Woodman – visibilmente pregna di influenze Surrealiste e Metafisiche – è stata un tentativo di “vedersi” e “indagarsi” per conoscere il mondo, pur sottraendosi a questo. L’autorappresentazione, quella che in un gergo odierno da social network chiameremmo “selfie”, era per lei un modo di “distanziarsi da sé mediante un’immagine che fa dell’io un altro”. Per raggiungere questo obiettivo – per concentrare tutta l’indagine sul sé che diviene altro da sé e tenta quindi di snodarsi in narrazioni simboliche dell’Io – Francesca necessitava di circostanze insolite, potenzialmente oniriche. E di luci e silenzi particolari. Per questa ragione studiava a lungo prima di scattare. Dietro ad ogni fotografia c’era una vera progettualità: c’erano schizzi, appunti, ricerca di oggetti simbolici e allusivi. Prima di realizzare uno scatto Francesca scriveva, disegnava, analizzava ogni dettaglio della scena. Tutto doveva essere misteriosamente eloquente. Per questo annotava idee ovunque si trovasse e su qualunque supporto: frammenti di carta, tovaglioli, vecchie cartoline. L’improvvisazione non era contemplata dal suo metodo di lavoro. La sua era una raffinata ricerca stilistica e contenutistica.

Francesca amava i lilium e il silenzio di luoghi che non avevano nome. Francesca odiava l’illuminazione artificiale. Per le sue foto si serviva esclusivamente di luce naturale. Addirittura, restava ferma nel luogo esatto in cui aveva scelto di fotografarsi a tremare di freddo come una foglia, ma aspettando ostinatamente la “luce giusta”. E quando questa arrivava, realizzava lo scatto. Uno e definitivo. Senza repliche. Mediante i metodi della lunga o doppia esposizione. Protagonista assoluto delle sue opere – io-non-io narrante – era il corpo. Sostanzialmente, il suo. Spesso nudo, qualche volta coperto o ornato da oggetti improbabili, altre volte vestito da un lungo abito nero o da una bianca camicia di cotone che andava appena a ricoprirle il pube. Ogni scatto era una stanza dell’anima. Un camera psicoanalizzabile. Un discorso profondo e sommesso. Un’iconografia dell’inconscio. “Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza.” Ecco cosa cercava Francesca: la rappresentazione di ciò che è latente, un’immagine interiore. Cercava il rebus, l’enigma, con tracce che potessero suggerirne la soluzione.

Il corpo di Francesca era un corpo vulnerabile: appariva e spariva. Spariva mentre appariva. Appariva mentre fuggiva. Nulla era mai accertabile, né rassicurante. Tutto suggeriva caducità. Corpo ostentato e nascosto, corpo fluido e dirompente. Corpo eburneo e adolescente. Il corpo di Francesca sembrava svanire nell’attimo stesso in cui veniva catturato. Negli scatti romani, ad esempio, il suo corpo si accoccola nudo su un pavimento, avvolgendosi attorno ad una bacinella nella quale un’anguilla raggomitolata disegna una spirale, oppure si accovaccia nudo dietro l’angolo di una parete in ombra, mentre sul lato opposto e speculare, nella luce, si erge una calla bianca.

"La semplicità è stare nudi davanti agli altri", scriveva Alda Merini. E per Francesca la nudità era veramente tutto. A volte posava vestita e a piedi nudi, altre volte indossava null’altro che un paio di scarpette nere. I capelli erano sempre sciolti o morbidamente raccolti, e i suoi occhi restavano grandi a troneggiare sul volto niveo. Sovente giocava con gli specchi: vi saliva sopra guardandosi dall’altro, oppure vi si affacciava con sospetto. Qualche volta appariva ambigua come una creatura di Baltus. Altre volte, timorosa , rasentava una parete. Il suo corpo le era lieve, oppure le era zavorra. L’istante prima volteggiava, l’istante dopo quasi cadeva a peso morto.

Poco prima di morire, nel gennaio del 1981 la Synapse Press pubblicò la sua prima raccolta di fotografie Some disordered interior Geometries| Alcune disordinate geometrie interiori. Si trattava di due fascicoli simili a quelli utilizzati all’inizio del secolo scorso presso le scuole elementari, su cui la Woodman aveva applicato 15 fotografie. In un certo senso, questi due fascicoli rilegati a mano appaiono come una vera e propria autobiografia, una sorta di fotografia interiore, intimissima e disorientante. Parallelismo e perpendicolarità. Angoli acuti e angoli ottusi. Triangoli rettangoli che si inscrivono in circonferenze. E poi, il suo corpo. I suoi gesti. E guanti piegati. E profili. E enunciati. Nella foto in prima pagina, ad esempio, Francesca si copre gli occhi con il polso, recando in bocca un oggetto circolare, mentre tra le frasi stampate sul fascicolo si legge: "La geometria è la scienza dell'estinzione" e "l'estensione di un corpo è la parte di spazio occupata da questo corpo". Insomma, due prodigiosi fascicoli per riassumere il disordine del suo mondo.

"Ho dei parametri e a questo punto la mia vita è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza di caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate". Erano frasi che scriveva ad una cara amica. "Vorrei piuttosto morire giovane". Il mondo dell’arte fondamentalmente le faceva paura, le sembrava subdolo e sfuggente. "Il mondo dell’arte ti dimentica… se vai via cinque minuti".

E invece Francesca se n’è andata per sempre. E precocemente.
Il mondo dell’arte, però, non l’ha dimenticata: l’ha amata, anzi, e l’ama ancora, ricordandola come una delle più grandi esponenti della fotografia contemporanea femminile.