Una rappresentazione elegante, neutra, oggettiva di volti, mani e piedi che, isolati e appoggiati su un piedistallo che sembra quasi sottolinearne l’importanza, o inseriti in teche, come oggetti preziosi, raccontano la loro storia. In uno stato di sospensione, di quiete spazio- temporale, l’occhio può cogliere tratti e segni comuni che raccontano vite in costante interazione con l'ambiente. È attraverso una sorta di analisi chirurgica, di scomposizione, di sezionamento degli elementi fisici avulsi da un contesto, che viene esplorato il concetto di appartenenza comune.
In una società “fatta a pezzi”, nella quale ogni cosa sembra aver perso il suo posto, siamo chiamati a cercare un’interpretazione del concetto di cittadinanza che vada oltre i confini del proprio spazio urbano, osservando il microcosmo come immagine in scala di uno spazio globale.
La cittadinanza è introiettata, resa intima (si fa qui palese un richiamo a un certo “voyeurismo” di Ron Mueck), le linee dei piedi appaiono come cartine topografiche, impronte di strade percorse, i volti parlano di una connessione a origini lontane, le mani sono antenne tese con delicatezza verso il cielo.
Una disintegrazione del corpo che parla di integrazione: piedi, mani e volti di neri, bianchi, cinesi, indiani sono i tanti tasselli di un puzzle grande, meraviglioso ed eterogeneo che si chiama umanità perché siamo gocce d’acqua che, uguali ma uniche, fanno parte di UN grande oceano, come sembrano esclamare stupiti i bambini e i ragazzi dell’ultima sala.
“I bicchieri d’acqua hanno la stessa passione dell’oceano” (Viktor Hugo).
Ne contengono la memoria.