Entrare nella Cappella dell’Incoronata per incontrare A un’eterna luce di Ernesto Morales significa fare esperienza di una soglia, di un varco sottile tra il visibile e ciò che continuamente lo eccede, tra la densità minerale della storia e l’immaterialità vibrante di una luce che non illumina soltanto ma interroga, misura, trasforma. Non è una mostra che si limita ad abitare uno spazio monumentale, ma un evento che sembra attivarlo dall’interno, come se la pittura di Morales, lungi dall’appoggiarsi alle pareti di pietra dorata della cappella normanna, le risvegliasse, ne evocasse una memoria arcaica fatta di bagliori, di riverberi, di attese. Qui la luce non è un semplice tema iconografico né un effetto ottico, ma un principio fondativo, una materia pensante che struttura lo spazio e ne altera la percezione, costringendo lo sguardo a rallentare, a sostare, a misurarsi con una dimensione temporale sospesa.

La Cappella dell’Incoronata, con la sua architettura severa e al tempo stesso accogliente, diventa così un organismo sensibile, un corpo antico che accoglie una pittura capace di dialogare con il sacro senza illustrarlo, di evocare il sublime senza nominarlo, di aprire una meditazione silenziosa che non chiede adesione ma ascolto. Le opere di Morales, disposte come apparizioni cosmiche lungo il perimetro dello spazio, non competono con la monumentalità del luogo ma ne raccolgono l’eco, restituendo una tensione che sembra provenire da molto lontano, come se la luce che le attraversa fosse la stessa che ha guidato, nei secoli, pittori, poeti, architetti, mistici nel tentativo di dare forma all’invisibile. Non è casuale che questa mostra palermitana arrivi dopo esperienze espositive di altissima densità simbolica, dal dialogo con Rothko nella sua terra natale al confronto con i maestri del Rinascimento italiano e con la Minimal Art americana: Morales porta con sé una stratificazione di sguardi e di silenzi che qui trovano una sintesi sorprendente, capace di tenere insieme la verticalità spirituale della pittura sacra e l’orizzontalità cosmica di una visione contemporanea.

In Sicilia, e a Palermo in particolare, la luce non è mai neutra, non è mai semplicemente naturale: è una presenza culturale, letteraria, antropologica, una forza che ha modellato il paesaggio e il carattere, che ha inciso sulle forme dell’arte e del pensiero. Morales sembra riconoscere questa genealogia profonda e sceglie di entrarvi non come ospite, ma come interlocutore consapevole, offrendo alla luce siciliana non una celebrazione retorica ma una risposta pittorica intensa, stratificata, radicale. Le sue superfici cromatiche, ottenute attraverso una tecnica assolutamente personale e un pigmento formulato dall’artista stesso come un moderno alchimista, non si limitano a riflettere la luce, ma la generano, la trattengono, la rilasciano in un continuo mutamento percettivo che rende ogni opera un campo di energia. Avvicinandosi ai dipinti, lo sguardo è attratto da una vibrazione interna, da una profondità che sembra pulsare, come se la pittura non fosse superficie ma soglia, non fosse immagine ma evento.

In questo senso, la mostra si configura come una vera e propria meditazione visiva, un esercizio di attenzione che richiede al visitatore di abbandonare le categorie consuete della visione per accedere a una dimensione più lenta, più intima, quasi contemplativa. La luce, per Morales, è principio e misura di ogni percezione, ma è anche una sostanza incandescente che dà vita alla pittura stessa, un elemento che connette ciò che è tangibile con ciò che trascende la materia. In questa connessione risiede forse il nucleo più profondo della sua ricerca: la volontà di rendere visibile una forza che non si lascia possedere, di offrire allo sguardo un’esperienza che va oltre la superficie, verso una zona in cui il visibile e l’invisibile si incontrano senza fondersi mai completamente. Le opere esposte alla Cappella dell’Incoronata non raccontano, non illustrano, non spiegano: si offrono come presenze, come apparizioni di cromo e di luce che chiedono di essere attraversate interiormente. In questo attraversamento, il tempo sembra perdere la sua linearità e trasformarsi in una durata densa, in un “tempo sospeso” che Morales stesso evoca come spazio privilegiato del suo dialogo con la pittura.

È un tempo che non appartiene né al passato né al futuro, ma a una dimensione dell’esperienza in cui presenza e assenza, intensità e silenzio convivono in una tensione costante. Il titolo della mostra, A un’eterna luce, tratto dall’ispirazione offerta dagli scritti di Vincenzo Consolo, risuona allora come una dichiarazione esistenziale prima ancora che estetica: essere “affissi a un’eterna luce” significa riconoscersi in una condizione di esposizione permanente, di vulnerabilità luminosa, di fedeltà a un principio che non concede tregua ma offre senso. Morales sembra riconoscere in questa definizione la propria postura artistica, il proprio innamoramento perenne per la luce come idea, come energia, come destino. La Sicilia, “luogo di luci, di incroci o giochi di luce”, diventa così non solo contesto geografico ma spazio mentale, teatro di una risonanza profonda tra pittura e parola, tra visione e memoria. Le evocazioni letterarie che attraversano idealmente la mostra, da Jacopo da Lentini a Sciascia, da Piccolo a Consolo, non sono citazioni erudite ma presenze sotterranee, come se la pittura di Morales si iscrivesse in una tradizione che ha fatto della luce una chiave di lettura del mondo, una misura etica ed estetica insieme.

La curatela di Serena Ribaudo accompagna questo percorso con discrezione e rigore, lasciando che siano le opere a instaurare un dialogo diretto con lo spazio e con lo spettatore, ma rendendo al tempo stesso percepibile la densità di un confronto intellettuale che affonda le radici nel pensiero di Mark Rothko e nella sua idea dell’arte come “evento dello spirito”. Di fronte ai dipinti di Morales, questa definizione trova una concretezza quasi fisica: lo spirito non è qui un’entità astratta, ma una vibrazione che prende forma nel colore, nella materia, nella luce che si fa corpo pittorico. Le “melodie aurorali” di cui parla la curatrice non sono semplici metafore poetiche, ma descrivono con precisione l’esperienza sensoriale di un’opera che sembra emettere suono, ritmo, respiro, come se ogni quadro fosse una soglia sonora prima ancora che visiva. Il bagliore di fiamma che guizza dalle superfici pittoriche non è mai aggressivo, ma intenso, concentrato, capace di rinnovare “il segreto di natura” senza svelarlo del tutto.

In questo equilibrio tra rivelazione e mistero risiede la forza più autentica della mostra, la sua capacità di parlare a un livello profondo senza ricorrere a simbolismi espliciti o a narrazioni preconfezionate. A un’eterna luce è una mostra che non chiede di essere compresa, ma attraversata, non invita a un consumo rapido dell’immagine, ma a un’esperienza che continua a lavorare interiormente anche dopo l’uscita dalla Cappella. In un tempo segnato da una sovraesposizione visiva e da una perdita di profondità dello sguardo, l’opera di Ernesto Morales si offre come un atto di resistenza silenziosa, come un invito a ritrovare nella luce non un’illuminazione istantanea, ma una pratica paziente di attenzione e di ascolto. È forse in questo spazio di sospensione, tra la pietra antica e il colore incandescente, tra la storia e il cosmo, che la pittura torna a esercitare la sua funzione più alta: non decorare il mondo, ma renderlo nuovamente abitabile attraverso un’esperienza sensibile che ci ricorda, con discrezione e intensità, che siamo ancora capaci di vedere.