Sull’isola di San Giorgio Maggiore, nel cuore della laguna veneziana, esiste un luogo dove la geometria del pensiero incontra la densità della natura. È qui che prende forma il Labirinto Borges, un giardino dedicato alla figura enigmatica dello scrittore argentino, progettato dall’architetto inglese Randoll Coate e realizzato nel 2011 dalla Fondazione Giorgio Cini. La pianta, composta da oltre tremila piante di bosso, è un testo vegetale che si legge con i piedi, un dedalo che ricorda gli infiniti del tempo, i nodi della memoria e l’ebbrezza dello smarrimento.
La scelta dell’isola non è casuale. San Giorgio Maggiore è stata per secoli un luogo di silenzio e studio, sede dell’antico monastero benedettino fondato nell’VIII secolo, poi ricostruito con impianto palladiano nel pieno Cinquecento. La sua chiesa, imponente e misurata, è uno degli apici della classicità veneziana. Andrea di Pietro, detto il Palladio, qui dispiega la sua visione di armonia tra ordine architettonico e spiritualità: colonne corinzie, proporzioni auree, luce come materia. Camminando lungo la navata centrale si percepisce una regia dello spazio che affida al vuoto la responsabilità del sacro. I pavimenti, con le loro trame geometriche in marmo rosso di Verona, nero di Belgio e bianco d’Istria, sembrano proiezioni bidimensionali di forme tridimensionali, quasi un labirinto astratto e silenzioso.
Ma il vero labirinto, oggi, si snoda all’esterno, nel giardino che prosegue la tradizione dei “luoghi per pensare”. Borges, che visse la cecità come dono e condanna, scriveva nell’Aleph: “Ogni volta che percorro i labirinti di Londra mi sento felice e colpevole. Il labirinto è una forma della mia pena, un emblema della mia prigione”. Il suo labirinto, qui a Venezia, è al contrario una soglia che invita all’apertura. Non si tratta solo di perdersi, ma di liberarsi dalla logica lineare per abbracciare quella poetica, frattale, della natura.
Nel contesto urbano contemporaneo, sempre più dominato da spazi ostili, controllati, deterrenti, il labirinto diventa gesto sovversivo. È l’antitesi del design ostile: non respinge, ma accoglie. Invita alla sosta, all’incontro, al vagare inatteso. In un’epoca in cui ogni spazio è monetizzato o sorvegliato, il giardino-labirinto rivendica il diritto all’erranza, alla contemplazione, al gioco. Non è un parco tematico, né un dispositivo di controllo, ma un ecosistema narrativo che richiama un’urbanistica del possibile, del morbido, del vivente.
Non è un caso che esperienze simili stiano fiorendo in diverse parti del mondo, spesso grazie all’iniziativa delle comunità locali e con uno sguardo innovativo alla relazione tra corpo, natura e città. In Camerun, a Douala, Lucas Grandin ha creato Le Jardin Sonore: una struttura in legno che è al tempo stesso giardino, belvedere, strumento musicale e impianto di fitodepurazione. Qui l’acqua, le piante e i suoni si intrecciano in un sistema vivente che unisce sostenibilità e bellezza, coinvolgendo gli abitanti nel processo di creazione e cura dello spazio pubblico.
A Melbourne, nel Serendip Sensory Garden, il progetto sensoriale è stato pensato per includere tutte le abilità, offrendo percorsi olfattivi, tattili, visivi e acustici che stimolano la percezione e il benessere. Un giardino che diventa esperienza terapeutica e pedagogica, una soglia tra natura e città. In Corea del Sud, a Seoul, l’idea di labirinto assume la forma di un giardino multilivello nel parco del fiume Han: siepi, piante alte e sentieri sinuosi compongono un paesaggio di immersione, nato per educare alla biodiversità e offrire rifugio dalla densità metropolitana. In Brasile, ad Amantikir, un parco sensoriale di oltre sei ettari propone una sequenza di giardini tematici, tra cui grandi labirinti di siepi e d’erba. Progettato per valorizzare il paesaggio montano e promuovere un turismo lento, l’Amantikir Park diventa laboratorio ecologico e culturale, dove la contemplazione del verde si intreccia con l’esperienza corporea del camminare.
La città ha bisogno di giardini per perdersi e ritrovarsi. Luoghi dove il tempo non sia produttivo ma esperienziale, dove il corpo non sia costretto alla prestazione ma alla percezione. In questo senso, il labirinto di San Giorgio e i suoi omologhi in giro per il mondo si legano profondamente al concetto di design biofilico: una progettazione che riconosce il bisogno primario dell’essere umano di interagire con la natura. Lontano dalle aiuole ornamentali e dai render verdi di facciata, il biofilico autentico accoglie l’imperfezione, la varietà, la crescita spontanea.
Il giardino labirintico si colloca allora tra arte, architettura e filosofia, proprio come la chiesa di Palladio che lo ospita nei pressi. Una regia dello spazio che alterna il rigore del marmo alla fluidità della foglia, la sequenza delle colonne al disordine apparente delle svolte vegetali. L’uno parla alla ragione, l’altro al sogno. L’architettura e il giardino non si oppongono, si intrecciano: sono due vie parallele per accedere all’interiorità, due forme di meditazione spaziale.
Nel pensiero utopico contemporaneo, il giardino e il bosco tornano a essere immagini centrali di un possibile futuro desiderabile. Non sono più solo luoghi di ristoro o contemplazione, ma veri e propri dispositivi ecologici, spazi politici e poetici insieme. Artisti come Tomás Saraceno immaginano biosfere sospese, architetture leggere e viventi ispirate alle ragnatele, in cui si fondono tecnologia, natura e coabitazione interspecie.
Tomás Saraceno ha concepito Aerocene come un manifesto poetico-tecnologico per immaginare un’epoca post fossile. Il progetto, lanciato nel 2015, promuove sculture aerostatiche realizzate in Mylar, sospese grazie esclusivamente al calore solare e alle correnti termiche, senza impiegare nessun combustibile o gas inquinante. Le prime sperimentazioni includono voli in varie regioni del mondo: Europa, America del Sud, White Sands (USA) .
La collaborazione con il MIT ha portato alla creazione di Float Predictor, uno strumento digitale che simula le traiettorie delle sculture in base ai modelli atmosferici, avvicinando la scienza al grande pubblico in occasione di eventi come COP21 e il Forum di Davos.
Nel gennaio 2020 il volo “Aerocene Pacha”, effettuato sul Salar de Uyuni, ha segnato un nuovo traguardo: primo volo umano certificato senza carburanti fossili o gas, sostenuto solo dall’energia solare, con record di durata e distanza. Saraceno vi ha coinvolto comunità indigene locali, integrando rituali ancestrali e testimonianze contro lo sfruttamento ambientale. Oltre alle sculture volanti, Aerocene si declina in una comunità globale, un’app (Aerocene App) per seguire voli e raccogliere dati ambientali, e nel Museo Aero Solar, dove si trasformano sacchetti di plastica in bolle leggere sospese. L’idea forte è restituire all’aria e all’atmosfera una dimensione politica: luoghi comuni, comunità planetarie, sensibilità ecologica e democrazia dei cieli.
Luc Schuiten disegna città del futuro dove le strutture architettoniche sono cresciute, non costruite, modellate dal tempo e dai processi vegetali: vere eco-topie viventi. Luc Schuiten immagina un futuro in cui le città diventano organismi viventi, ispirati ai meccanismi della natura, un concetto che lui definisce “archiborescenza”. Queste città-vegetali integrano le funzioni urbane in strutture arboree e biologiche: gli edifici crescono e respirano come alberi, riproducendo i processi di fotosintesi e cicli sostenibili. Ogni elemento, dalle facciate ai tetti, è vivente, atto a produrre ossigeno, riciclare acqua, ospitare biodiversità e generare cibo.
L’obiettivo di Schuiten è superare l’antropocentrismo: abbandonare materiali inquinanti e sistemi isolati, per adottare una mentalità ecologica complessa. Le città diventano ecosistemi autoregolati, dove ingegneria e architettura ricalcano i modelli naturali, promuovendo maggiore autonomia energetica e equilibrio con l’ambiente. Attraverso esempi illustrativi, come torri viventi e palazzi-albero, propone un urbanismo rigenerativo. Le spore e i rami assumono funzione strutturale, le foglie integrano pannelli fotovoltaici naturali, e le radici sostituiscono le fondamenta tradizionali, incentivate alla nascita di foreste urbane e comunità resilienti.
Allo stesso modo, il bosco, da sempre archetipo dell’ignoto e del possibile, si carica oggi di nuovi significati. Per Stefano Mancuso, neurobiologo delle piante, è una società diffusa e democratica, dove ogni organismo coopera e comunica in silenzio, offrendo un modello radicalmente diverso rispetto a quello antropocentrico. Le città-foresta di Stefano Boeri o i progetti di forestazione urbana in Asia e Sud America incarnano questa visione: edifici ricoperti di piante, corridoi ecologici, spazi selvatici che riconfigurano il paesaggio urbano come ecosistema. In questa linea si muovono anche architetti come Bjarke Ingels, con la sua idea di sostenibilità edonistica, o i ricercatori di Space10, che esplorano scenari di rewilding urbano e agricoltura integrata.
A fare da contrappunto letterario, Italo Calvino con Il barone rampante e Henry David Thoreau con Walden offrono due ritratti esemplari dell’uomo che si ritira nella natura non per fuggire, ma per reinventare un nuovo modo di stare al mondo. In questa prospettiva, il giardino e il bosco non sono utopie astratte, ma luoghi concreti in cui si sperimentano relazioni, ecologie e forme di libertà possibili.
Forse, come suggeriva Borges, "il labirinto è una casa costruita per confondere". Ma confondersi, in questi tempi lineari e accelerati, è forse la forma più alta di resistenza. Ritrovare sé stessi, camminando senza meta, tra le siepi di un’isola antica o lungo un sentiero urbano in un paese lontano, può diventare un atto poetico e politico. Un invito, per l’architettura contemporanea, a tornare a progettare con delicatezza, ascolto e complessità.